Il 12 ottobre Massimo Ghini compie 70 anni. Cifra tonda, tipica di bilanci, sorrisi, saggezza, consigli e rilanci.
Il vero bilancio è che in un pranzo infinito (alle 16 ci hanno cacciato dal ristorante) il tempo è stato trattato come uno splendido album Panini dove le istantanee di una vasta esistenza diventano immagini pervase dai colori più imprevedibili. Un pantheon di incontri, emozioni, avventure, follie dove a volte non si capisce neanche il confine tra realtà e set, dove sembra di assistere a una sit-com statunitense modello Seinfeld, con ingressi di guest star ad arricchire la puntata.
E allora è normale sentir nominare Orson Welles, o Michael Douglas; Gregory Peck come Rudolph Nureyev; o le serate a botte di champagne con Volonté, Villaggio e “le due bonone moldave”; Manfredi così come Tognazzi e Mastroianni. “A volte mi dicono che sembro Gianni Minà”.
Il risultato è che questa è la prima puntata dell’intervista a Massimo Ghini. Domenica prossima la seconda.
Come sta?
Felice, arrivo da 145 sold out consecutivi in teatro (Quasi amici con Paolo Ruffini) e questo spettacolo è arrivato in un momento particolare, di mal sopportazione di com’è l’andamento del cinema in Italia; (pausa) eppure ho vissuto l’ultima codina del cinema: ho lavorato con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, per conto di Sordi interpretando Alberto Sordi; con Ugo Tognazzi…
Le manca Mastroianni.
Di Marcello ho un ricordo meraviglioso: un giorno mi chiama Roberto Cicutto (produttore cinematografico): “Ti vuole incontrare la Tatò (regista e moglie di Mastroianni); vieni da me?”. Accetto. Arrivo. Lei per niente empatica (si mette in posa con il collo steso e la bocca modello “culo di gallina”). Ci sediamo e subito detta i confini. “Vivo a Parigi e non conosco gli attori italiani”.
Perfetto.
Passano cinque minuti e ripete “non conosco gli attori italiani”; altri cinque e lo precisa per la terza volta.
E lei?
Sono fumantino e rugantino, quindi lievemente scocciato replico: “Allora perché hai voluto incontrami?”. “Il tuo nome me l’ha segnalato Marcello”. Io mi sono tramutato in uomo finito, arreso; poi ho capito che Mastroianni apprezzava il mio passare dalla commedia al dramma fino al palco del Sistina.
La poliedricità è spesso uno svantaggio.
E che non lo so?
Mastroianni lo ha conosciuto?
No, questo è il punto: ma quando è morto la sarta di Marcello mi ha chiamato e regalato due cravatte, una delle due è quella di Oci ciornie; (sorride) ho la giacca di Rossellini.
Pure.
A me le “brigate Rossellini” mi hanno fatto un culo così (e mima ampiamente il gesto).
Per Celluloide dove interpreta proprio Rossellini.
Anno 1996, per questo film hanno assegnato il David a Giancarlo Giannini; (pausa) per carità lui è un grande maestro e Nicoletta Strazzeri (addetto stampa) mi ha imposto il “non ti lamentare!”, però a me niente, mai.
Insomma, queste “brigate”.
Sul set c’erano Carlo Lizzani, amico intimo di Rossellini, Marcella De Marchis, sua prima moglie, e Isabella Rossellini che ancora oggi quando mi incontra mi chiama “papà”; eppure l’accusa è che l’ho reso troppo leggero.
Sacrilegio.
Invece la storia di Rossellini ricorda quella di Giovanni Malagò (presidente del Coni)…
Qui entriamo in zona pericolo.
Giovanni ha iniziato come giovane, bello, alto, ricco e “sparone”, mentre oggi è un manager affidabile. Allo stesso modo Rossellini proveniva da una famiglia di palazzinari, ricchissimi: l’ambasciata degli Stati Uniti a via Veneto l’hanno costruita loro, così come erano proprietari dell’albergo lì davanti.
Altro che ricchi.
Rossellini andava a Cinecittà con la Bugatti; per tutto questo l’intellighenzia mi ha trattato con indifferenza.
Per Christian De Sica Rossellini odiava gli attori. Lei quanti registi “odianti” ha vissuto?
È capitato e ogni volta mi è scattato un senso di pietà; (pausa, ci pensa) da ragazzo il mio soprannome era “Sparami in petto” perché sono sempre pronto alla discussione, ma non sopporto la maleducazione, il volerci far passare da idioti…
Come?
Magari chiedono di girare scene senza alcun senso; (sorride) quando arrivi a un tot di film, certe dinamiche le capisci subito.
Una sua dote sul set.
Che sto sul set, sto con il set: dagli artisti ai tecnici, mantengo rapporti con tutti, vivo quella situazione.
Vari colleghi la definiscono “amico”. A partire da Haber e Ciavarro.
Con Massimo siamo legati da una vita e sono io ad averlo convinto ad affrontare il teatro: ora è un malato di palco, mi chiede sempre “quando ricominciamo”, e insieme abbiamo recitato in un lavoro di Florian Zeller; (cambia tono) sono io ad aver portato in Italia Zeller, ma non me lo riconosce nessuno, e lo stesso Zeller dopo aver visto la rappresentazione mi ha confidato: “Ora ho capito aspetti che neanche io avevo colto”.
Haber.
(Sorride) Alessandro non è una persona facile, ma è il mio testimone di nozze e sono l’unico che ha la sua autorizzazione a imitarlo (inizia a parlare aspirato e ansimando proprio alla Haber).
Conosciuti, come?
Abitavo ancora con i miei, vado in un piccolo teatro per vederlo recitare in un testo della Ginzburg e lo trovo straordinario, fuori dalle regole classiche, fuori dagli atteggiamenti tromboni di molti attori del tempo. Lì ho pensato: o è matto totale o è un genio; (pausa) un po’ matto lo è. A quel punto cerco il suo numero sull’elenco telefonico, lo trovo, lo chiamo e risponde proprio lui: “Ciao, non mi conosci, però volevo dirti che sei straordinario”; a quel punto nella sua follia diventa subito ipergeneroso: “No, io ti conosco, questa voce mi dice qualcosa”. “No, nun te po’ di niente, non sono nessuno”. “Vedrai che lo diventerai… ci vediamo?”. Da lì è nata la nostra amicizia. E poi viveva con un altro uomo meraviglioso: Ennio Fantastichini, che poi ho ritrovato in Accademia.
È stato bocciato.
Insieme a Monica Scattini e Stefano De Sando. Eppure tutti e tre poi abbiamo lavorato.
Chissà la delusione.
Enorme, ed entrare sarebbe stato fondamentale per ottenere un sostegno dalla famiglia: mia madre, adorabile e folle, puntava al posto sicuro, alle certezze; (torna a prima) Monica grazie al padre (Luigi Scattini, regista) viene a sapere che Corrado Augias, al tempo non famoso, stava girando un documentario sui ragazzi che preparano l’esame per l’Accademia: “Vi va di partecipare?”. “Va bene”. Per questo ci ha seguito per un paio di settimane.
È andato in onda?
Certo. Io chiacchierone vengo intervistato a lungo e nel montaggio di Augias, sono affiancato a Vittorio Gassman.
Ma la bocciatura?
Fu politica, mi diedero del fascista.
Com’è possibile?
A quell’epoca era stata istituita la commissione degli studenti, e la nostra colpa fu quella di presentarci in gruppo con Marco Mori come regista.
E allora?
Marco non era schierato politicamente, ed era l’epoca in cui se non eri di sinistra venivi inquadrato come fascio. Quindi bocciati tutti e tre, con uno degli esaminatori, Giorgio Pressburger, che mi chiese “Lei, Ghini, che sport ha praticato?”. Io stupito, cagato sotto e incredulo, anche perché mi ero preparato in maniera ossessiva sul teatro.
Cosa rispose?
Dopo un po’ tentennai: “Pallanuoto…”. “Si vede…”. Fine dell’esame. Quel giorno accanto a me c’era Ennio Fantastichini.
Anche lui sotto esame?
Per la seconda volta, l’anno prima era stato bocciato.
Lei la seconda volta, no?
Troppo orgoglioso; la scuola l’ho poi “conclusa” con Giorgio Strehler a Milano: quando mi ha preso ho telefonato a mia madre: “Massimo com’è andata?”. “Qualcuno si è sbagliato: o Strehler o l’Accademia”. Dentro di me ho spernacchiato l’Accademia.
Com’era Fantastichini?
Un amico vero (apre il cellulare e mostra una foto con lui); insieme abbiamo passato anni meravigliosi (e continua a sfogliare il book fotografico e appaiono i nomi di colleghi di ogni latitudine, compreso Harvey Keitel).
Conosce tutti.
Ho girato 18 film in inglese e con grandi produzioni, poi anche in francese e spagnolo; (torna a Fantastichini) con Ennio ho condiviso un set con Dapporto, Ricky Tognazzi e soprattutto con Volonté…
Volonté era realmente scontroso?
De più! Attenzione: era il maestro, ma un uomo per niente facile nonostante fossimo nelle sue grazie; a volte poteva apparire quasi cattivo, senza esserlo, ma sul set tutti noi eravamo preoccupati di quello che poteva dirci…
Quanto preoccupati.
Con Una storia semplice andiamo a Venezia, per la Mostra. Arriviamo il giorno prima, quando il Festival era cosa seria.
Ora non lo è?
Sembra Miss Italia: ha lo stesso red carpet.
Calpestato da chiunque.
C’è gente che pur di scattarsi una foto alle undici del mattino indossa lo smoking; (pausa) oh, non è invidia: a Venezia ci sono andato già dal mio primo film.
Volonté.
Arriviamo a Venezia e un giornalista dell’Unità ci chiama per due battute sul film, un pezzo piccolo; il giorno dopo Volonté chiama il produttore, Claudio Bonivento, e con tono fermo detta la linea: “Non vengo più, e di’ a quei quattro mentecatti che non si devono azzardare a parlare”. Claudio mi telefona: “Massimo, aiutami, Gian Maria non viene”. “Cla’, tranquillo, altrimenti non ti avrebbe avvertito”.
E…
La mattina dopo squilla il telefono in camera. Era Claudio. “È arrivato”. “Bene, che voi?”. “Vestitevi e scendete a salutarlo”. Accettiamo. E lui ci concede un cenno da lontano. Poi arriva la conferenza stampa e una volta al tavolo lo saluto di nuovo e lui: “Compagno Ghini, il comunismo è morto, lo sai?”. Io non sapevo cosa rispondere e ho sbagliato nel rifugiarmi in una battuta: “Ce ne faremo ‘na ragione”. “Non fare lo stronzo”.
Che fatica.
Poi ci raggiunge Massimo Dapporto e sistema pure lui. “Conoscevo tuo padre, era un grande attore, veramente un grande”. Con il sottinteso: tu sei una merda; infine Ricky Tognazzi, presente con il fratello Gianmarco: “E mammina non è venuta?”.
Una parola buona per tutti.
Entriamo nella sala della conferenza e alla seconda domanda inizia una catilinaria di venti e passa minuti preparata in precedenza, bellissima, e finisce con la frase: “Voi sapete che sono un solitario, non amo far parte di gruppi, poi devo dire la verità: questa è la prima volta che mi trovo bene a lavorare con quei quattro mentecatti”. E indica noi…
E voi?
Felici ed emozionati! Peccato che subito dopo ha aggiunto: “Mi dispiace però che qui non ci sia il più bravo di tutti: Alessandro Haber”. Si alza e se ne va. A quel punto tutti i giornalisti non si filano noi e si mettono a cercare Alessandro Haber, peccato che Haber non c’era mai stato.
Haber impazzito…
Ha iniziato ad ansimare: “Ma lo ha detto?”. “Sì, ma ha aggiunto che gli devi sempre due milioni persi a poker”.
Era vero?
Eccome, e ogni volta che lo beccava non mancava di segnalarglielo. La sera di Venezia poi organizzano una festa nella suite di Volonté: entriamo e viviamo un’altra storia, un altro Gian Maria tra champagne, musica, divertimento. Un delirio. Poi all’improvviso sentiamo bussare alla porta, “ecco i Carabinieri”. E Volonté con la voce carica di diaframma: “Apro io”. Si spalanca la porta e appare Paolo Villaggio con un carrello da room service e con sopra tramezzini, bottiglie di vino e accanto a lui due bonone moldave: “Voglio partecipare anche io alla festa”. Si abbracciano e continua il delirio fino alle sei del mattino.
(Domenica prossima la seconda parte)