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Tre storie indiane, due braccianti morti, un dibattito surreale

22 Agosto 2024

Stesso nome, stessa terra, stessa morte. Dalvir Singh è morto di caldo e lavoro il 16 agosto, qualche settimana dopo il suo collega e connazionale Satnam, in un’azienda agricola dell’Agro pontino. Aveva 54 anni e, almeno, il permesso di soggiorno e un contratto di lavoro regolare. Gli sono stati dedicati solo trafiletti: la storia non ha i contorni tragici e terrificanti di quella del suo connazionale Satnam, morto dissanguato dopo che una macchina avvolgitrice gli aveva staccato il braccio e il padrone lo aveva scaricato come spazzatura davanti a casa.

Poco dopo aver letto della morte di Dalvir, ci siamo imbattuti in un terzo Singh, guardando un video reportage prodotto dalla piattaforma Arte su Internazionale. Lui si chiama Amanjot Singh, è arrivato a Fundão, nel Portogallo centrale, 5 anni fa. Oggi ha un contratto a tempo indeterminato e sta avviando le procedure per ottenere la cittadinanza. Dice che ama il suo lavoro, la sua azienda, la cultura e la gente del Paese dove vive e dove immagina il suo futuro.

Direte che anche qui ci sono storie virtuose di accoglienza. Ma Fundão, che come molti altri comuni del Portogallo rurale ha perso la metà della popolazione dagli anni Sessanta, sei anni fa ha avviato un programma di accoglienza, allestendo un centro di formazione per i migranti, nei locali di un ex seminario.

C’è Eugéne Kolli, arrivato dalla Guinea dopo un anno in un campo nel Sud Italia. Del nostro Paese non dice una parola, possiamo tuttavia immaginare che ricordo ne abbia. Quando invece racconta di come gli abitanti di Fundão lo abbiano fatto sentire benvenuto, sul volto si apre un sorriso gigantesco. Ottocento migranti come lui hanno beneficiato di assistenza linguistica, sanitaria, amministrativa: dopo sei anni Fundão, 26 mila abitanti, ospita 74 nazionalità diverse.

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Il senso di tutto questo lo spiega con limpida semplicità João Motta, un assistente sociale che ha contribuito a creare il protocollo di accoglienza: “La migrazione non si può fermare. Se non facessimo questo lavoro i migranti arriverebbero comunque. La chiusura del centro non li farebbe sparire e le aziende locali avrebbero comunque bisogno di manodopera. La differenza è che in questo modello hanno diritti, imparano a comunicare, non dormono per strada”. In una parola si integrano.

La gestione dei flussi migratori è un problema complesso e vasto, probabilmente non ci sono ricette valide per tutti e sicuramente non bastano centri come quelli di Fundão. Certamente però si può scegliere di affrontare il problema invece che delocalizzarlo, per esempio in Albania. Tra l’altro: i mirabolanti centri governativi al di là dell’Adriatico avrebbero dovuto entrare in funzione il 20 maggio, poi il 1º agosto, poi forse il 10 agosto, a oggi non se ne ha notizia.

Intanto però la maggioranza si spacca sullo ius scholae, cioè la sconvolgente idea di dare la cittadinanza a chi ha completato il ciclo scolastico in Italia. Una proposta che è tornata al centro del dibattito solo grazie ai successi azzurri alle Olimpiadi di Parigi, in diversi casi conquistati da italiani di seconda generazione. Tajani dice agli altri “svegliamoci, il mondo è già cambiato”, cosa che, per inciso, vale anche per le unioni tra persone dello stesso sesso: e ci tocca pure dar ragione a Tajani! Gli alleati ribattono che “non è nel programma” (risposta, per restare in tema scolare, da asilo).

È solo la consueta manfrina d’agosto, buona per i giornali e i tg del servizio pubblico, che ben si guardano dal parlare dei centri albanesi, così diversi da quello di Fundão di cui racconta Internazionale. I tre Singh – Satnam, Dalvir e Amanjot – hanno in comune il cognome e tre destini diversi. Due sono di morte e l’altro di speranza: purtroppo i primi due sono italiani.

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