15 anni di Fatto Quotidiano

La prima cosa bella – I 15 anni del Fatto Quotidiano. I ricordi del primo giorno e gli auguri

Di Fq
23 Settembre 2024

Da oggi giornalisti e collaboratori ricordano la loro “prima cosa bella” da quando esiste il nostro giornale. Nei prossimi giorni altri racconti delle nostre firme. Poi toccherà agli abbonati e ai lettori: scriveteci la vostra a lettere@ilfattoquotidiano.it

GIANNI BARBACETTO
Ho fatto un incubo. Non c’era più il Fatto. Non potevo più leggere un racconto dell’Italia e del mondo dove i corrotti sono chiamati corrotti, B. “pregiudicato”, le “riforme” attacchi alla Costituzione, i servi servi, i fascisti fascisti, i padroni padroni, gli “statisti” guerrafondai. Non avevo più un giornale dove raccontare le cene eleganti di una certa Ruby, le inchieste su petrolio e corruzione, la crisi del Modello Milano, o dove far naufragare il progetto renziano Ibm Watson. Mi sono risvegliato. Era un incubo. Il Fatto c’è! Grazie Marco, grazie Antonio, grazie alla nostra ciurma pirata.

ALESSANDRO BARBERO
Quand’ero ragazzo leggevo, come tutti, il giornale cartaceo e ritagliavo spesso articoli che mi colpivano e che volevo conservare; peraltro non ho idea di dove siano finiti, non devono essere sopravvissuti a qualche trasloco. Ritagliare un articolo e metterlo in una cartellina era, per me come per molti, un rituale che aveva un valore e una bellezza in sé. Quando ho cominciato a leggere il giornale online, l’epoca dei ritagli di stampa era finita da un pezzo e non mi veniva affatto in mente di poter fare la stessa cosa scaricando articoli; il fascino di quel gesto era perso per sempre. È leggendo il Fatto online che un giorno, per la prima volta dopo tanti anni, ho avuto voglia non di ritagliare un articolo, ma di conservare l’intero giornale, perchè conteneva un tale ritratto del momento storico da farmi venir voglia di possederlo, per rileggerlo magari dieci anni dopo, e lasciarlo in eredità ai nipoti. Quello ce l’ho ancora, in una cartellina del computer: è il numero del 12 novembre 2016, con Barbara Spinelli sul suicidio della sinistra (sì, sì, già allora…), l’arrivo di Trump, i paranzini di Saviano. Col tempo se ne sono aggiunti altri, pochi, li ho appena contati: 20 in tutto in otto anni. Venti istantanee sulla storia del mondo.

FABRIZIO BARCA
Fatto quotidiano è andare di contropelo, la cosa più importante che mi ha insegnato mio padre. È uscire dalla litania untuosa di una stampa italiana che non riesco più a leggere. Il tema non è essere d’accordo o meno con quello che scrive. Ma avere ancora una voce alternativa, schietta, graffiante. Alla mente vengono tanti articoli e interventi prima e dopo l’introduzione del reddito di cittadinanza, quando il FQ ha fatto il possibile per smontare le balle, le fake news, che a destra e a manca venivano costruite per dire che era tutta una ruberia, che la misura invitava a “restare sul divano”, che masse di persone senza diritto, “furbetti del redditino”, se ne avvalevano. E il FQ scovava i numeri sbagliati o denunziava l’attribuzione di interpretazioni sistemiche a singoli casi di abuso scoperti – segno, in realtà, di buon monitoraggio. Non ci si è riusciti, a contrastare il senso comune. E, invece di ascoltare la Commissione Saraceno, la misura è stata massacrata. Ma “almeno – diceva, con il giornale in mano, il mio antico amico, rientrato dagli Usa – in queste pagine si sente il paese, non il palazzo”.

ELENA BASILE
Era un pomeriggio abbastanza cupo. Funzionari bisbigliavano nei corridoi ministeriali, passi felpati. Internet riportava proclami di guerra dell’intero spazio politico-mediatico. Avevo un buco nello stomaco, una sorda rivolta contro i crimini della politica cresceva insieme all’impotenza. Mi immersi nel computer e scrissi un articolo di analisi e di sgomento. Non conoscevo Travaglio. Avevo la sua email per via di un appello per la pace di ex Ambasciatori da me redatto. Inviai l’articolo: “Se vuoi, pubblicalo. Ma posso firmarlo solo Ipazia o Antigone”. Credevo nessuno mi avrebbe risposto. Dopo pochissimo vidi sbalordita l’email di Marco: “Grazie, Ipazia”. Questo è il Fatto: disponibilità, efficacia, pluralismo, approccio democratico, contatto immediato con la società civile. Insomma tutto quello che manca alla maggioranza degli altri media. Uno spazio per tesi avverse, per politici e per voci indipendenti, uno spazio per la satira e per gli ultimi, una terapia collettiva per sfuggire ai tempi bui odierni.

ROBERTO BECCANTINI
Il rapporto con Oliviero Beha, grande giornalista con il quale avevo lavorato a Tuttosport. “Lavorato” è parola grossa, visto il nostro mestiere, che mestiere non è: è passione, è missione. Ogni lunedì, per tanti lunedì, ci siamo divisi le pagine sportive del Fatto. Lui, più sulla politica e sulle inchieste; io, più sulle cose di campo. Con Nanni Delbecchi a dirigere il traffico, grafico e non. Quante discussioni: su Calciopoli, su “certi” palazzi e i loro inquilini, sul declino del Paese. Oliviero era ispido ma netto. Un “rompipalle” che sfidava le balle. Sì, è stato ed è bello.

BENEDICTA BOCCOLI
“Emiliano, te lo dico con sincerità, io non so scrivere. Sono negata. A scuola facevo dei temi orrendi, non mi davano neanche il voto, erano al di là di ogni possibile giudizio! Infatti ho scelto di fare la ballerina, poi l’attrice, mestieri che non hanno niente a che fare con la scrittura”. Il nostro caro amico Emiliano Liuzzi insiste: “Ho capito, ma ti capita di pensare, no? Bene, quei pensierini, belli o brutti che siano, scrivili. Se poi fanno schifo non li pubblichiamo”. Sono passati nove anni e io continuo a scrivere le mie piccole storie. Grazie, Emily: sei stato la mia guida, il mio mentore (pensa che a scuola non sapevo neanche che volesse dire mentore!).

ETTORE BOFFANO
Il 16 novembre 2017, in tarda serata, Giampiero Calapà ci portò la notizia che, nella notte, Totò Riina sarebbe morto, perché i medici si preparavano a staccare le macchine che lo tenevano ancora in vita. Decidemmo di rischiare e con Edo Novella, Edu Di Blasi e Stefano Citati rifacemmo il giornale di corsa, con le prime quattro pagine dedicate al capo di Cosa Nostra, e titolammo: “È Stato la mafia”. La mattina dopo, tutti i telegiornali aprirono inquadrando la nostra prima pagina. La felicità, nel giornalismo, è una cosa come questa. E al Fatto sono stato e sono felice.

SANDRA BONSANTI
Circondata dai miei libri e dai ritagli di una vita, la mia, cerco di ricordare come era prima: prima che ci fosse Il Fatto. No, Il Fatto ci è sempre stato perché ha ereditato anche le mie storie, le angosce di quel giornalismo d’inchiesta che era l’unico che sapevamo fare. Da soli. Da allora la solitudine era vinta e abbiamo avuto compagni di strada straordinari, saggi che ci presero per mano e insieme siamo andati avanti: a denunciare, a raccontare cose, personaggi e fatti della storia italiana: che nessuno potrà mai più cancellare.

PIETRANGELO BUTTAFUOCO
Il fatto in sé del Fatto fu bello assai e quel che più mi entusiasmò fu il viaggio in Italia in coppia con Antonello Caporale. Non facciamo che ricordarcelo ogni volta quel nostro attraversare la grande provincia. Ripercorremmo tratturi, strade, piazze e perfino –meravigliosa fu –la transumanza che dagli Abruzzi cala fino in Molise e poi più giù, in terra di briganti. Meravigliosa appunto fu la camminata seguendo gli zoccoli delle mandrie: tutto uno sbocciare di campanule, sfilacci e pennacchi multicolori. Tra le tappe, interessante fu quella in Umbria, a Terni. Arrivammo nelle case degli operai con ancora negli scaffali le collane degli Editori Riuniti – i classici del marxismo leninismo – e la lotta di classe aveva già cambiato locomotiva: non più la falce&martello, bensì lo spadone leghista di Alberto da Giussano. Un viaggio nel più capovolto dei mondi impossibili fu.

SALVATORE CANNAVÒ
Sono entrato al Fatto raccontando il lavoro. La lotta della Fiom contro Marchionne, che nessuno raccontava con gli occhi degli operai contro quelli del solito padrone. Il Fatto lo fece d’istinto e Antonio Padellaro, allora direttore, non ebbe dubbi nel fare quella scelta. Difficile dimenticare le tante prime pagine dedicate a quelle lotte (cosi come la vergogna degli esodati di Fornero) o l’intervento di Marco in piazza San Giovanni nel 2013 a difesa della Costituzione in una piazza che traboccava di bandiere Fiom. Non avevo alcun dubbio quando varcai la porta di via Orazio nel 2009 proponendo al giornale di farne parte: se ne avessi avuti, il Fatto “operaio” ha provveduto a fugarli tutti.

ANTONELLO CAPORALE
Nella libertà il giornalismo vive, cresce, si espande. La libertà è l’olio miracoloso che ci fa raccontare ciò che vediamo senza dover valutare l’opportunità di chiudere gli occhi per far contento qualcun altro. Ecco, direi che il Fatto ha sempre permesso di raccontare il pezzetto di mondo che mi è capitato davanti tenendo gli occhi non solo aperti ma allenati al piacere di misurare la distanza che separa la verità dalle balle.

GIAN CARLO CASELLI
La cosa più preziosa del Fatto sono per me le vignette di Natangelo. Tutte sempre intelligenti e spiritose, tali da inverare il detto secondo cui una buona vignetta vale quanto il miglior editoriale. Se una sua vignetta mi colpisce e mi piace in modo particolare, a volte chiedo a Natangelo di regalarmi l’originale. Ne possiedo quindi un certo numero. Alcuni, incorniciati, sono appesi alle pareti del mio studio. Mentre scrivo ne ho presa in mano uno che raffigura un poliziotto in tenuta antisommossa, con tanto di manganello in mano, che saluta un tizio davanti a lui dicendogli “Buongiorno ministro!”. Il ministro impugna un cartello con scritto “Abbasso i giudici”. La vignetta è del maggio 2013 ed è intitolata “Manifestazione a Brescia – interviene la Polizia”, ma potrebbe benissimo essere replicata oggi se a Palermo dovesse davvero esservi (come si dice) una marcia sul Palagiustizia quando il difensore del ministro Salvini pronuncerà l’arringa. Le vignette di Natangelo non invecchiano.

SIMONE CERIOTTI
Mettere piede nella redazione del Fatto, nella primavera del 2010, ha avuto l’effetto immediato di moltiplicare le mie energie. Rotti tutti gli schemi nei primi sei mesi di vita, questo giornale era già un “caso editoriale” (forse qualcuno sperava fosse solo una meteora), che mi affascinava per la sua libertà. E sono bastate poche ore nella sede di via Orazio a Roma per capire quel che c’era da fare in un altro appartamento, ancora più piccolo, a Milano, dove doveva prendere forma la redazione online. Molti anni, cambiamenti, notizie e battaglie. Sempre con il punto di forza che definisce davvero il Fatto: la sua grande comunità di lettori, esigenti e consapevoli. Auguri!

PINO CORRIAS
Dunque era una notte di zanzare, estate 2013, microscopica festa dell’Unità dalle parti di Narni, Umbria, a sorpresa l’ospite è D’Alema Massimo che è come dire trovare Mal dei Primitives sul monte Amiata. Con mezz’ora di ritardo arriva davvero, platea di pensionati in maniche di camicia e calzoncini, militanti veri arrivati con massimo rispetto per il compagno Massimo. Che non li vuole deludere e le spara grosse a ruota libera per stupirli: Renzi è un ragazzotto, Letta un’ameba, Berlusconi un colpevole, i dalemiani non esistono e comunque “io non ne faccio parte”. Tutto divertente se non fosse che a cento chilometri da qui, a Roma, Max stia al governo con Renzi, Letta, Berlusconi e una manciata di dalemiani. Meglio ancora il finale: “Pensate, a breve sarò alla Fondazione Clinton a parlare, visto che non mi occupo dell’Italia, ma di questioni internazionali, diciamo”. Usciamo in edicola col botto, la verità sta sempre nei dettagli, l’Italia e la Fondazione Clinton ridono di gusto, il Fatto trionfa.

NANDO DALLA CHIESA
Come ogni uomo pubblico e ogni partito, un giornale può essere apprezzato, oltre che per le cose che fa, anche per quelle che “non fa”. A quindici anni dalla nascita del Fatto, potrei dunque ricordare un editoriale particolarmente brillante di Marco Travaglio o di Antonio Padellaro, una intervista piacevolmente ariosa di Alessandro Ferrucci, un’inchiesta di Marco Lillo o di Gianni Barbacetto, come di altri bravissimi redattrici e redattori. Ma la soddisfazione più alta la provai quando il giornale chiuse una breve serie di interventi ferocemente critici verso il nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Gli interventi miravano a denunciare il milieu asseritamente mafioso in cui era cresciuto politicamente il nuovo presidente. Non mi capacitavo che quelle insinuazioni perfide potessero trovare spazio nel giornale su cui scrivevo da anni. Dopo due-tre puntate quella campagna in erba fu troncata, sconfessando chi aveva voluto usare il Fatto per lanciarla. Ne provai orgoglio grandissimo. Saremo indisponenti, saremo franchi battitori, ma siamo persone serie. Ecco, l’idea di far parte di un gruppo serio mi piacque moltissimo. Noi queste cose non le facciamo. Che bella sensazione.

PIERCAMILLO DAVIGO
Per anni ho scritto qualche articolo per il Fatto e ho potuto apprezzare come questa testata ha continuato a difendere i valori della legalità nel contesto di un’attività di televisioni e giornali impegnati nel tentativo di restaurazione del sistema di corruzione sistematica. Il Fatto non ha mai taciuto gli episodi delinquenziali o comunque eticamente riprovevoli da chiunque commessi, senza selezionare il colore politico. Il coraggio dei suoi giornalisti è un faro di luce in mezzo al servilismo e alle menzogne di altri. Tutto questo li ha esposti a continui attacchi. Le restaurazioni non durano mai e, quando falliranno i tentativi di ripristinare comportamenti intollerabili in altri Stati, gli storici potranno raccontare che non tutti erano vili e non tutti erano ladri. E i giornalisti del Fatto saranno indicati come veri patrioti. Avanti così perché le forze del male non prevarranno.

MAURIZIO DE GIOVANNI
Se devo dire perché sorrido quando penso al Fatto Quotidiano, devo per forza ricordare una tarda primavera del 2018: per l’esattezza il pomeriggio del 27 maggio, una domenica. Ero stato invitato a una festa, in provincia di Reggio Emilia, dove avrei avuto un dialogo con Selvaggia Lucarelli. Il direttore mi aveva detto: vieni prima, così mangiamo qualcosa insieme. Tavole di legno, panche, esterno e interno, tutti in camicia e senza cravatta, a masticare con gusto carne alla brace o verdure grigliate continuando a lavorare. Questo mi affascinò moltissimo: non un datore di lavoro coi suoi dipendenti, ma un sacco di gente che portava avanti la baracca come fosse sua. Un lavoro bello, ma anche un interesse diretto. Una partecipazione affettiva. Mi è capitato altre volte di incontrare i giornalisti del Fatto e ho mantenuto l’impressione di quella domenica di maggio. Eccellenze, d’accordo. Professionisti di livello elevatissimo, certo. Ma anche editori di se stessi, calciatori di una nazionale rappresentativa di un paese che è un’idea di libertà e di combattimento. Ci si innamora facilmente, di una cosa così. E quando ti chiamano, rispondi per forza “presente”; pur di far parte di quella squadra, anche solo per un momento. In ricordo di una meravigliosa domenica, e di quella carne alla brace.

NANNI DELBECCHI
Fu una lunga mattina spersa tra le crete senesi. Mossi dal casale dove ero ospite di amici in cerca di un’edicola, vagando da un paese all’altro. “Esaurito. Esaurito. Esaurito…” Il primo numero del Fatto era esaurito dappertutto. Quando avevo perso la speranza un edicolante si impietosì e mi regalò la sua copia, facendomi i complimenti quando seppe che ero collaboratore. L’ho ringraziato per molti anni, finché un giorno ho trovato la saracinesca abbassata, ahimè. Oggi sono le edicole che rischiano di esaurirsi.

FABRIZIO D’ESPOSITO
“Lo cunto de li cunti”, probabilmente non solo per me, è la gioiosa febbre di un sabato sera del 2011. Roma era dolce per l’estate di San Martino e Silvio Berlusconi si dimise da premier alle 21.43 del 12 novembre. Ricordo l’Hallelujah in piazza del Quirinale, le berlusconiane vestite di nero alla Camera e una giovane ministra, Giorgia Meloni, che gridava contro “la vittoria del capitale”. Ricordo l’emozione di vedere nel sistema editoriale la sovracopertina di domenica 13: “Oggi siamo tutti più liberi”. Aver contribuito al racconto di quel giorno per il Fatto è stato un privilegio, innanzitutto.

ALESSANDRO DI BATTISTA
“Occorre conoscere per poter trovare”, lo scrisse Tiziano Terzani. Io sarò sempre grato al Fatto. Il Fatto mi ha permesso di conoscere quando altri occultavano. Il Fatto mi ha permesso di trovare una comunità quando altrove mi sentivo escluso. Il Fatto mi ha permesso di aprire gli occhi quando altri mi spingevano a chiuderli distraendomi. Oggi il Fatto mi permette di portare avanti battaglie che reputo vitali come la lotta per la Pace ed il sostegno ai palestinesi. Ieri ero un lettore esule ed il Fatto mi ha accolto. Oggi voglio andare sul campo a cercare notizie ed il Fatto mi permette di scrivere reportage. Grazie e tanti auguri Fatto Quotidiano!

EDUARDO DI BLASI
La notte degli attentati di Parigi, in cui stavamo aprendo su un tizio graziato dal Colle. Eravamo rimasti in redazione in pochissimi, ma dopo 10 minuti erano tornati tutti, pronti a rifare il giornale. Quella volta che saltó il sistema editoriale a via Valadier e tornammo tutti a casa perché da lì funzionava, e uscimmo. Nuccio e Vito. I lettori, che scrivono una mail in segreteria per dirti che un ministro ha fatto fermare un treno con lui sopra perché sennò faceva tardi o quell’altro che la domenica chiede: “Ma avete visto che Fassino ha rubato un profumo a Fiumicino?”. Avercene di lettori così.

DONATELLA DI CESARE
È l’inizio di marzo 2022. La guerra fa il suo ritorno trionfale in Europa. S’intuisce che andrà in frantumi il mondo, che le nostre vite cambieranno. Provo a dirlo. Ma in Italia scende la coltre del silenzio forzato, della censura preventiva. L’informazione degrada in propaganda esasperata. Molti giornali si trincerano dietro a slogan bellici, liste di proscrizione dei pacifisti. Anch’io ci sono finita. È un momento di grave disorientamento dell’opinione pubblica. Il Fatto imprime una svolta: apre i suoi spazi, accoglie le voci contrarie, diventa il punto di riferimento del dibattito critico sulla guerra.

ANTONIO ESPOSITO
Tra le cose più belle realizzate in questi anni dal FQ vanno annoverate le formidabili inchieste condotte su due ineffabili esponenti del governo Meloni: la prima ha smascherato gli “intrighi” in tema di opere d’arte – oggetto di vari procedimenti penali – del supponente Vittorio Sgarbi, costretto alle dimissioni da sottosegretario; la seconda ha svelato le “magagne” societarie della spregiudicata imprenditrice Daniela Santanché che, pur sotto posta a plurimi procedimenti penali, anche per truffa ai danni dello Stato, continua, da ministra, a rappresentare, con poco onore lo Stato medesimo.

MASSIMO FINI
La cosa più bella che ricordo del Fatto non è il Fatto, ma la sua Festa. Anche perché è l’unico posto dove sono una rock star. Non riesco a trovare un episodio specifico. Penso che il grande merito del Fatto sia essere rimasto praticamente l’unica testata a difendere quel poco di senso di legalità che era rimasto agli italiani dopo l’avvento di Berlusconi, difesa tuttora imprescindibile perché Berlusconi è sempre nell’aria (“Berlusconi è vivo e lotta insieme a noi”). Del Fatto non mi piace l’eccessivo moralismo, non quando è coniugato con la difesa della legalità e ne è un complemento non solo penale, ma anche etico, ma quando si esercita in campo erotico e sessuale. Tutta colpa del Torquemada Travaglio.

VERONICA GENTILI
Il Fatto per me è stato un ponte. Un ponte tra due vite. Era circa undici anni fa, quando nella mia vita di attrice ho cominciato a sentir mancare un pezzetto e ho avuto voglia di tirare fuori parole mie. Quelle parole le ha subito accolte il Fatto, dove tra una tournée teatrale e l’altra ho cominciato a collaborare come blogger. Poi negli anni ho continuato a camminare su quel ponte: ho cominciato a scrivere articoli e poi rubriche, e piano piano mi sono trovata sull’altra sponda del fiume, quella dell’informazione. I ponti collegano, accompagnano, avvicinano, raggiungono: ecco, tutto questo è il Fatto per me.

PETER GOMEZ
La nostra missione fu da subito evidente. Perché la notizia sull’indagine nei confronti dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta sembrava uno scoop, ma non lo era. In tanti nei giornali sapevano che il consigliere di Berlusconi era sotto inchiesta. Nessuno però lo scriveva. A me e Marco Lillo all’Espresso era addirittura stato impedito di farlo: Letta era la persona che si occupava degli stati di crisi nell’editoria e rappresentava l’ala dialogante del governo. Meglio girargli al largo. Dimettersi dall’Espresso e partecipare alla fondazione del Fatto divenne al quel punto per noi obbligatorio. E “dire quello che gli altri non dicono” diventò lo slogan che meglio raccontava il nostro compito. Allora come ora.

GAD LERNER
Dovrei dire il sms d’invito a scrivere sul Fatto arrivatomi da Marco Travaglio poche ore dopo che mi ero dimesso da Repubblica, quando io non ci pensavo affatto e nonostante lui sapesse benissimo che tengo fra gli amici più cari Adriano Sofri, Luigi Manconi, Enrico Deaglio. Ma preferisco indicare la cosa bella che si ripete più volte dacché sono qui. Come previsto, mi arrabbio spesso per gli articoli di qualcuna tra le “firme” o del direttore stesso. Partono scambi di mail infuocati (fortunatamente evitiamo il telefono che fa perder tempo e incentiva all’offesa). L’incazzatura cresce, cresce, cresce finché a un certo punto rivolgo a me stesso la domanda: “Ma dove lo trovo in Italia un giornale a larga diffusione altrettanto libero e indipendente? E zeppo di notizie, per giunta? Tienitelo stretto!”. Così l’incazzatura sbolle e mi resta solo da fare gli auguri di buon compleanno da nuovo arrivato a chi ha fatto l’impresa.

MARCO LILLO
“Indagato Letta e nessuno ne parla”. Che nostalgia rivedere questo titolo stampato a tutta pagina sul Fatto Quotidiano. E la soddisfazione è doppia a leggerlo in edicola con la veste grafica vigorosa e rude del Fatto degli inizi, creata dal grande Paolo Residori. In quel titolo a ben vedere la notizia stava nella coda e anche la nostra ragion d’essere più profonda era nascosta lì. Gianni Letta poco tempo dopo, come noto, finì prosciolto su richiesta dei pm in una piccola procura della Basilicata, Lagonegro. Ovviamente non per questo quella notizia non andava data. Il punto come al solito per noi non era l’indagine in sé ma quel che rivelava sul potere, i suoi giochi e i suoi protagonisti. Il nostro scopo non è mai stato far processare o condannare chicchessia. Il nostro mestiere è raccontare le storie di interesse pubblico che non vi vogliono far conoscere. E le storie che emergevano dalle carte e dalle intercettazioni telefoniche di quel fascicolo erano e restano ancora oggi interessanti. Se dunque “indagato Letta” era un titolo passato già poco tempo dopo il 23 settembre 2009 quel “e nessuno ne parla“ è presente. Sono passati 15 anni e tante cose sono cambiate dentro e fuori il Fatto quotidiano. L’editoria è in crisi – inutile nasconderlo – ma noi, come dice la canzone di Vasco, siamo ancora qua. Perché finché notizie come quella gireranno per i palazzi del potere e non troveranno spazio sui media, il fatto avrà ragione di esistere.

SELVAGGIA LUCARELLI
Nel mio palazzo vive una bella signora di una certa età che quando sono venuta a vivere qui, circa 10 anni fa, mi salutava con una certa distanza. Mio figlio poi, che quando ci eravamo trasferiti era molto piccolo, aveva paura di lei. Una volta l’aveva incrociata in ascensore e lei lo aveva sgridato. Con quella signora siamo andati avanti a “Buongiorno” e “Buonasera” per anni. Finché una sera – era oltre mezzanotte – ci siamo incrociate con i vestiti bagnati davanti al portone. Mi è sembrato strano vederla a quell’ora. Era appena tornata da teatro: “Ero a vedere Travaglio”, mi ha spiegato. Anche io ero stata a vedere Travaglio. E insomma mi ha raccontato che era una vecchia abbonata, che mi leggeva sempre. Oggi posso dire che quella signora è l’unica persona con cui Il Fatto mi ha fatto fare pace.

DANIELE LUTTAZZI
Il Fatto è l’unico giornale italiano che può pubblicare le cose che scrivo. Sembra un’esagerazione, ma non lo è. Gli altri media, in questa disgraziata penisola, sono luoghi inospitali: vivono di accordi col potere politico ed economico, per cui la satira vera, cioè non propagandistica, non se la possono permettere. Lo prova il lungo, penoso elenco di censure e di rifiuti che ho dovuto subire in trent’anni di attività. Qua invece il direttore mi pubblica addirittura cose che contestano le sue opinioni! Mille grazie, dunque, a lui, a chi fondò con lui questo giornale libero, e alla comunità di lettori che sostiene questa nostra bella libertà. Lunga vita al Fatto.

TOMASO MONTANARI
Ho sempre pensato al Fatto quotidiano come a “un rifugio della verità” (Hannah Arendt), da cui praticare quella che i greci antichi chiamavano parresìa: dire la verità in pubblico, assumendosene la responsabilità. Su ogni altra, ricordo la vicenda dei Girolamini, a Napoli: mai avrei pensato (io che faccio il professore) di “fare uno scoop”. E invece un mio singolo articolo, nel 2012, scoperchiò una storia incredibile: il braccio destro di Dell’Utri che svaligiava una biblioteca pubblica, di cui era stato nominato direttore per trame politiche. Andarono in galera in 12 e la biblioteca si salvò. Senza il Fatto, come sarebbe finita?

CINZIA MONTEVERDI
Mi sembra ieri, ma ieri non è. Quindici anni di vita del Fatto e al Fatto. Abbiamo vissuto tante soddisfazioni, tante fatiche e tante preoccupazioni e ancora le stiamo vivendo e le vivremo. Siamo diventati quella che si chiama Community Company e facciamo tante cose oltre al giornale. Ma tutto è stato possibile perchè quindici anni fa Antonio Padellaro chiamò Marco Travaglio, per fondare un giornale e da lì partirono le chiamate per formare la squadra, di azionisti e redattori. E allora lasciarono il lavoro sicuro, il cosiddetto posto fisso presso altri giornali, Peter Gomez, Marco Lillo, Silvia Truzzi e arrivarono poi altri redattori, collaboratori e il personale di segreteria e amministrazione. Il Fatto è stata ed è la mia splendida vita e un assoluto privilegio; e la colonna sonora che se la riascolto pensando a quindici anni fa mi provoca un po’ di malinconia perchè è stato così bello fondare il Fatto che vorrei tornare indietro per riviverlo, ma se penso alle sfide che abbiamo ancora da vincere ritorna subito l’entusiasmo e la malinconia del passato si trasforma subito in lievito dell’avvenire. Festeggeremo i sedici anni ancora meglio a gonfie vele.

PAOLO NORI
Faccio fatica a parlare nelle occasioni celebrative. Mi viene l’impressione di essere sul palco delle autorità e di avere una fascia tricolore al petto e è difficile dire delle cose sensate, messo così, perché, come dice Zinov’ev, “Tutto quello che è ufficiale è falso”, che poi è un po’ quel che dicono a Parma quando dicono “Essere falso come una lapide”. Allora dirò solo che la mia collaborazione con il Fatto è memorabile quando, succede, incontro qualcuno, per strada, che mi dice di avermi letto sul Fatto e mi ringrazia, e ho l’impressione di fare una cosa sensata, a scrivere sul Fatto.

MADDALENA OLIVA
“Quando le informazioni mancano, le voci crescono”, diceva Alberto Moravia. 15 anni di Fatto, con le sue tante voci, sono questo, se guardiamo al mondo in cui viviamo. È valso sotto il governo Draghi, con il Covid, le inchieste di cronaca giudiziaria, la guerra in Ucraina e ora il massacro di Gaza, solo per stare all’ultimo pezzo di navigazione di questa barca “piena di pazzi ma tutti simpatici, e persone perbene” (come mi disse un collega al mio arrivo in redazione). È il migliore equipaggio con cui partire. E se guardo all’inizio del viaggio, nel mare dei personalissimi ricordi, il Fatto per me è una porta aperta. E l’abbraccio di Marco e Cinzia.

ALESSANDRO ORSINI
I miei ricordi più belli associati al Fatto quotidiano sono tre. Il primo è il messaggio con cui Marco Travaglio mi offriva di tenere la rubrica “Nuovo Atlante” nel marzo 2022. Il secondo è il tempo trascorso con la squadra di Paper First al Salone del Libro di Torino per due anni consecutivi. La sala gremita, l’affetto dei lettori, due ore di firmacopie: non mi sono mai divertito così tanto lavorando. Arrivato in hotel, l’addetto mi portò per errore nella stanza disordinatissima di uno sconosciuto assente in quel momento. Raccontai l’episodio a Francesco di Paper First, amico carissimo, con questo commento: “Non ho mai visto una stanza così a soqquadro. Ho pensato fosse abitata da una mandria di buoi o forse dai gorilla”. Francesco mi chiese il numero della stanza divertito e poi disse corrucciato: “Ma è la mia!”. Il terzo ricordo più bello è il dialogo con Jeffrey Sachs alla Festa del Fatto 2024. E poi le mie lezioni in teatro, dove la squadra del Fatto diventa uno spettacolo. Come insegna Vilfredo Pareto, gli uomini sono dominati dai sentimenti, di cui la comunità del Fatto abbonda. Ho fatto incetta dei migliori.

MARCO PALOMBI
Il rischio in questo genere di anniversari è cadere nella retorica e allora dirò che, pur essendo Il Fatto quotidiano un giornale molto odiato (è probabilmente la sua migliore qualità), non i suoi nemici e critici, ma solo chi ci lavora ne conosce davvero i difetti, gli errori, le cose che andrebbero fatte meglio o non fatte proprio. Per quanto mi riguarda, e lo penso fin dal primo minuto che ci ho messo piede nel febbraio del 2010, Il Fatto continua a essere – parafrasando un aforisma sulla democrazia per Winston Churchill – il peggior giornale del mondo, eccetto tutti gli altri…

CARLIN PETRINI
Pensare al Fatto quotidiano per me implica direttamente ricordare un grande amico. Domenico De Masi, del quale sento una grande mancanza sia dal lato affettivo che da quello intellettuale, è stato per me un importante punto di riferimento. È stato tramite lui che mi sono avvicinato al giornale, scoprendo però una dimensione che va oltre il semplice impegno editoriale. Grazie a un invito di De Masi ho potuto tenere alcune lezioni alla Scuola del Fatto, comprendendone l’importanza e il valore politico. Allo stesso tempo, partecipare a una delle feste del Fatto mi ha reso possibile percepire un aspetto davvero non comune per un giornale: il senso di comunità vera. Vedere lettori che partecipano in maniera attiva e sentono questa realtà editoriale come un’impresa comune non può che essere una componente positiva e di grande valore, specialmente nel periodo storico in cui stiamo vivendo. Auguro dunque al Fatto di preservare la dimensione comunitaria che ha saputo costruire e alimentare in questi suoi primi 15 anni di vita.

UMBERTO PIZZI
Quattordici anni fa incontro Ferruccio De Bortoli: “Alla mia età ho voglia di chiudere la carriera in un grande giornale”. E lui: “Vieni al Corriere della Sera?”. “No, vado al Fatto quotidiano”. Ancora ricordo il suo volto di stupore e il mio sorriso di soddisfazione. Ero felice, curioso, con il brivido della scelta giusta e la curiosità di affrontare quella scelta. Appena sono entrato nella sede di allora ho avuto la sensazione di varcare la soglia di una scuola: c’era voglia di scoprire, sperimentare, capire, stupirsi. Eravamo tutti studenti di “novità”. E quello spirito vive ancora oggi.

FILIPPOMARIA PONTANI
2015, Festivaletteratura. Pranzo con l’editor più temuta d’Italia, che arriva recando sottobraccio Repubblica (che leggevo da sempre: nacque due mesi prima di me) e il Fatto. “Vedi, caro, una serve per seguire cosa fa il potere, l’altro per sapere cosa accade davvero”. Come direbbe Dante, “scalzasi Egidio, scalzasi Filippo”: da allora in Università, in Accademia, inalbero il solo rosso del Fatto bene in vista, e vedo inarcarsi parecchi sopraccigli tra i colleghi che contano (eppure i nicodemisti non mancano). Ma i professori di scuola, i giovani, i poeti, i pensionati che mi scrivono dal nulla dopo un pezzo: è di loro che mi interessa, sempre.

DANIELA RANIERI
Il ricordo più esaltante dei miei anni al Fatto è legato alla contro-campagna referendaria del 2016, quando Renzi voleva cambiare la Costituzione con Verdini. Bisognava controbattere ogni giorno ad argomentazioni irrazionali (“Stiamo tornando a fare l’Italia”), impressionistiche (“Basta un Sì!”), false (“Si risparmia mezzo miliardo”) unendo la satira ad argomenti solidi, e per fortuna i lettori ci hanno dato ragione. Il ricordo personale più prezioso è quello delle tante interviste che ho condotto; su tutte, quelle ad Alessandro Barbero (su nazismo e comunismo equiparati dal Parlamento europeo, foibe, Scuola, statue abbattute, pandemia, etc.), a Maurizio Ferraris su Nietzsche, a Michele Mari, a 5 leader spirituali di diverse confessioni religiose sotto Covid.

FRANCESCO RIDOLFI
Una cosa ho capito dopo 15 anni di lavoro al Fatto: tutti noi, tra mille sfumature, in fondo in fondo, la pensiamo allo stesso modo e condividiamo gli stessi valori. Poi una storia: quando andai a parlare con l’allora direttore, Antonio Padellaro, per sostituire Stefano Feltri al servizio economico in estate, mi chiese: come te la cavi con l’economia? Risposi: mai scritto una riga, però ho gestito tanti servizi, posso provare anche con l’economia! Padellaro disse: ok, sei dei nostri.

ALESSANDRO ROBECCHI
Privilegio non da poco scrivere su un giornale che sentiresti tuo anche senza scriverci, e privilegio dei lettori trovarci quello che altrove non trovi. Quindi ricordi tanti, e infinite madeleine di quelli che non si bevono la versione ufficiale. Ma se un ricordo salta su, come un tappo, tra gli altri, è il giornale del 14 gennaio 2015, quando dopo il massacro di Charlie Hebdo, il Fatto se ne uscì allegando quel giornale di matti, mossa coraggiosa, impennata di senso che andava al di là della solidarietà e della vicinanza. Un timbro indelebile da non allineati, la sottoscrizione (insieme all’uso della satira che al Fatto è pratica corrente) che la famosa frase di Billy Wilder non è campata per aria: “Se proprio devi dire la verità, dilla in modo divertente”.

ANDREA SCANZI
Ricordo due sole cose brutte, e tutto il resto bellissimo. Quelle brutte sono i troppi compagni di strada persi per strada e l’essere approdato qui con due anni di ritardo: Marco mi cercò ad aprile 2009, quando il Fatto non era nato, ma temetti il “salto nel vuoto” e mi decisi solo nel 2011. Che imbecille! Tutto il resto è bellezza: le feste, le sfide, quel senso di appartenenza (e di esser quasi sempre uno contro tutti). I rischi, i tour, le cene. E le battaglie. Tipo Roma 2016, due giorni prima del referendum contro l’obbrobrio Boschi-Verdini: tutto il teatro in piedi per plaudire Rodotà. Magia.

LUCA SOMMI
Un giorno di qualche mese fa passo all’edicola vicino a casa, mi metto in fila, la signora davanti a me mi dà ovviamente le spalle (per dire che non mi vede), chiede all’edicolante due copie del Fatto quotidiano. Una volta pagate le sue due copie si gira per andarsene, incrocia il mio sguardo, mi riconosce: “Buongiorno Luca!”. “Perché due copie? Una per suo figlio?” chiedo io. Risposta: “No, a volte ne prendo due per lasciarne una dove capita: sull’autobus, al caffè o su una panchina. Così aiuto una persona in più, anche se sconosciuta, a capire come stanno davvero le cose in Italia”. Come canta Vasco: senza parole…

BARBARA SPINELLI
L’indipendenza e il non conformismo, questo caratterizza i 15 anni del Fatto. Le pagine più pregevoli, per me, sono state quelle sul Conticidio, sulla guerra per procura Ucraina-Russia e sull’annientamento di Gaza a opera di Israele. In nessun giornale ho trovato un’opposizione così netta al suicidio dell’Europa, e alla propaganda atlantica che s’ostina a ignorare la “storia lunga” che ha generato le due offensive illegali del 2022 e 2023: l’invasione russa dell’Ucraina e il massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas. Un’altra cosa bella è la simpatia del direttore per Totò.

VERONICA TOMASSINI
Il mio ricordo più bello è stata la partecipazione alla festa del Fatto, un anno fa, settembre 2023. Parteciparvi come ospite. Non so quanto abbia sognato quel momento. Vederli tutti lì, il mio direttore e gli altri. Sentirmi parte. Quando arrivai alla Casa del Jazz, prima dell’incontro, in cui avrei parlato tra Landini e Tridico, ho avuto la netta sensazione di essere nel posto in cui le cose potevano accadere davvero; una come me non le vede accadere spesso, non nel senso di una tale rilevanza, vengo da una città di provincia del sud. Mi sembrava di esistere sul serio.

MARCO TRAVAGLIO
Tutte le notizie che abbiamo dato, tutte le balle che abbiamo smentito, tutti i luoghi comuni che abbiamo ribaltato, tutte le palle che abbiamo rotto, tutti i calli che abbiamo pestato, tutte le macumbe che abbiamo sfatato, tutti i lettori che abbiamo conquistato. L’onore di dirigere un’orchestra di solisti meravigliosi e strumentisti sopraffini. E il pensiero delle nostre firme volate altrove: Antonio Tabucchi, Mimmo De Masi, Giorgio Poidomani, Oliviero Beha, Bruno Tinti, Emiliano Liuzzi, Nuccio Ciconte, Enrico Fierro, Lorenza Carlassare, Paolo Isotta, Flavio Kampah, Franca Rame, Dario Fo, Gianni Boncompagni, Paolo Villaggio, Franco Battiato, Lucio Dalla, Gigi Proietti e tanti altri fattoidi che Lassù se la ridono e ci proteggono.

SILVIA TRUZZI
Nelle due camere e cucina di via Orazio eravamo una dozzina, fuori di lì in pochi credevano che questo giornale, irriverente e corsaro, avrebbe conquistato uno spazio nel dibattito pubblico: che fosse vero il contrario lo spiegavano benissimo le facce dei politici durante le conferenze stampa, quando alzavi la mano e ti presentavi con nome, cognome e testata. Ad Antonio e Marco: grazie per averci insegnato, tra le altre cose, la libertà. A Cinzia: grazie per non mollare mai, ma proprio mai. A tutti i colleghi: grazie perché il Fatto siamo noi, diversi e spesso discordi, ma parte di qualcosa che è più di una redazione. Ai nostri lettori: grazie perché senza di voi non saremmo qui a spegnere candeline!

GIOVANNI VALENTINI
Sapevo di toccare un nervo scoperto, deviando dalla linea politica del Fatto, quando scrissi una rubrica su un tema delicato e controverso come la separazione delle carriere dei pm da quelle dei giudici. E apprezzai molto perciò che il direttore avesse deciso ugualmente di pubblicarla, seppure aggiungendo qualche riga in corsivo per dire che il testo non corrispondeva all’orientamento del giornale. A suo tempo, quando avevo proposto un articolo analogo all’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, mi aveva risposto: “No, per noi questo argomento è un tabù”. Personalmente, penso invece che i giornali liberi non dovrebbero avere tabù.

MAURIZIO VIROLI
Il ricordo più caro che conservo della mia militanza al Fatto è la Festa alla Versiliana nel 2014. Dibattito sulla riforma costituzionale Boschi-Renzi, con Silvia Truzzi, Antonio Padellaro, Peter Gomez, Alfredo Robledo, Massimo Villone. Per indole pessimista, ero assolutamente certo che avremmo perso il referendum. Erano contro di noi il governo, parte dell’opposizione, i grandi giornali, le tv. Credevo di trovare un ambiente dimesso, sfiduciato. Tutt’altro. Le persone che erano venute per assistere al dibattito erano determinate a lottare fino all’ultimo giorno. Mi diedero coraggio. Imparai nuovi argomenti per difendere la nostra Costituzione. Capii che i sostenitori della riforma, nonostante i potenti mezzi che avevano a disposizione, non avevano affatto persuaso tutti gli italiani. Vincemmo. Credo ancora che la vittoria del No sia stata un miracolo. Un miracolo della forza delle idee che il Fatto ha testimoniato. Ci aspettano due altre difficilissime battaglie per difendere la Costituzione e l’unità nazionale. Ma finché c’è il Fatto c’è speranza.

ANDREA VITALI
Dovrei vergognarmi un po’ a dirlo, considerata l’anagrafe. Ma io non mi vergogno di niente, fosse altrimenti avrei dovuto sotterrarmi già da un pezzo: perciò lo dico. Erano le prime ore del giorno, la casa era immersa nel silenzio, aspettavo, seduto in cucina, che il caffè salisse e guardavo distrattamente la televisione opportunamente silenziata. Una giornalista, carina ma decisamente ridicola in quel suo parlare alle mie orecchie muto, stava presentando la rassegna stampa. Ed ecco all’apparire della prima pagina del Fatto il mio nome tra “Le nostre firme”. Saltai sulla sedia. La tentazione fu di chiamare mia moglie. A metà delle scale rinunciai. Tornai in cucina. Il caffè era bruciato, la giornalista era passata a altro quotidiano. Fischiettando pulii il disastro dei fornelli.

PAOLO ZILIANI
So di andare fuori tema e di apparire egoista: ma tra le tante, benefiche e salvifiche campagne di cui il Fatto si è reso protagonista in questi suoi primi 15 anni di vita, e di cui trovate qui ampia testimonianza, c’è anche (e ancora benedico il giorno) un sì che mi sentii dire da Travaglio e Padellaro nell’estate del 2012. A Mediaset, dove lavoravo, si rifiutavano di pubblicare sul sito di Sportmediaset miei delicati articoli sull’allenatore della Juventus Antonio Conte coinvolto nello scandalo del calcioscommesse. Compravo e leggevo il Fatto: mi venne così l’idea di spedire un pezzo sullo scabroso tema a Travaglio (che è juventino!) e la mattina dopo lo trovai in prima pagina. Quel giorno stesso ci sentimmo e mi venne chiesto se desideravo diventare collaboratore: mi sembrò troppo, ma naturalmente dissi di sì. E insomma, tra le tante (e ben più importanti) cose buone fatte dal Fatto, sappiate che ce n’è anche una piccola: irrilevante forse; ma non per me.

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