Siccome non c’è nulla di più inedito del già pubblicato, la deputata FI Rita dalla Chiesa, appena 42 anni dopo l’assassinio del padre Carlo Alberto e di sua moglie Emanuela, allude ad Andreotti come il politico che i mafiosi volevano favorire. E la cosa fa grande scalpore sui media, come se fosse una novità dell’ultim’ora. Peccato che sia già tutto scritto nero su bianco nelle sentenze su Andreotti, assolto in primo grado, poi mezzo assolto e mezzo prescritto in appello e in Cassazione. Sentenze che nessuno osa citare, tantomeno Rita dalla Chiesa, devota a B. che definì i pm di Palermo “matti, antropologicamente diversi dalla razza umana” proprio per quel processo. Già nel 1971 il giovane Dalla Chiesa, capo della legione Carabinieri di Palermo, denuncia le collusioni mafiose di andreottiani tipo Lima e Ciancimino. E appena ci torna come prefetto nell’aprile 1982, solo e abbandonato senza poteri reali, scrive sul suo diario parole più dure di qualsiasi condanna: “Ieri anche l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori; sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno… lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione di uomini e di circostanze; il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso: prevale ancora il folklore e non se ne comprendono i messaggi…”.
Nel 1986, testimone al Maxiprocesso, Andreotti nega di aver mai chiesto di incontrare Dalla Chiesa (che dunque avrebbe mentito al suo diario) e di avergli parlato del mafioso Inzerillo. Peccato che il generale l’abbia raccontato al figlio Nando, aggiungendo che Andreotti “è sbiancato in volto”. Il 2.4.1982 scrive al premier Spadolini: “I messaggi già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della ‘famiglia politica’ più inquinata del luogo hanno già fatto presa là dove si voleva”. E il 30 aprile, giorno del delitto La Torre, annota nel diario: “La Dc a Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che politico… Lo Stato affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti… pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compresi”. Quattro mesi dopo, la lugubre profezia si avvera con una raffica di mitra in via Carini. Serve altro?