Big tech ha un bel problema con l’intelligenza artificiale: non sa più dove prendere l’energia e nascondere le emissioni. Il primo report dopo il boom di ChatGpt risale a maggio scorso, quando Goldman Sachs Research, quindi il ramo di ricerca di una delle maggiori banche d’affari, spiega una cosa molto semplice: una query di ChatGpt, quindi interrogare programmi d’intelligenza artificiale, ha bisogno nella sua elaborazione di risposta di una quota di elettricità dieci volte maggiore rispetto a una interrogazione a un comune motore di ricerca come Google. In questa differenza, spiegava il dossier, si cela un cambiamento radicale nel modo in cui gli Stati Uniti, l’Europa e il mondo in generale consumeranno energia e quanto costerà.
I consumi.
Attualmente, i data center in tutto il mondo consumano l’1-2% dell’energia “circolante”, ma è previsto che, complici gli investimenti sull’intelligenza artificiale, questa percentuale salirà al 3-4% entro il 2030. Cresceranno consumi e produzione come non si vedeva da una generazione e anche le emissioni inquinanti, che potrebbero raddoppiare. In Europa, tra il 2023 e il 2033, la domanda di energia potrebbe crescere del 40% e forse anche del 50%. Ed entro il 2030, il loro fabbisogno energetico corrisponderà all’attuale consumo di Portogallo, Grecia e Paesi Bassi messi insieme.
Non è una buona notizia per le aziende tecnologiche. A giugno, una ricerca dell’Osservatorio ESG Big Tech di Karma Metrix ha rilevato come il settore tech sia stato responsabile del 2-3% delle emissioni globali di gas serra, buona parte generato dalle sei principali Big Tech statunitensi, che emettono complessivamente più di 130 milioni di tonnellate di CO2₂ ogni anno, tanto quanto la Repubblica Ceca. Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft e Nvidia consumano 91 milioni di Megawattora, più di Belgio o Cile. Inoltre, negli ultimi tre anni il loro consumo è cresciuto del 48%, a un ritmo cinque volte superiore a quello della crescita mondiale. La stessa Google ha dovuto ammettere di aver incrementato le sue emissioni del 50% negli ultimi cinque anni. Colpa, sì, dell’intelligenza artificiale.
Far quadrare i conti.
Tentare di far quadrare i conti sulla riduzione delle emissioni, infatti, non funziona più. In estate Amazon ha annunciato di aver acquistato energia elettrica pulita sufficiente a coprire il fabbisogno energetico di tutti gli uffici, i centri dati, i negozi di alimentari e i magazzini delle sue attività globali, con sette anni di anticipo rispetto al suo obiettivo di sostenibilità. “Il problema principale è che i costi e la complessità dei piani di emissioni nette zero, che richiedono alle aziende di ridurre o annullare ogni tonnellata di inquinamento climatico lungo le loro catene di fornitura, possono creare incentivi perversi. I responsabili della sostenibilità aziendale spesso finiscono per perseguire i modi più rapidi ed economici per ripulire l’inquinamento di un’azienda sulla carta, piuttosto che i modi più affidabili per ridurre le sue emissioni nel mondo reale”, scrive James Temple sul Mit Tecnology Review. Ciò può significare acquistare crediti di carbonio poco costosi per compensare l’inquinamento piuttosto che ridurlo alla fonte. Una sorta di trucco contabile: alberi piantati, progetti di ripristino degli ecosistemi costieri, pratiche agricole virtuose. “Peccato che studi e inchieste hanno dimostrato che questi sforzi spesso sopravvalutano i benefici per il clima, a volte in modo esagerato”. Un altro metodo riguarda l’acquisto dei cosiddetti crediti di energia rinnovabile (REC), che apparentemente sostengono la produzione aggiuntiva di elettricità rinnovabile. Hanno però lo stesso problema: sono sopravvalutati.
Amazon, infatti, dice di aver raggiunto i suoi obiettivi di elettricità pulita e ridotto le emissioni anche acquistando più energia priva di carbonio e sostenendo progetti in tutto il mondo. Ma questo, è il punto, non equivale a procurarsi la quantità di energia elettrica che l’azienda ha consumato nei luoghi e nei tempi in cui l’ha fatto. “La realtà sul campo è che i suoi centri dati stanno facendo aumentare la domanda di combustibili fossili”, ha spiegato un rapporto di Amazon Employees for Climate Justice, un gruppo di lavoratori che ha spinto l’azienda a intraprendere un’azione più aggressiva sul cambiamento climatico. Per l’organizzazione, questa pratica non guida lo sviluppo di nuovi progetti. Secondo loro, il 78% dell’energia di Amazon negli Stati Uniti proviene da fonti non rinnovabili. Il resto è solo “contabilità creativa”.
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A sostegno del fatto che il “carbon matching” non sia efficace (riferendosi anche ad altre aziende, comprese Meta e General Motors) c’è anche uno studio guidato dai ricercatori di Princeton, che ha rilevato che il carbon matching ha un “impatto minimo” sulle emissioni a lungo termine del sistema energetico, perché raramente aiuta a far costruire progetti o a generare energia pulita dove questi non sarebbero stati realizzati comunque.
La scorciatoia nucleare.
Per ovviare al problema, la soluzione più semplice che garantisca un flusso molto vasto di energia, continuo e in poco tempo, è ricorrere come annunciato nelle scorse settimane all’energia nucleare e ai cosiddetti small reactor. L’idea si inserisce d’altronde in un contesto da tempo favorevole alla loro diffusione. In Europa, ad esempio, il nucleare è ormai riconosciuto tra le fonti di energia green e a febbraio è nata una Alleanza europea proprio per lo sviluppo degli Small modular reactor (Smr), lanciata dalla Commissione Ue con l’obiettivo di accelerare la realizzazione dei reattori nucleari di piccole dimensioni.
Si compone di nove gruppi di lavoro che svilupperanno altrettanti progetti con la collaborazione di tutti i membri dell’alleanza interessati. E chi c’è in questa alleanza? Almeno 250 membri, tra cui Google e Microsoft ma anche le italiane Newcleo, Ansaldo Nucleare, Fincantieri e Rina, aziende come la Walter Tosto di Chieti, la mantovana Belleli Energy, la bergamasca Brembana&Rolle nonché l’Università di Pisa, il Politecnico di Milano e l’Agenzia industrie difesa.
Tornando alla situazione globale, il problema, come ha rilevato anche il New York Times, è che le più grandi aziende tecnologiche hanno tutte preso impegni per alimentare le loro attività con energia priva di emissioni entro il 2030, ma quegli impegni erano arrivati prima del boom dell’intelligenza artificiale, che richiede più energia. Così Google ha dichiarato di aver accettato di acquistare energia nucleare da piccoli reattori modulari sviluppati da una start-up chiamata Kairos Power, e che si aspetta che il primo sia operativo entro il 2030. Amazon ha detto invece che intende investire nello sviluppo dei piccoli reattori modulari di un’altra start-up, X-Energy. La costruzione degli Smr dovrebbe costare circa 1 miliardo di dollari ma è una tecnologia che, come più volte raccontato, non è ancora stata commercializzata con successo. Attrae però per il fatto che potrebbe essere più economica e facile da costruire rispetto ai grandi reattori, nonostante permangano anche le criticità sui depoisiti e la realte convenienza economica. Microsoft ha invece accettato di pagare una società energetica per rilanciare la centrale nucleare chiusa di Three Mile Island in Pennsylvania. L’imperativo, ora, è agire in ogni direzione. Per dare l’idea dell’ordine di grandezza, infatti, secondo il Nyt le cinque più grandi aziende tecnologiche hanno speso complessivamente 59 miliardi di dollari per gli investimenti in data center solo nell’ultimo trimestre, il 63% in più rispetto all’anno precedente. E hanno segnalato agli investitori che intendono continuare a spendere a questi ritmi.