Agosto ci consegna problemi irrisolti. Le guerre si inaspriscono. L’umanità pare abbia perduto la percezione della storia. Si snocciola il presente, metastorico ma concretissimo per forza distruttiva.
E così, anche in agosto, dai monti, dal mare, dalle armoniose campagne, dalle splendide città di una tradizione antica, abbiamo visto, da non troppo lontano, accatastarsi e accumularsi i morti innocenti. Dalle classi dirigenti occidentali non è giunto alcun percepibile soffio di voce che dicesse “pace”. L’Ucraina è stata aggredita e ha il diritto di difendersi. La strage di Hamas è stata orrida. Ma la risposta non può essere solo “guerresca”, arruolare parole di odio, oscurare la ragione. La guerra non è uno strumento di risoluzione delle controversie. Talvolta è un’estrema e disperata necessità. Se si apre quella porta, va richiusa il prima possibile con un giusto compromesso. La guerra, anche se mossa da legittime ragioni, porta in sé l’odio che intossica entrambi i contendenti, sospende le leggi e l’etica frenante.
Ha preso piede, invece, in tanti leader democratici e nei media l’orgoglio, persino l’entusiasmo, di una risposta che stronchi definitivamente il nemico. Le posizioni che si differenziano sono direttamente ascritte ai sostenitori del campo opposto. Eppure tutti sanno che ci vuole un compromesso, se non si intende far saltare il pianeta. Ma se non si invoca la pace, mentre si fa la guerra, non ci sarà compromesso. Se si disconosce la storia e, per questo, non si colgono le briciole di verità di ciascuno, se il nemico, per quanto odioso, assume le sembianze del male assoluto e si “hitlerizza” Putin, non ci sarà compromesso. Se l’Occidente democratico non si fa un esame di coscienza sull’Iraq, la Libia, la Siria, l’Afghanistan e l’intera storia di violenze e di aggressioni che gli appartiene, non ci sarà compromesso.
Non c’è tempo da perdere. L’Europa è spaventosamente indietro, l’Italia della Meloni peggio, e il Pd deve uscire da un certo equilibrismo diplomatico e imboccare, con la parte più avveduta del mondo cattolico e giovanile, la strada maestra della pace e della trattativa. Questo vuol dire rompere con un atlantismo durato troppo, riconquistando autonomia nell’arena globale. Siamo territori votati al raccordo, all’integrazione delle diverse culture, allo sviluppo di un pensiero “meridiano”, cresciuto nella profondità di radici secolari, diverse ma intrecciate per doni offerti e ricevuti. Il mondo è multipolare. Ridurlo a uno significa guerra. Guai a non vederlo per presunzione ideologica. Gli Usa giocano una oscillante partita per rispondere alla loro crisi di egemonia. Non dobbiamo legarci mani e piedi alla loro politica. Alleati sì. Ma con il nostro profilo e la nostra funzione. Non ho dubbi tra Harris e Trump. Perfino un confine antropologico li divide. Ma il sacrosanto slancio per la vittoria dei Dem non può significare che noi siamo loro, che rappresentino l’esempio per la sinistra italiana, che da loro dobbiamo solo imparare. È subalterno pensarlo. I Dem sono una galassia di diversità, ma la loro guida attuale, accanto al coraggio di posizioni sociali avanzate e la difesa dei diritti delle persone, mantiene un’intransigenza egemonica in tutte le crisi aperte nel mondo.
Se l’Europa e la sinistra non conquistano una distanza, anche critica, dagli Usa, come si rapporteranno a quel grande Paese se dovesse vincere Trump? Giustamente lo consideriamo un razzista, un violento populista che non rispetta le regole e le istituzioni; allora, se diventerà capo dell’America, gli Usa non potranno più essere un nostro alleato, la guida della nostra alleanza militare, il fondamentale ispiratore di tutto l’Occidente in lotta contro il totalitarismo, gli islamici, i cinesi? A quel punto spero che il mainstream ci risparmi gli editoriali sull’America come la più grande democrazia del mondo.
Anche sul fronte della Palestina c’è una reticenza imbarazzante. Il dolore, che mai si potrà dimenticare, arrecato al popolo ebraico dalla modernità occidentale che partorì il nazismo, non deve confondersi con lo Stato di Israele né tantomeno con l’attuale sciagurato governo di Netanyahu. L’antisemitismo è il frutto avvelenato dell’invidia nei confronti di un popolo che ha rappresentato lo scrigno del pensiero, della filosofia, della letteratura, della scienza europee. Ma il giudizio politico sulla guida attuale di Israele concerne la condotta di uno Stato, che va giudicata per quello che è. La strage di Hamas meritava una risposta. Ma non la rappresaglia su innocenti inermi e indifesi, una guerra “sporca” che si allarga ad altre nazioni, perché priva di un obiettivo circoscritto e realistico. La replica a un’offesa tremenda e sanguinaria deve mantenere una proporzionalità, se non si vuole scassare con la pura forza ogni equilibrio internazionale, arrivando a una irriducibile contesa tra Occidente e resto del mondo.
Un ulteriore dilemma che ci lascia agosto riguarda la costruzione in Italia di un campo alternativo alla destra, indebolita dalla sua pessima prova di governo (ma non sconfitta). Da anni sostengo la necessità di un’alleanza che comprenda un soggetto liberale unitario, ambizioso e moderno, che sia in grado di raccogliere il 10%. Nessuno ha operato in questo senso, a partire da Renzi e Calenda, che alla fine, divisi, hanno portato al fallimento le loro aree politiche. Mi sembrava il momento per ripartire con un progetto collettivo di un nuovo centro dinamico e innovativo, che non avanzasse veti contro alcuno, ma non riproponesse in prima fila i leader sconfitti di Italia Viva e Azione. Di questo aveva parlato lo stesso Renzi, immaginando perfino una sorta di nuova Margherita. Bene. Nel periodo agostano invece si sono moltiplicati confronti e iniziative che hanno messo al centro proprio chi (appunto, Renzi) avrebbe dovuto per una volta aiutare un processo virtuoso, piuttosto che volerlo incarnare, interpretare, condizionare, dando perfino maliziosi consigli al Pd, circa il modo di trattare la sua segreteria Elly Schlein.
Renzi si dimostra ancora una volta un politico svelto e scaltro. Ma non intendo parlare di lui. Piuttosto del quadro che si sta determinando: da inopportuno si sta trasformando in un letale errore politico. Giusto far cadere i veti, stravagante dare le chiavi dell’allargamento del centrosinistra a Renzi. L’ex premier ha esaurito un ciclo. Ha lasciato detriti che non vanno scaricati sul futuro, ma suggeriscono quella condotta misurata che in politica è un aspetto decisivo. Quello che magari potrebbe essere possibile per il Pd (non credo), non è sicuramente digeribile dal resto della sinistra e dal M5S. Legittimamente. Aiutare l’emergere di un centro democratico deve essere un obiettivo concordato dall’insieme della coalizione; non uno strappo politicista solitario, che rischia di essere una bolla mediatica anziché una ricollocazione di parti dell’elettorato moderato. E ogni ipotesi di accordo va messa con i piedi per terra circa i programmi, i valori, i comportamenti condivisi.
Le prossime elezioni locali sono una prova fondamentale. A partire dalla Liguria, dove un po’ solitariamente la candidatura autorevolissima di Orlando cerca di comporre un quadro difficile. Si tratta di riprendere il filo un po’ disperso: grandi personalità democratiche potrebbero ispirare nelle diverse realtà liste civiche e far convergere tutte le risorse (senza veti) che hanno nel cuore il rafforzamento del centrosinistra; in vista della costituzione di una forza politica liberale, moderna, innovativa e unitaria che in futuro, nella sfida decisiva delle elezioni politiche, ci permetta di vincere. Altrimenti magari riusciremo a scavallare la prossima competizione regionale, ma troveremo ostacoli insormontabili per l’alleanza nazionale. E allora non sarà credibile gridare al presunto settarismo antiunitario di Conte e di Fratoianni. Perché sarebbe solo propaganda.