C’è del macabro nel celebrare il 7 ottobre come “data di una rivoluzione”. Non solo per il massacro perpetrato quel giorno di civili israeliani ritenuti da Hamas meritevoli di morte perché usurpatori di una terra assegnata da Dio ad altri. C’è del macabro anche perché è la data che segna l’inizio dell’anno più nero nella storia del popolo palestinese – altro che riscossa – per numero di vittime e sofferenze patite.
Chi ha promosso la manifestazione nazionale di sabato prossimo spacciando per Resistenza il fondamentalismo nazionalreligioso di Hamas, schiaccia i palestinesi di Gaza e Cisgiordania su una leadership che li ha condotti nel baratro. Ma decidendo di vietare quella manifestazione il governo commette a sua volta un errore che evidenzia assoluta incapacità di dialogo. E finge oltretutto di ignorare che l’opinione pubblica, con ragione, a larghissima maggioranza, reputa indifendibile il modo in cui Israele ha reagito al 7 ottobre e solidarizza con le vittime palestinesi.
Ha ragione Enrico Mentana: “Non è vietando la manifestazione che si fa cambiar idea” a chi lancia parole d’ordine sbagliate, le quali avranno così diffusione ancor più vasta. Al contrario, sfoggiando ottusa intransigenza di facciata, si contribuisce all’importazione fra noi del fanatismo: lo stesso che nutre l’inimicizia fra due popoli destinati a convivere. Ci serve il confronto, non lo scontro.
Nei giorni scorsi il presidente della Comunità palestinese di Lombardia ha condannato l’esibizione in corteo, a sua insaputa, dell’indecente cartello ostile a Liliana Segre. Sviluppare senso critico e autocritico (anche nelle Comunità ebraiche!), confutare le semplificazioni, vivere il lutto del 7 ottobre come tragedia comune, è più faticoso che asserragliarsi nelle scomuniche reciproche. L’ultima cosa da fare è opporre un veto a chi nella sofferenza usa parole sbagliate.