Schiavi della moda: a Prato primo sciopero. Costretti al lavoro 12 ore sette giorni su sette

Il sindacato Sudd Cobas: immigrati registrati a part time ma senza giorni di riposo

Rivendicare il diritto a lavorare 8 ore al giorno, 5 giorni a settimana. Non sono gli anni ‘40 del ‘900, è l’Italia del 2024. Ieri, con uno sciopero in cinque aziende della moda nel distretto tessile di Prato, chi da anni lavora 7 giorni su 7, 12 ore al giorno, ha voluto rendere evidente un […]

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Rivendicare il diritto a lavorare 8 ore al giorno, 5 giorni a settimana. Non sono gli anni ‘40 del ‘900, è l’Italia del 2024. Ieri, con uno sciopero in cinque aziende della moda nel distretto tessile di Prato, chi da anni lavora 7 giorni su 7, 12 ore al giorno, ha voluto rendere evidente un dato troppo poco noto: quelle aziende la domenica, in teoria, sono chiuse. Ma non è così. “Non le abbiamo cercate col lumicino, è la norma” spiega il sindacato Sudd Cobas, che accende i riflettori sulle migliaia di lavoratori impiegati nel tessile-moda, spesso in aziende medie e piccole, che riforniscono grandi catene o i brand del “Made in Italy”. Realtà in cui spesso lo sfruttamento estremo è ancora più duro che altrove. “Non abbiamo mai avuto scarpe né guanti, nemmeno un cerotto se ci tagliavamo le dita. Ci parlano come fossimo animali. Per essere pagati dobbiamo sempre fare enormi pressioni”, dicono gli impiegati di una stireria in sciopero, che non hanno mai visto una busta paga.

Le cinque aziende a conduzione cinese, distribuite tra Prato, Seano e Montemurlo, sono un campionario di ciò che accade nel distretto: già controllate in passato, hanno pagato la sanzione e inquadrato una parte dei lavoratori con part time, alcuni con full time a 40 ore settimanali. Ma continuano a lavorare 12 ore, 7 giorni su 7. Buste paga fasulle o mai arrivate. Richieste di restituzione della tredicesima. Tanti continuano a non avere alcun contratto. C’è una fabbrica di borse e cinture, una stireria e pronto moda (le magliette delle grandi catene low cost), una fabbrica di zipper su misura, una tessitoria: tutto Made in Italy. Poi un’azienda in cui si stira e confeziona l’abbigliamento in arrivo dalla Cina. Le condizioni non cambiano. “Sciopero anche per i miei colleghi che non hanno un contratto, che rischiano moltissimo. Ci trattano come schiavi”, spiega Hussain, che lavora nel carico-scarico 12 ore al giorno nonostante abbia un part-time. Tutti questi lavoratori, pakistani – la comunità più importante nel distretto dopo quella cinese – faticano con la lingua italiana. Accettano perché trovare lavoro, con la domanda d’asilo, è difficile: “Non c’è altra strada”, spiegano. Il picchetto iniziato ieri (senza preavviso, perché nessuno ha un contratto che preveda il lavoro domenicale) dura anche oggi.

Il problema, per il sindacato, è nelle leggi più che nei controlli: “Se l’azienda ha lavoratori in nero può pagare la sanzione raddoppiata o contrattualizzarli part-time, un detterrente insufficiente, dato che la norma è già quella di avere pochi lavoratori part-time e gli altri in nero”, spiega Sarah Caudiero del Sudd Cobas. L’invito al governo è di trattare la crisi della moda (calo dell’export, aumento della Cig) considerando che la regola, per chi resta al lavoro, è quella del 12/7: le 40 ore settimanali dovrebbero invece diventare la realtà in tutte le filiere del Made in Italy.