I rischi e la vita sulla Sea-Watch
Quando stai per partire per una missione, nei giorni precedenti, sei pervaso da una strana eccitazione. Immagini azione, salvataggi, incontri. La realtà, come spesso accade, è diversa. A volte, come oggi, si tratta solo di aspettare che una bolla di maltempo passi. È frustrante, ma dà anche l’occasione di guardare oltre i protocolli e farsi delle domande. Ad esempio: perché le persone che sono qui, sono qui? Lo chiedo a qualcuno dell’equipaggio della Sea-Watch. Spesso sono persone così abituate, che magari è un po’ che non ci pensano, a perché lo fanno. Verena, medico di bordo, dice che, quando cominci a lavorare in situazioni umanitarie, quando hai visto coi tuoi occhi cosa succede fuori dai confini rassicuranti del nostro quotidiano europeo, ti scatta qualcosa. Quando guardi le notizie, alla televisione, all’immagine manca qualcosa: tu, che ti rendi utile in qualche modo. Dice che diventa molto difficile enjoy your privileges. E quindi, spinto da non si sa bene quale forza profonda, ti trovi ancora e ancora in situazioni pericolose, assurde, da inventare, avendo tra le mani la vita di sconosciuti che non hanno che te, in quel momento. José, l’elettricista di bordo, americano di Houston con genitori messicani, dice che lui è qui perché cerca un riscatto familiare: i suoi sono stati migranti, ora lui è cittadino americano, ha un passaporto forte, ma fa fatica a starsene a guardare. Perché si muore nel Rio Grande come nel Mediterraneo. Prima lavorava in un mercantile, sempre come elettricista, ma era stanco di lavorare per far diventare ancora più ricco un milionario. “Qua – dice – lavoro per gli interessi del proletariato, non dei padroni”. Nikolas dice: “Se vedi qualcuno affogare in piscina, di fianco a te, provi a salvarlo. E allora perché se vediamo qualcuno affogare nel Mediterraneo no? “. Julie dice: “Perché mi piace l’idea di costruire un posto sicuro per delle persone che vengono dal pericolo e vanno, verso il pericolo”. Molti rispondono semplicemente: perché siamo cittadini europei e non ci rassegniamo all’idea che l’identità europea consista nel proteggere i propri confini anche a costo della vita delle persone. E io? Io penso per questo, per scriverne, per raccontare. Per stare anche io, in qualche modo, dentro l’immagine del televisore, che, vista da vicino, è tutta un’altra storia.
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