LEGGI – Noi del Fatto, 15 anni di notizie e mai nessun padrone
Giornalisti e collaboratori ricordano la loro “prima cosa bella” da quando esiste il nostro giornale.
Elisabetta Ambrosi
Io, Il Fatto, lo sogno spesso di notte. La psicoanalista dice che rappresenta la mia anima arrabbiata, critica, un filo narcisista, ironica, che rifiuta il male. Poi ho anche un’altra anima, più meditativa, che tende ad accettare ciò che accade. Ma senza la prima, e senza Il Fatto, il male in Italia avrebbe meno argini. Se non ci fosse Il Fatto, non farei la giornalista e prevarrebbe la mia anima zen, fiori e candele, per la felicità di corrotti, corruttori e giornali-marchetta. Quelli dove i pezzi hanno obiettivi da colpire e complicati retroscena. Mentre al “Fatto” si scrivono, si mandano ed escono. Pazzesco, vero?
Riccardo Antoniucci
Sono al Fatto da troppo poco per condividere una memoria, posso condividere un dato di cronaca. Da quando frequento il mondo del giornalismo, questo è l’unico quotidiano di cui si dice “è l’unico che vale ancora la pena leggere”. È anche l’unico a essere bersaglio degli attacchi da parte di chi ha potere. Sono entrambe le condizioni essenziali di un giornale libero. Ringrazio di poter frequentare questa libertà ogni giorno, mi impegno ogni giorno per contribuirvi
Vincenzo Bisbiglia
Rubo le parole, recentissime, di un collega: “Il Fatto Quotidiano è il miglior posto dove lavorare nell’attuale panorama dell’informazione italiana”. E poi, altrettanto recenti, quelle di un lettore: “A volte non sono d’accordo con voi, ma vi compro sempre perché non vi siete mai venduti”. Queste due affermazioni per me sono Il Fatto: orgoglio, lustro, responsabilità. Auguri a tutti noi (e voi).
Nicola Borzi
Il mio legame col Fatto inizia da esterno: lo leggo sin dal suo primo numero, quando lavoravo al Sole 24 Ore. Da subito ne ho ammirato l’indipendenza e il coraggio. Oggi posso rivelare che qualche scoop di questo giornale è arrivato anche dal mio ex quotidiano: tutte le volte che una notizia “scomoda” veniva censurata là, piuttosto che lasciarla morire in un cassetto preferivamo offrirla ai colleghi del Fatto, sicuri che qui sarebbe stata verificata e pubblicata. Uscito dal Sole nel 2018, ho cominciato a scrivere qui: da sei anni sono orgoglioso e felice di far parte di questa testata libera.
Giampiero Calapà
Tempo fa ho scoperto di aver perso una causa (civile, il penale finì archiviato), la prima in tanti anni, ma non ne sapevo nulla: pignoramento e conto bloccato per mesi. Ho avuto da subito il sostegno del direttore Marco Travaglio e poi il giornale ha risolto. Ma quanto è “libera la stampa” per i colleghi là fuori? Qui ci sono grazie a Bruno Manfellotto (ero al “suo” Tirreno) che fece il mio nome a Padellaro; e grazie a Vitantonio Lopez che dopo neppure un anno di precariato mi fece assumere. Ne abbiamo fatte tante, Ettore Boffano ieri ha citato lo “scoop” sulla morte di Riina. Tante ne dobbiamo fare, anche se non è più domenica da quando Enrico Fierro non scrive più.
Pierluigi Giordano Cardone
30 dicembre 2010, sono giornalista professionista da 15 giorni, da cinque mesi ho finito il mio stage al Fatto. Insomma: un perfetto (ma ambizioso) signor nessuno. Collaboro dalla Puglia, sono oltre le 20 di sera, una fonte mi dà una dritta: Berlusconi è indagato a Lecce per la questione Alitalia. Giro la segnalazione in redazione. Cinque minuti di attesa, mi richiama Edoardo Novella: “Verifica e scrivi, stiamo cambiando la prima, ci apriamo il giornale”. Il ‘senso’ del Fatto è tutto qui: comanda la notizia, anche se a portarla è l’ultimo arrivato. Ieri come oggi, da 15 anni.
Stefano Caselli
La prima cosa bella – fin dai giorni dell’appartamento di via Orazio in cui si preparavano i numeri zero – è ancora la stessa: un giornale fazioso. Fazioso sì, perché un giornale non ha l’obbligo di essere neutrale (sai che noia…), semmai ha il dovere di essere onesto, che è una cosa ben diversa dall’essere equidistanti. Noi ce l’abbiamo messa tutta, a essere onesti. E se a volte non ci siamo riusciti, abbiamo fatto tutto da soli, sbagliando per conto nostro, senza che nessuno ci dicesse come fare. E per chi fa il nostro mestiere, non è poco. Anzi, è molto di più.
Martina Castigliani
Quando è nato Il Fatto ero una delle tante studentesse all’estero che sognava di fare la giornalista. Seppi per caso che stava per nascere la sezione dell’Emilia Romagna. Mi dissero che la dirigeva Emiliano Liuzzi. Gli scrissi quasi per provocazione, a chilometri di distanza, sicura che non avrebbe mai risposto. Lo fece subito. “Quando torni?”. Al colloquio, quasi una sola domanda: “Allora, idee?”. In una settimana mi scaraventò in strada con la sua squadra instancabile e piena di sogni; un anno dopo alla “scuola” del sito agli ordini di Peter Gomez: oggi una casa, prima ancora di una famiglia.
Leonardo Coen
Nell’era della disonestà intellettuale trionfante, la difesa della verità (e della Storia) è un atto di “salute pubblica”. Menzogne vecchie non fanno verità nuove. Siamo infatti alluvionati non solo dalle mutazioni climatiche, ma anche da tsunami di disinformazioni e di notizie spesso irrilevanti (apposta: distrazioni di massa). Dovere di ogni giornalista è smascherare senza alcun timore reverenziale le manipolazioni dei poteri forti e le menzogne di chi ci governa. Da noi, pochi ci provano: però, molti di costoro scrivono sul Fatto. Succede da 15 anni. Per questo sto con loro.
Silvia D’Onghia
La redazione vuota e Padellaro che mi chiedeva come avrei fatto con una bimba di tre anni. I pasticcini dei lettori. La prima telefonata a Ilaria Cucchi, quando ancora Stefano era uno sconosciuto. I corazzieri in via Valadier, dopo aver denunciato i troppi agenti impiegati per la sicurezza di Napolitano. Il mio cane da portare dal veterinario, la notte in cui la Concordia affondava. Le tracce su Telegram dei terroristi di Bruxelles. Nuccio e Vitantonio, che avevano fatto del gruppo la forza di un giornale. Charlie Hebdo, con quella dura comunicazione da dare ai miei figli: “Pubblichiamo”. E le feste, l’affetto, la sensazione di far parte di una grande comunità. Dopo 15 anni, a Padellaro, Travaglio e Gomez posso solo dire “grazie”.
Luca De Carolis
Facciamoci gli auguri, con la voglia di restare sempre ciò che siamo: qualcosa di differente, che a molti mancava e alcuni non avrebbero mai voluto.
Virginia Della Sala
Era il quotidiano amato dai miei genitori e dunque odiato da me. Poi sono cresciuta, ho osservato altre realtà da vicino, capito l’importanza di uno spazio condizionato solo da idee, scelte e ragionamenti più o meno condivisibili ma comunque sempre trasparenti. Il Fatto è senza paura e senza paura è l’unico modo per progredire. Nel 2014 mi ha accolto solo per il mio lavoro. Ricordo la mail inviata a Stefano Feltri, allora responsabile del servizio economico, sottoponendo una mia inchiesta sui social network. “So che i giornali non prendono in considerazione proposte di persone che non conoscono, però ci provo lo stesso” scrissi nell’incipit. Seppi subito che il Fatto non era “i giornali”.
Luana De Micco
Parigi, è la mattina del 7 gennaio 2015. Mi squilla il cellulare ed è Stefano Citati che mi dice: “Vai a vedere per noi cosa sta succedendo a Charlie Hebdo?”. Due terroristi affiliati ad Al Qaida armati di kalashnikov avevano appena fatto una strage tra i disegnatori e i giornalisti del settimanale satirico, poco lontano dalla Bastille. Mi precipitai subito nel metrò… Quattro giorni dopo mi ritrovavo in place de la République insieme ad un milione di persone che come me alzavano verso l’alto una matita, diventata ormai il simbolo della libertà d’espressione. Ed è così che ho cominciato a lavorare per IlFatto.
Patrizia De Rubertis
Settembre 2012, il coronamento di un sogno: entrare ufficialmente a fare parte della grande famiglia del Fatto. Una missione vissuta da sempre con una dose massiccia di ambizione ed entusiasmo, mai venuti meno neanche dopo un mese di notti in bianco per lavorare, insieme a David, alla nascita della Tv del Fatto. E poi centinaia di dirette streaming e il passaggio dal sito al quotidiano, grazie a Stefano, con la stessa missione: raccontare i fatti senza la pressione dei poteri forti. Riuscire a dare voce ai lettori che ogni giorno si raccontano e si affidano a noi.
Carlo Di Foggia
Al Fatto ci sono entrato da stagista. Stefano Feltri buttò sul tavolo un plico di documenti dicendo solo “fai 5.000 battute”. Un collega di fianco se la rideva (“a volte saluta anche…”). Dodici anni dopo, questa scena mi fa ancora sorridere ed è la prima che mi viene in mente, forse perché mi diede subito la cifra di questo posto: è un giornale che può aprire la prima pagina con l’articolo di uno stagista, nel bene e nel male. Non voglio scivolare nella retorica e quindi posso solo dire che ho incontrato grandi giornalisti disponibili a insegnare, qualcosa di rarissimo in questo ambiente. Basta anche solo questo a rendere unico e prezioso il Fatto.
Stefano Disegni
C’erano una volta i giornali di satira. Testate gloriose come Il Male, Tango, Cuore, in edicola a fare da controvoce alle cronache del loro tempo. Poi finì. Nessuno investì più sulla satira, fine dei tavoloni cosparsi di pizza, birra e sostanze poco ortodosse, attorno ai quali persone improbabili buttavano fuori idee, scarabocchiavano, sghignazzavano, litigavano, insomma l’usuale riunione di redazione di un giornale satirico. Il Fatto andò controcorrente. Varò Il Misfatto, inserto satirico di 16 pagine! Inaudito, quasi suicida. Tentai in tutti i modi di non dirigerlo, preferivo vivere. Padellaro mi faceva gli appostamenti in corridoio, cedetti e fu un’esperienza di quelle che le racconti ai nipoti. Ogni settimana si sfornavano trovate, fischiavano cazzate meravigliose, si inventavano rubriche (i fotoromanzi andavano forte). Collaboratori del calibro di Andrea Camilleri e Milo Manara, subito denunciato per colpa mia. E i giovani disegnatori che ci divertivamo a trovare e valorizzare, per non essere sempre i soliti senatori. Col Misfatto, per il tempo che durò (tre anni, nella satira è quasi record), risorse una realtà che pareva ormai estinta, ma che dalle risposte dei lettori estinta non era: il giornale di satira. Onore al Fatto che tanto osò. E sovvenzionò.
Franck Federighi
Tempo fa il Fatto non volevo assolutamente leggerlo, ne avevo paura, in genere abbiamo paura della verità ci colpisce al cuore senza pietà, senza esclusioni di colpi, però al tempo stesso ‐ essendo io in primis un cercatore della verità ‐ ne ero attratto e dunque decisi di cominciare a leggerlo: è la cosa giusta, è come votare, è un diritto e un dovere, infatti leggere il Fatto vale la pena per le incazzature che la verità può dare. Il titolo “Benvenuto assassino” l’ho amato e odiato all’istante, amato perché racconta la verità, odiato perché fa riflettere, e non poco, per come siamo mal messi oggi al governo. Questo è il Fatto! Devo però anche dire che sono un felice collaboratore, cercatore di verità nei volti, accompagnando i fantastici testi di Corrias con i miei ritratti grotteschi: lo sono da cinque anni, ma mi pare di collaborare da sempre, in questa grande famiglia.
Alessandro Ferrucci
Il primo giorno l’ho vissuto al rallenty. Lo ricordo per fotogrammi. Quindi i volti di noi, la curiosità, le telefonate di amici, parenti e colleghi che chiedevano “ma su cosa aprite?” “Domani vedrete”. L’incertezza. La fiducia totale nei confronti di chi ci guidava, la voglia di non andare a dormire per capire fino all’ultimo cosa stesse accadendo. Poi il primo anno è stato un attimo, un soffio di adrenalina, tutti noi concentrati in due stanze, talmente vicini da passarci i virus come all’asilo. Tutti malati, compresi i capiredattori, Nuccio Ciconte e Vitantonio Lopez, e la direzione, più grandi di noi; più grandi ma complici, talmente complici da condividere anche quei brandelli di vita fuori da via Orazio. È stato magnifico.
Giorgio Franzaroli
“Sarà per avere quindici anni in meno”, cantava Francesco Guccini nella sua Eskimo, dove racconta di una domenica di settembre. Un sabato di settembre di 15 anni fa ero a Roma, c’era una manifestazione indetta dalla Fnsi per la libertà di informazione, che sotto Berlusconi viveva tempi difficili. In realtà era già agonizzante per l’ortodossia della “sinistra”, ancora più realista del Caimano, che l’informazione gliela aveva servita fumante su un piatto d’argento quando stava al governo. In piazza del Popolo, prima degli interventi di intellettuali, scrittori e giornalisti, annunciarono la lista delle redazioni presenti alla manifestazione, tra cui anche quella del Fatto Quotidiano. Il primo numero sarebbe uscito in edicola quattro giorni dopo. A spiazzare fu la risposta entusiastica dei lettori, che dimostrarono di essere una comunità in attesa di essere rappresentata. Con il Fatto cominciai a collaborare attivamente solo un anno più tardi, ma quel sabato di settembre percepivo già un forte senso di appartenenza come lettore, ancora prima di farne parte come collaboratore.
Paolo Frosina
Il 23 settembre 2009 ero in edicola all’alba, prima di andare a scuola, per prendere la prima copia (che ho ancora, ingiallita) di quel piccolo giornale così adatto a un adolescente: ribelle, scontroso, irriverente, idealista. L’ho comprato tutti i giorni per un anno, finché mio nonno – la stella fissa, il faro dell’impegno civile – mi ha regalato l’abbonamento. Sapeva che volevo fare il giornalista e lavorare in un posto così. Quindici anni dopo, lavoro in un posto così. E non ringrazierò mai abbastanza chi lo ha permesso.
Marco Franchi
Mi sento Fatto di nome e di fatto: firmo fin dai primi giorni, ma non ho mai scritto una riga; sono eclettico e a volte insostituibile, ho prestato il mio nome a colleghi riottosi o anche solo dubbiosi, che fosse politica, esteri o cronaca, e sono finito anche in prima. Ma al contratto preferirò sempre la fama, seppur anonima.
Lorenzo Giarelli
È impossibile stare al Fatto senza sentire l’orgoglio della comunità, fatta di migliaia di persone che ci diedero fiducia ancor prima di iniziare. È l’eredità più sincera a preziosa che chi è qui dal giorno 1 ha trasmesso a coloro i quali, come me, sono arrivati dopo. Mentre spegniamo le candeline, un desiderio: esserne all’altezza, senza che quella stupenda comunità sia mai data per scontata.
Maria Rita Gismondo
Il Fatto è arrivato nella mia vita professionale casualmente, una telefonata, la richiesta di un parere e poi l’invito a continuare a scrivere i miei pareri sulla pandemia. Lo spazio a me dedicato è diventato per tutto il triste periodo un appuntamento, prima giornaliero (e poi 3 volte la settimana) di grande successo. Il mio ringraziamento a Marco Travaglio e a Maddalena Oliva che hanno sempre lasciato libera la mia penna e continuano a darmi fiducia nelle puntate settimanali che dedico alle novità e ai problemi della Medicina. I messaggi che mi arrivano sono la lieta conferma di dare pillole molto gradite. E questo è… Il Fatto! Grazie!
Alessia Grossi
Di 15 anni fa ricordo il colloquio con Antonio Padellaro, già direttore dell’Unità dove avevo iniziato da stagista e poi collaboratrice. La serata di presentazione, il volerne fare parte. Ricordo quella telefonata, tre anni dopo: avrei potuto esserci. Il volo Madrid-Roma sotto la neve: tornare in Italia per una buona ragione. Ritrovare colleghi, l’amministratore delegato, Poidomani: un giornale diverso, sempre scomodo e controcorrente. Quasi 13 anni dopo, il Fatto è casa, qui ho incontrato anche il mio compagno. E ancora oggi, quando provo a mettermi comoda e non riesco, ricordo che sono qui per questo.
Michela A.G. Iaccarino
Durante la guerra in Libia, quella che ha poi portato alla caduta di Gheddafi, quasi tutti i corrispondenti stranieri si ammassavano all’hotel Corinthia. In quel 2011 e in quell’albergo che non aveva più camere libere, né cibo o acqua potabile, mi dissero che sui pavimenti di una stanza già piena c’era un giornalista italiano che continuava ad accogliere giovani freelance squattrinati. “Chi è?” chiesi. “Citati”. “Citati Pietro?!”. “No, Citati Stefano, il figlio, quello del Fatto”. La mia prima redazione del Fatto è stata quella: una stanza-accampamento durante la battaglia di Tripoli, un razzo che ti battezza al fuoco, gente dentro che ride insieme, dopo che insieme l’ha scampato.
Vincenzo Iurillo
Quando comunicai ad alcuni familiari che stavo per imbarcarmi come mozzo nel varo della nave de Il Fatto Quotidiano, la reazione più carina fu questa: “Fallirai e falliranno entro sei mesi”. Vi risparmio le altre: trite e ritrite battute contro il giornalismo ‘forcaiolo e manettaro’ et similia che a loro parere avrebbe caratterizzato questa testata. Inutilmente provai a spiegare che il Fatto aveva come stella polare la Costituzione, e che il bisogno di informazione libera e indipendente era più che dimostrato dalle folle che già all’epoca si formavano ai dibattiti con Marco Travaglio. Sarebbe stato sufficiente guardarle senza gli occhi foderati dal prosciutto del berlusconismo, per capire che il Fatto nasceva sotto i migliori auspici, e sarebbe durato a lungo. Per fortuna mia, orgoglioso del mio mattoncino alla costruzione di questa casa, e alla faccia loro.
Thomas Mackinson
“Il suo compagno non supererà la notte”. Così dissero i medici del Gaslini alla madre dei miei figli. Una settimana dopo ero vivo (tiè!) e da una camera sterile battevo il primo articolo per il Fatto Quotidiano, benché fossi ancora un po’ “disorientato” e pure sotto contratto con un altro giornale che mi licenziò in tronco per averlo fatto. L’impulso fu però irresistibile. Mai decisione fu più convinta, mai azzardo più ripagato. La mia seconda vita ripartì (anche) dal Fatto e dalla libertà di scrivere. Nei 14 anni successivi è stata migliore della prima.
Riccardo Mannelli
Non ho alcun dubbio: la più bella sorpresa ricevuta dal Fatto in questi tre lustri di collaborazione per me fu durante i giorni dell’affaire Boschi e la vignetta su “Lo stato delle cosce”. Tutti i canini da guardia dei media si avventarono sulla ciccia che avevo disegnato, tutte le grandi firme (destre/sinistre) elzevirarono compiaciute sui limiti della satira del buongusto della decenza, condannando o più mellifluamente galleggiando sui distinguo e sui ma… Perfino la presidente della Camera Laura Boldrini mi dette pubblicamente del volgare sessista. Bene, mi aspettavo che questo giornale in qualche modo fosse al mio fianco (c’erano già stati precedenti), ma non in quel modo schietto e determinato; non una difesa corporativa, ma una partecipazione e un coinvolgimento in prima persona, dai direttori ai redattori, gettando il cuore nella mischia e chiamando a raccolta le migliori teste pensanti (ricordo su tutti le risate di Dario Fo). Una allegra mobilitazione sui diritti fondamentali che mi sorprese per la naturalezza con cui si manifestò. Questo abbraccio fisico mi ha chiarito definitivamente che sui fondamentali, per il Fatto, non esistono ma.
Stefano Mannucci
La Fender di Hendrix nell’ultima alba di Woodstock, la fine di un’utopia di tre giorni (e mezzo) di Pace Amore & Musica. Ferragosto 2016, fu la prima cosa (bella) che mi capitò di scrivere sul Fatto. Lo capii subito: questo è un quotidiano dannatamente rock. Dove tutti, dal direttore agli stagisti, ascoltano. Si lavora da superband per mettere in pagina la materia viva delle cose. Non capita spesso, altrove, di “sentire” la potenza delle news, delle inchieste, delle opinioni. Mi onora poter contribuire alla “suite” del Fatto: dove non trovi mai, giorno dopo giorno, il silenzio di chi non sa leggere lo spartito del mondo là fuori.
Alessandro Mantovani
Tornavo finalmente a Roma dopo anni, il Fatto mi ha dato questa opportunità. Di anni ne sono passati altri dieci e li ho festeggiati con i miei colleghi, che mi hanno pure preso per il culo. Festeggio perché non sono così giovane ma continuo, ogni giorno, a imparare, spesso mi diverto, in ogni caso non mi è passata la voglia di saperne e di raccontarne una in più. Al Fatto mi è successo anche di non essere d’accordo, di piantare qualche grana, e nessuno me l’ha mai fatta pagare. Qui siamo tutti diversi, ma tutti “senza padroni”. Non è solo uno slogan, è una cosa molto seria in un mercato dominato da interessi più o meno visibili che non hanno nulla a che vedere con la libertà di informazione. L’orgoglio di stare in piedi con le nostre sole forze, dopo 15 anni, vale più di qualsiasi altra cosa.
Paola Maola
Il 23 settembre del 2009 sono stata tra quelli che sono corsi in edicola al mattino presto per procacciarsi una copia del primo Fatto Quotidiano: operazione non riuscita, visto che alle 8.00 era finito dappertutto. Il giorno della mia laurea mi sono fatta fotografare con corona d’alloro e copia del giornale del giorno: volevo festeggiare col Fatto. Ora festeggio i 15 anni qui al Fatto, una storia a lieto fine per entrambi.
Wanda Marra
Tra una mortadella, le crostate, il formaggio e il vino, quella notte persi la mia copia del primo numero, autografata da tutti. Erano giorni e giorni che sotto la guida di Nuccio Ciconte noi allora in redazione (Stefano Feltri, Stefano Citati, Elisa Battistini, Silvia D’Onghia, Malcom Pagani, Silvia Truzzi, Beatrice Borromeo, Alessandro Ferrucci oltre a me; gruppetto indimenticabile) cercavamo – senza riuscirci – di chiudere un numero zero. Arrivò direttamente il numero 1. Ecco, il nostro lavoro è ancora un po’ così: perdere il numero 1 può succedere, perché stai pensando al numero 2. Poi, naturalmente, c’è il pezzo al quale avevo lavorato in quei giorni: lo Statuto del Pd, su richiesta di Antonio Padellaro. Un destino.
Antonella Mascali
15 anni e non sentirli, la libertà di scrivere ogni notizia resta intatta. Molte le emozioni professionali. Gli anni passati al palazzo di Giustizia di Milano per seguire inchieste e processi a carico di Berlusconi, da Mills a Mediaset a Ruby, con tanto di “Bunga Bunga”. Leggendo i verbali, in redazione sbottavo, ridendo: “Ma io sono una signora, non posso scrivere certe frasi!; le leggi ad personam, le “schiforme” (copyright Travaglio), gli scandali al Csm, ieri come oggi. I verbali segreti su Roberto Formigoni; l’affetto dei lettori; il giorno dell’assunzione grazie ad Antonio, Marco e Peter.
Antonio Massari
Sono trascorsi 15 anni da quando Antonio Padellaro mi fissò un appuntamento in un bar a due passi da piazza del Popolo per parlarmi della nascita del Fatto e propormi un contratto di 6 mesi – “non sappiamo se dureremo di più” – che accettai al volo. Il Fatto da allora è la mia casa. E non perché da allora sono passati 15 anni. Ma perché, per un giornalista, l’unica cosa che conta è poter scrivere liberamente. E so che ancora oggi, come dal primo numero in edicola, in nessun luogo al mondo potrei essere libero di essere un giornalista come lo sono qui. Buon compleanno!
Stefania Maurizi
Era il 24 febbraio 2020, il primo giorno dell’udienza di estradizione del fondatore di WikiLeaks, a Londra. Il mio lavoro ultradecennale sui documenti e sul caso Julian Assange e WikiLeaks mi aveva fatto finire in rotta di collisione con quello che era allora il mio giornale. Quel giorno feci un salto nel buio. Mi dimisi dopo 14 anni. Rifarei tutto. Ho trovato un giornale che su un caso assolutamente scomodo, come quello di Assange e WikiLeaks, è stato saldamente dalla parte della verità e ha combattuto dalla parte giusta della Storia. Lunga vita, Fatto Quotidiano!
Luca Mercalli
Il giovane Fatto ospitò dal 2011 le mie riflessioni contro le grandi opere inutili divoratrici di soldi e di suolo: non avrebbero trovato posto su nessun’altra testata. A inizio 2019 arrivò la rubrica su Millennium e al 30 dicembre, dopo la mia rottura con Sambuca Molinari, la telefonata a Travaglio con la quale chiedevo asilo giornalistico. Marco disse in un nanosecondo che potevo considerarmi della squadra, il 5 gennaio usciva il mio primo editoriale sugli incendi australiani e poco dopo la rubrica domenicale “SOS Clima” che da oltre 200 settimane fa il punto sul clima italiano e mondiale e c’è solo sul Fatto. Prevedo sempre buon tempo sul Fatto!
Davide Milosa
Era il 12 ottobre 2009, quando il libico Mohamed Game armato di una bomba artigianale tentò di farsi saltare in aria all’ingresso della caserma Perrucchetti di Milano. Fu un fatto clamoroso, e che aprì una stagione di grande tensione sul fronte del terrorismo internazionale. Ma quello fu anche il mio primo articolo scritto per il Fatto. Da allora, quanta cronaca, quanti personaggi scomodi raccontati. Dai politici lombardi che sempre più hanno stretto accordi con le mafie, fino agli ultimi intrecci tra malavita organizzata e curve di calcio. Un grande viaggio, che pur passati 15 anni, è ancora solo all’inizio.
Beppe Mora
A guardar bene, cosa vuoi che siano 15 anni per un quotidiano…
A guardar bene, ci sono i giornaloni che vantano storia secolare, parrocchie e proprietà inconfessabili.
A guardar bene, un quotidiano firmato dai maggiori artisti della satira, qualche difetto ce l’ha: manifesta pensieri trasversali, provocazioni e fastidi diffusi. A guardar bene, se siamo antipatici ai peggiori, mica ci dispiace! A guardar bene, non vogliamo piacere, abbiamo lo stesso modo ruffiano di un adolescente posseduto da un gatto selvatico in calore. A guardar bene, se dopo 15 anni siamo qui a combattere, un motivo c’è. Siamo incazzati e liberi. E mostruosamente talentuosi.
Natangelo
Due ricordi. 22 settembre 2009, Roma: microscopica redazione di Via Orazio, si chiude il primo numero. Mi guardo intorno, saremo una trentina di persone. Ho 23 anni, non capisco un cazzo di quello che mi succede attorno e quest’ultima cosa non è cambiata in questi 15 anni. E poi l’8 ottobre 2009: il lodo Alfano è stato appena bocciato, Il Fatto vende 130.000 copie e per la prima volta in vita mia – e in quella del Fatto – una mia vignetta viene pubblicata in prima pagina. L’emozione chi se la scorda e posso dire per certo che – in questi 15 anni – non è ancora cambiata. Auguri, Fatto!
Valeria Pacelli
La prima telefonata di Marco Lillo la ricordo ancora: avevo 22 anni, era luglio, ero a Londra e l’orario era improbabile. Non ci conoscevamo, cercava un giudiziarista su Roma, voleva allargare la squadra. Al primo caffè già tentava di spiegarmi come fare le visure e io avevo la testa tra le mani. Da lì non ho avuto dubbi. In questi anni al Fatto mi è successo di tutto. Ci sono state litigate furiose, confronti duri ma onesti. Ci sono state risate, tante. E abbracci, altrettanti. Una sola cosa però non mi è capitata mai. Non ho mai visto un mio pezzo saltare per gli interessi di alcuno, mai subito una censura. Ed è ciò che mi rende più fiera. Il Fatto è uno spazio di libertà: questo è un privilegio impagabile.
Diana Panio
“Il posto più incredibile in cui una 23enne potesse cominciare a lavorare. Era il caos, certo, e lì persone che volevano cambiare le cose. Ricordo Padellaro prima e Travaglio poi riporre fiducia in me, ricordo l’Ad Poidomani che mi diceva di aprire gli occhi, ricordo il mio primo capo grafico, che mi ha lasciato in mano il giornale dopo due giorni che ero arrivata. Ricordo Nuccio Ciconte raccontarmi tutto il bello del giornalismo. E poi i professionisti migliori che potessi incontrare, alcuni dei quali non sono più tra noi. Ricordo il rispetto, anche per chi era appena arrivato e molto giovane. Ricordo con nostalgia l’infanzia del Fatto, l’adolescenza si sa, è un’età turbolenta ed è faticoso gestirla, ma io ci sono resiliente e resistente.
Giuseppe Pipitone
Non chiesero i titoli di studio, chi lo mandasse e neanche quanti anni avesse di preciso: comandava la notizia, solo la notizia. “Scrivi a Peter Gomez”, rispose Marco Travaglio, dando diritto di cittadinanza a una mail arrivata da quello che, in fondo, era solo un ragazzino siciliano. È così che è cominciata la mia avventura al Fatto: il giornale esisteva da alcune settimane (lo compravo ogni giorno), il sito sarebbe nato mesi dopo (e poi sarebbe diventata casa, ma questo non potevo saperlo). In quindici anni è successo di tutto. Qui, però, comandano ancora le notizie. Solo le notizie
Federico Pontiggia
Ricordo ancora, dove fossi seduto perfino, la telefonata di Malcom Pagani che mi associò. E il primo pezzo, sulla Festa del Cinema di Roma, alla voce Veltroniadi, o giù di lì. 15 anni di film, filmini, filmetti, festival e altre invenzioni senza (troppo) futuro con i lettori per spettatori, e viceversa: il cinema del Fatto. Elogi qualcuno, stroncature di più, riconoscenza e riconoscimento, con il faro di Pauline Kael: “The critic is the only independent source of information. The rest is advertising” e il porto della Dolce vita: “Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi”. Auguri.
Ilaria Proietti
Come dice uno che la sa lunga (il venerato maestro Antonio Padellaro) “il giornalismo è una cosa troppo seria per essere noiosa”. E al Fatto Quotidiano non ci si annoia mai.
Sabina Provenzani
Per me il Fatto è la soddisfazione, ogni volta che torno in Italia, di rivelare per chi scrivo e sentirmi dire: “È l’unico giornale che valga ancora la pena comprare”.
Elisabetta Reguitti
Mercoledì 23 settembre 2009. Posso dirlo, quel giorno io c’ero. Il sogno di ogni giornalista: essere parte della nascita di un nuovo quotidiano. Il direttore Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Peter Gomez: per me pezzi da novanta di una scuola di giornalismo “sul campo”. Giorgio Poidomani l’allora Ad con il suo sorriso prudente, per quel miracolo editoriale. Sui treni, autobus e per strada ricordo che chi aveva comprato una copia del FQ la mostrava con orgoglio; perché le copie stampate erano di gran lunga meno delle richieste. Poi quella frase letta sull’allora Antefatto: “Continuate così. Noi siamo il vostro editore. Fino a quando compreremo il vostro giornale non dovrete temere nulla”.
Pasquale Rinaldis
Entrare al Fatto Quotidiano un mese dopo la sua nascita è stata un’esperienza irripetibile. Lasciai un posto sicuro per intraprendere questa avventura, nonostante Antonio Padellaro in sede di colloquio mi avesse avvertito che, senza raggiungere il break even point, avrei rischiato di tornare a casa a mani vuote. Io gli risposi di apprezzare molto il fatto che la linea del giornale fosse quella dettata dalla Costituzione e che lui l’avrei considerato come il presidente della Repubblica, il nostro garante. Non ebbi la minima esitazione. In questi 15 anni ho avuto la fortuna di crescere e lavorare fianco a fianco a giornalisti di razza e oggi sono fiero di far parte di una redazione libera e indipendente.
Tommaso Rodano
Il 23 settembre 2009 avevo 25 anni e un’idea ancora pallida di cosa avrei fatto da grande. Un solo sogno dai confini vaghi: scrivere. Era il giorno del test d’ingresso in una scuola di giornalismo di Roma. Mentre aspettavamo di essere convocati in aula, un ragazzo seduto sui gradini all’ingresso, Davide, sfogliava un giornale nuovo, uscito in edicola poche ore prima. Quella mattina non potevo saperlo (e forse non l’ho realizzato ancora) ma avevo trovato il mio posto nel mondo.
Natascia Ronchetti
Al Fatto bisogna sporcarsi le mani. Verifica delle fonti e dei fatti. Approfondimento. Poi si scrive. Bello. Perché qui non ci sono “contenuti” ma notizie. E a me sembra ogni volta di tornare indietro nel tempo, a un tempo più libero e vero. A quella vecchia scuola di giornalismo che ti diceva di scavare, di attenerti al nudo e crudo. Ai fatti, appunto. E che ti insegnava anche a evitare le trappole dell’autocensura. In definitiva a fare ciò che dovresti fare: il cane da guardia.
Gianluca Roselli
Quelli che… “ah, voi del Fatto Quotidiano…”, oh yeah. Quelli che… “no, con il Fatto non ci parlo!”. Quelli che… “perché mi chiamate, è successo qualcosa?”. Quelli che… “ah Travaglio, quanto mi sta sui c….”. Quelli che… “ho visto Travaglio ieri sera in tv, ero d’accordo su tutto, ma è pure ringiovanito…?”. Quelli che… “ma quanto vi manca Silvio Berlusconi?”. Quelli che… “certo però quello Scanzi!”. Quelli che… “certo però la Lucarelli!”. Quelli che, “Travaglio non mi piace, preferisco quell’altro, sì dai quello, come si chiama…?”. Quelli che… “in edicola non l’ho trovato, mi mandi il link?”. Quelli che… “ma non vi siete ancora stufati dei 5 Stelle?”. Quelli che… “meno male che ci siete voi del Fatto Quotidiano”, oh yeah.
Vincent Russo
Il 23 settembre 2009 usciva in edicola il Fatto Quotidiano, una rivoluzione sostenuta dalla forza di una community di lettori che, da 15 anni, rinnova la fiducia nel nostro giornalismo, sia online che in edicola. Io c’ero, e ogni volta che rivedo quel primo numero, provo un orgoglio immenso per essere tra le firme. Insieme a Paola Porciello, raccontavo la nascita di antefatto.it, la “palestra estiva” che aggregò editorialisti, giornalisti e 40 mila abbonati, pronti a credere nella nostra visione.
Giacomo Salvini
Una mail anonima di un lettore in un pomeriggio di novembre: “Il ministro ha fatto fermare il mio treno ed è sceso a Fiumicino”. Il cognato-ministro della premier che ferma un Frecciarossa in corsa, in barba ai pendolari. Bum. La riunione all’ufficio centrale con l’ordine di Edo-Edu: “Lavoriamoci”. L’adrenalina della notizia. La corsa di Maddalena. La verifica con Carlo e Vincenzo. La prima pagina: “Lollo capotreno”. Ripresa ovunque, in Italia e all’estero. Il governo in crisi per diverse ore. Mettete insieme questo a un grande open space di talenti e rompiscatole: avrete Il Fatto Quotidiano. Ogni giorno, da 15 anni. Grazie a Marco, Peter e Antonio. E auguri a tutti noi!
Antonio Spadaro
La mia prima “cosa” bella del Fatto quotidiano è stata una telefonata del suo direttore. Tre anni e mezzo fa Marco mi chiese di scrivere ogni settimana un pezzo di commento al Vangelo della domenica. La mia risposta fu “no”, ripetuto al telefono due volte. La terza richiesta – Marco è testardo – mi ha messo in crisi. E questa è la seconda cosa bella. La sua era una sfida: scrivere di Vangelo come di un fatto di cronaca. Ho scritto: la mia era una bella predica, in fin dei conti. L’ho cestinata. Ho riscritto come se avessi in mano una cinepresa. E da allora sono al quarto anno di presenza sulle colonne del Fatto. Continuo a ricevere lettere di indignazione e lettere di apprezzamento. Altra cosa bella, questa. La più bella di tutte? Papa Francesco ha voluto scrivere la prefazione a “Una trama divina”, il volume che ha raccolto i pezzi del primo anno scritti per questo giornale. Buon compleanno!
Angelica Tranelli
A guardarla dall’esterno, si direbbe non ci sia sfida più difficile di coniugare i social e il mondo digitale con il lavoro di un quotidiano composto di carta e piombo, che si chiude in redazione di notte e arriva in edicola molto presto la mattina. Eppure, questa sfida il Fatto l’ha assunta dall’inizio, con la voglia di mettersi in gioco. Io sono felice di dare il mio contributo. Vincerla non sarebbe possibile senza un elemento essenziale: quella distanza tra giornale di carta e l’universo digitale nella quotidianità della redazione ogni giorno viene annullata grazie alla disponibilità e all’umanità di tutte le persone che lavorano in questo giornale.
Giovanna Trinchella
Sono arrivata solo nel 2012, quando il treno del FattoQuotidiano.it era in già un treno in corsa, per seguire la cronaca giudiziaria. Ma non c’è stato giorno in cui non abbia avuto la fortuna e la “tensione” di dovermi occupare anche di altro. Le riunioni con Peter Gomez non sono riunioni, ma una cascata di stimoli e una sfida continua. Con la missione di avere le nostre notizie senza mai fermarci al primo gradino della verità e dire sempre quello che gli altri non dicono o dirlo meglio. Una libertà e una responsabilità che vivo ogni giorno e spero di vivere ancora per molto.
Andrea Tundo
Estate 2013, sono nella short list per sei mesi di stage in un importante quotidiano nazionale grazie a un pezzo sulle accuse ad Enel di organizzare manifestazioni degli operai, spacciate per “spontanee”, nelle centrali a carbone dopo ogni protesta di Greenpeace. Nessuno ha mai scritto una riga. Tutto è verificato. Non vinco, ma chiedo: “Lo avete reputato tra i migliori, vi interessa per il giornale?”. La risposta è secca: “No, grazie”. Lo invio al Fatto, con il quale non avevo mai collaborato: l’indomani è pubblicato. Quel giorno ho capito che qui comanda solo la notizia. Dopo dieci anni, la mia “casa” è sempre la stessa.
Vauro
Quindici anni?? Oh cacchio… cerco di ricordare, ma alla mia età ci si scorda. Sicuramente 15 anni fa avevo più memoria. La cosa più bella del Fatto che ricordo? È che ancora c’è. E non è poco!
Paola Zanca
La fine dell’estate del 2009, io e una banda di giovani giornalisti in cerca di lavoro, l’abbiamo passata a rincorrere Antonio Padellaro che girava l’Italia per presentare il giornale che ancora doveva nascere e di cui già tutti parlavano. Speravamo in un contatto, un colloquio. Arrivò una pacca sulle spalle: “Aspettate, non so quanto duriamo”. Quindici anni forse non se li aspettava neanche lui. E non è ancora finita. Che piacere poter dire che alla fine quei curriculum sono andati in buca senza bisogno di troppe presentazioni. Ode al Fatto e alla fiducia che ha dato a tanti di noi con un cognome qualunque.