Quarantaquattro anni dopo la morte di 85 persone e il ferimento di altri 200 innocenti, lo scorso 2 agosto non è mai stato così divisivo. Nel giorno della commemorazione della strage di Bologna è andato in scena uno scontro fra l’Associazione familiari delle vittime, guidata da Paolo Bolognesi, la premier Giorgia Meloni e i vertici di FdI. All’affermazione di Bolognesi che “le radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”, ha prima replicato la premier parlando di “attacco grave” e poi Federico Mollicone.
Il deputato di FdI e presidente della Commissione Cultura ha spiegato che “era chiaro dall’inizio dell’indagine su Bellini, criminale conclamato e collaboratore dei Servizi e del procuratore Sisti, e che mai ha avuto a che vedere con noi, che l’obiettivo di parte della magistratura fosse quello di accreditare il teorema per cui nel dopoguerra gli Usa, con la loggia P2, il neofascismo e perfino il Msi avrebbero condizionato la storia repubblicana con la strategia della tensione e le stragi”.
Qual è il riferimento di Mollicone? A parlare della vicenda è il libro L’uomo nero e le stragi, scritto dal giornalista Giovanni Vignali, edito da Paper First nel 2021, e da oggi in libreria in versione aggiornata dopo l’esito del processo d’Appello dell’inchiesta ribattezzata “Mandanti”, proprio sulla strage alla stazione di Bologna.
Negli ultimi tre anni ci sono state due sentenze di primo e secondo grado che, in attesa della Cassazione, mettono un punto fermo su quanto accadde quella mattina, dove un ordigno sconvolse la vita democratica e paralizzò l’Italia. Paolo Bellini, killer nato a Reggio Emilia, affiliato ad Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie, è da ritenersi il quinto uomo dell’azione compiuta dai Nuclei armati rivoluzionari Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini (condannati in via definitiva ma nel frattempo già liberi), mentre si attende un pronunciamento definitivo per Gilberto Cavallini.
L’uomo nero e le stragi è a un tempo la storia di un terrorista, Bellini, da anni sospettato di essere in contatto coi servizi segreti, reo confesso di oltre dieci omicidi, e del processo che a Bologna lo ha visto imputato dopo una scoperta clamorosa negli archivi: il fotogramma di un filmino amatoriale girato da un turista il 2 agosto 1980 in cui si vede un uomo riccio, coi baffi, aggirarsi proprio in stazione, nei minuti attorno all’esplosione. Un uomo del quale l’ex moglie, in aula, ha detto: “Purtroppo è lui, è Paolo” smontando il suo alibi.
Vignali segue le tracce di Paolo Bellini, conosciuto come “la primula nera”, dagli esordi criminali sino in Brasile, negli Anni 70, dove il killer, in fuga dopo avere ucciso il militante di Lotta Continua Alceste Campanile, si opera al volto per rendersi irriconoscibile e cambia nome. C’è poi il rientro di Bellini in Italia con la falsa identità e il suo muoversi proprio a Bologna nei mesi della strage, gli inquietanti rapporti col procuratore capo della città felsinea Ugo Sisti (che a 24 ore dall’attentato fece perdere le tracce e andò a rifugiarsi proprio nell’hotel del padre del latitante) e la scia di uccisioni compiute su commissione in una guerra di ’ndrangheta.
Tornando alle dichiarazioni di Mollicone e a quella parte di Fdi, la presa di distanza da personaggi come la “primula nera” appare il tentativo di riscrivere e depurare la storia del Msi. Operazione che, per quanto riguarda Bellini, è facilmente smentibile: leggendo L’uomo nero e le stragi si scopre che furono proprio tre senatori del Msi a permettere al killer, rientrato in Italia sotto falso nome, di sfuggire all’ordine di cattura.
Dieci anni dopo i primi sospetti sul suo coinvolgimento nella strage di Bologna, Bellini tornerà sulla scena con un altro ruolo, tuttora al centro delle attenzioni dei magistrati di Firenze e Caltanissetta, recitato nel 1992-’93: quello di mediatore fra i carabinieri e la mafia in una trattativa che avrebbe dovuto portare alla liberazione di cinque superboss di Cosa Nostra, che in cambio avrebbe dovuto restituire preziosi quadri rubati alla Pinacoteca di Modena. Il tutto negli stessi mesi in cui morivano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poco prima che i corleonesi sferrassero l’attacco al patrimonio artistico del Paese con le bombe a Firenze, Roma e Milano.