Immaginate una città segreta in mezzo alla giungla. Dentro ci sono decine di migliaia di schiavi chini sui loro computer. Non possono allontanarsi, e se cercano di fuggire vengono torturati e uccisi. Il loro lavoro consiste nel creare finti profili sui social e mettere a segno milioni di truffe telematiche in ogni angolo del globo. Siamo nella provincia birmana di Myawaddy, a ridosso del confine con la Thailandia.
È qui, nei territori controllati dalle milizie Karen alleate col governo golpista di Yangon, che è sorto l’arcipelago criminale delle scam city, la cui incredibile storia verrà raccontata domani sera nel programma Farwest, su Rai3.
Secondo l’analista Jason Tower, dello United States Institute of Peace, il fenomeno dei raggiri online ha generato nel 2023 un giro d’affari di oltre 64 miliardi di dollari, buona parte dei quali sono finiti proprio nelle tasche dei boss di Myawaddy. “Dietro questo business ci sono alcune grosse aziende cinesi direttamente legate al governo di Pechino – spiega Tower –. L’ideazione delle scam city nascerebbe addirittura nell’ambito del progetto della Nuova Via della Seta e all’inaugurazione di alcune strutture erano presenti membri di spicco dell’ambasciata cinese”. I grandi compound, circondati da torrette e filo spinato, sono stati tirati su dal nulla durante gli anni del Covid.
Solo nella zona di Myawaddy se ne contano a decine: a cominciare dal complesso di KK Park, il più grande, che si estende proprio a ridosso del confine thailandese e ospita circa 50 mila lavoratori. “In ciascuna scam city operano moltissime aziende, tutte dedicate al business dello scam – ci ha raccontato, in esclusiva, il dipendente di un compound –. Ogni azienda è divisa in dipartimenti: c’è chi crea i profili fasulli, chi aggancia le prede e chi, in seguito, le convince a pagare. La vittima viene palleggiata da un dipartimento all’altro, ma è sempre convinta di parlare con la stessa persona: in genere, una giovane donna di bell’aspetto. Grazie all’intelligenza artificiale siamo in grado di organizzare anche delle finte videochiamate. Le prime richieste di denaro sono sempre piuttosto esigue, poi, se vediamo che il terreno è fertile, iniziamo ad alzare il tiro”.
La truffe più diffuse sono quelle romantiche: gli scammer seducono la vittima, dopodiché, con varie scuse, gli chiedono un aiuto economico. Ma c’è anche chi propone falsi investimenti e chi, fingendosi un parente o un amico, racconta di avere un urgente bisogno di soldi. Il risultato, comunque, è sempre lo stesso: “Se finisci nelle nostre grinfie, sei semplicemente fottuto – assicura la fonte –. Noi agiamo in tutto il mondo, e il nostro metodo di lavoro è quello industriale”.
Tra i paesi più bersagliati ci sarebbe anche l’Italia, dove, secondo un recentissimo studio di “Consumerismo No Profit”, le persone che almeno una volta nella vita sono state vittime di raggiri telematici sono 12,7 milioni.
Ma il volto più inquietante di questa mastodontica fucina della truffa si cela ancora più nell’ombra. Molti lavoratori della scam city, infatti, vengono attirati qui con l’inganno e finiscono ingabbiati in una vera e propria tratta di esseri umani. “I boss dello scam hanno un disperato bisogno di nuova forza lavoro qualificata – spiega Mechelle Moore, della Ong Global Alms –. Così, dopo aver dato fondo alla manodopera locale, hanno iniziato a rivolgersi all’estero: assumono ragazzi dal Pakistan, dall’Africa, dal Marocco, dalla Russia, dalle Filippine.
Negli annunci di lavoro c’è scritto che la sede dell’azienda si trova a Maesot, sul lato thailandese del confine: ovviamente non si parla né di truffe né di scam, e i salari prospettati sono molto invitanti. Una volta arrivato a Maesot, il candidato viene fatto salire su un’auto e poi su un’altra. Il passaggio del confine birmano avviene illegalmente, attraversando in barca il fiume Moei. Solo a quel punto, quando ormai è in trappola, il malcapitato scopre dove è finito e cosa dovrà fare veramente”.
Abbiamo raccolto diverse testimonianze dall’interno delle scam city, e il quadro che ne emerge è quello di un grande campo di concentramento. Si lavora anche per per 14 ore al giorno, sotto lo sguardo vigile delle telecamere a circuito chiuso e della security interna, i cosiddetti “sceriffi”.
Chi non riesce ad agganciare abbastanza vittime viene punito con la reclusione o barbaramente picchiato. Le torture più comuni sono la fustigazione e l’elettrochoc, e chi cerca di fuggire viene spesso riacciuffato e ucciso.
“L’unico modo per andarsene è pagare una sorta di riscatto, che spesso ammonta a diverse migliaia di dollari – dice Mechelle –. Ma in generale, una volta che passi il fiume e sei in Myanmar, nessuno può più venire a salvarti”.
All’aeroporto di Maesot abbiamo incontrato un ragazzo sudafricano reduce da due mesi di prigionia a KK Park. Era convinto di andare a lavorare in una azienda di eCommerce: “La mia famiglia ha dovuto pagare oltre 5 mila dollari per tirarmi fuori da quella merda”, ci ha raccontato. Senza dubbio, altri nuovi schiavi hanno già preso il suo posto.