Ah, povera Senna! Qualcuno spieghi al macho Macron che non si tratta così il fiume più femminile di tutti, la “poesia di Parigi”, secondo Cendrars, sconciata tanto malamente in pubblico (e che pubblico: un miliardo e mezzo di persone vocianti in calzoncini corti e birra) rivelandone l’intimità guastata, come mai si dovrebbe fare con una anziana signora che è stata, per tante generazioni, la giovinezza.
Noi veniamo per affiliazione dalla Rive Gauche, la “riva sinistra”, dove si danzò la rivolta studentesca. E prima ancora, per suggestione, dai sottotetti romantici d’antico Novecento, che furono gli anni Venti della Generazione perduta, quando Gertrude Stein ospitava al 27 di Rue de Fleurs, angolo boulevard Raspail, Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos, Syvia Beach e naturalmente Ernest Hemingway, cronista del Toronto Star, che andavano a bere gin a metà del pomeriggio. E poi soli, di notte, tutti a scrivere le loro storie, mai così belle, in futuro, rispetto agli anni in cui, racconterà Hemingway, “eravamo molto poveri e molto felici”. E all’alba di notti insonni, tutti a camminare lungo le sponde alberate della Senna, incantati dalle chiatte che apparivano e scomparivano dentro la bruma, con i fumaioli che sembravano smezzate Gauloises accese e sbuffanti. E la luna “ricurva come uno zecchino”. Compreso il solitario James Joyce che se ne andava per ore a camminare ascoltando la musica del fiume, pensando ai pensieri di Molly che intanto scorrevano nell’inchiostro dell’Ulisse.
La Senna è sempre stata la regina di Parigi. Nasce pura in Borgogna, su un piccolo altopiano, passeggia e qualche volta si riposa per 777 chilometri, un dislivello che non supera i 400 metri dalle sorgenti all’estuario di Le Havre, sul mare d’acciaio della Manica. Non ha né rapide né cascate. Non diventa mai troppo grande, né troppo piccola. Sfiora centinaia di boschi, piccole città, colline, castelli, ma è Parigi la sua alcova. È lì che disegna i suoi ponti più belli, i palazzi più maestosi, l’altare della cristianità di Notre Dame e quello della ragione del Louvre. Taglia Parigi da Est a Ovest. Si addensa in due isole sontuosamente chic Ile de la Cité e l’Ile Saint-Louis. Offre il Pont d’Iena al lampadario rovesciato della Torre Eiffel che Maupassant giudicava così brutta da andare ogni giorno al ristorante intagliato a metà della sua griglia, “l’unico punto di Parigi – ha scritto – in cui la Torre Eiffel finalmente non si vede”. Lasciandosi consolare proprio dalle acque della Senna che dividono in due Parigi e insieme la riunificano con i suoi 37 ponti, la riva sinistra che vuol dire maggio 1968, la spiaggia della contestazione sotto l’asfalto del conformismo, librerie, bistrot notturni. E la riva destra, i palazzi del potere, il denaro, la politica.
Nessun turista ha rinunciato all’incanto della Senna. Che è oasi dentro la città, sulle cui rive in pietra si fa musica e si fa jogging. Si dorme. Si fa colazione. Ci si innamora e ci si separa, come raccontano i poeti e come ha narrato il cinema, dall’onda di Godard alle nostalgie di Woody Allen. La Senna fa parte della nostra storia. E ne racconta centinaia. La più bella si chiama L’inconnue de la Seine, la sconosciuta della Senna, una bellissima ragazza rimasta senza nome, senza identità, che nell’inverno del 1900 fu ripescata dalle sue acque gelide. Il medico dell’obitorio fu così colpito dalla sua bellezza che volle fabbricarne il calco del viso. Era più di tutto il suo sorriso enigmatico a risultare conturbante. I giornali la battezzarono “Monnalisa della Senna”. Ispirò Picasso, Man Ray, Camus, affascinati dal suo mistero. E confermando che le sue acque restavano “le più romantiche del mondo” anche di fronte alla morte. Almeno fino a queste disgraziate Olimpiadi.
Se un tempo Claude Monet, il pittore, ci faceva galleggiare il suo atelier per estrarne tutti i colori dell’ombra, Macron pretende di gettarci i nuotatori, trasformarli in naufraghi del nostro tempo. Che è davvero perduto dentro le chiazze gorgoglianti dei colibatteri, velenosi quanto la stupida propaganda dei politici.