La storia

Scampia, le macerie del 22 luglio c’erano già: ma adesso fanno più male di prima

Oltre i cliché - La luce in mezzo alle ombre di un simbolo

Di Davide Cerullo*
3 Novembre 2024

Sulle Vele si è detto tanto, addirittura troppo, ma forse si sono sempre dette cose simili, si sono espresse affermazioni comode, che, a lungo andare, hanno fatto sì che, nella narrativa corrente, si originassero costanti invariabili che, nate con lo scopo di descrivere con cura, hanno solo avuto l’effetto di semplificare la realtà.

Le Vele di Scampia molti le conoscono per sentito dire, altri per fatti di cronaca, che le definiscono nell’immaginario comune come il più grande supermercato di droga a cielo aperto d’Europa.

Probabilmente proprio grazie a questa definizione sono state incoronate da tutto il mondo come set cinematografico di una delle serie più famose sull’impero economico e criminale della camorra; “Gomorra” trasmessa da Sky. Ma pochi, pochissimi, conoscono le storie, i volti, le sofferenze che si celano all’interno del loro ventre e delle loro rovine. Da queste parti l’esistenza e la resistenza della camorra sono state garantite fin dall’inizio dal degrado e dall’abbandono che gli organi di potere politico non hanno mai voluto, né mai deciso, di cancellare definitivamente. Il perché questo sia accaduto rischia di essere un’unica risposta molto semplice: non c’è stato l’interesse politico di mettere in campo un intervento culturale massiccio, ispirato dall’ordine etico e mosso dal desiderio del prendersi cura non del suolo, ma di chi lo abitava. Questo ha comportato un effetto domino di non curanza dovuta esattamente al non sentirsi pensati, né supportati da nessuno; a cominciare dalla famiglia, dalla scuola e dagli spazi, tutto ha sempre seguito la direzione impostata senza mai trovare la vera motivazione per fare un’inversione collettiva.

È chiaro che si è sviluppata una erronea concezione del convivere; spazi intesi come vuoti da riempire e non luoghi da abitare, occasioni di sviluppo, che stimolerebbero la creatività e la fantasia le fasce più deboli immaginati solo come terreni per sopravvivere alla miseria. Nessuno ha mai garantito il suo contributo di fantasia per costruire un ambiente diverso, che non fosse solo teatro del pregiudizio, ma che potesse abbracciare la vita che pulsava dentro alle Vele.

Non investendo nella cultura, si è permesso che la criminalità organizzata diventasse mentalità collettiva. Solo lei ha potuto esprimere, libera e vincente, i suoi riti, e a lei si sono ispirati come unico modello la televisione, il cinema, i cantanti e i poeti. Ma questa è un’altra storia crudele e sanguinosa, che ha inciso pesantemente sul conto di chi non ha avuto la possibilità di avere la meglio. Il malessere, diventato un fenomeno invincibilmente culturale, ha inoculato la rassegnazione e l’inerte convivenza quotidiana con il male.

Per la mia storia personale, ho un rapporto particolare con le Vele. Non provo né odio, né amore, ma “radicamento”. Chiedete a un albero se ama o odia le sue radici. Come per lui, anche per me sono qualcosa che ha a che fare con la storia che ho dentro, con la famiglia che porto nel cuore, ma anche qualcosa con cui fare i conti, da capire, da elaborare. Memore e portatore di radici così ingombranti, solo grazie all’istruzione, che considero il più grande atto di democrazia e libertà, mi sono salvato dalla loro devastazione.

E come un buon padre che vede il bello e il buono, ma anche il turpe e l’ignavo nei suoi figli, anche io conservo dentro di me tutta la luce e ancora di più il buio che lì dentro ho visto passare, per poterlo descrivere dal dentro, perché nessun rapporto si racconta bene standone fuori, anche nei momenti di rottura e di lite e disastro, è sempre bene calarcisi dentro fino a rischiare di venirne risucchiati.

Lo scorso 22 luglio era caldo dentro e fuori dai terrazzi della Vela Celeste, un caldo che mai dimenticheranno le persone che stavano già vivendo in bilico tra un balcone e l’altro e che, in un attimo, si sono ritrovati nel gelo delle macerie.

Ma quello che vorrei tentare di raccontarvi per immagini e parole non sono solo le perdite che quel crollo ha causato, o la paura che ha scatenato negli animi, ma è l’esodo inumano che il mondo dei vinti delle Vele si è ritrovato ancora una volta a pagare a sue spese. Vinti non in senso dispregiativo, ma in quanto umanità lasciata nel solco di un popolo bastonato, tradito, abbandonato, dopo più di quarantacinque anni di promesse elettorali. Oggi, come in ogni storia di disastri dovuti alla mancanza di cura popolare, certe storie non possono solo distruggerci, o addirittura affascinarci, ci devono soprattutto offendere e indignare.

Se per una buona volta provassimo a mettere cuore e anima, dovremmo riuscire a vedere non solo malinconia e frustrazione in questi eventi, ma potremmo riuscire a intravedere chiaramente la quota della nostra corresponsabilità per esserci per troppo tempo girati tranquillamente dall’altra parte, complici di chi certi reati li ha compiuti non facendo niente per evitarli. Queste immagini, queste storie, non devono assolutamente avere un peso regionale, o locale; sono l’incarnazione dei problemi e delle ingiustizie di tutta una nazione.

Scampia rappresenta, sotto vari punti di vista, il concentrato dei mali di tutta la Città di Napoli. Un fallimento politico, con i suoi intervalli di silenzi che rappresentano la maschera orribile della prudenza, del calcolo, della vigliaccheria. Con l’omertà e la complicità delle istituzioni è stata normalizzata l’illegalità, permettendo la sopravvivenza e non “garantendo” la dignità a migliaia e migliaia di persone. ”Perchè il male trionfi basta che gli uomini del bene non facciano niente”. Questa famosa frase di Edmund Burke è conosciuta sin troppo bene da chi per interesse personale trama affinché la propria parte prevalga sull’altra a scapito di chi resta fuori dall’assioma.

Le Vele di Scampia sono un complesso residenziale costruito nell’omonimo quartiere di Napoli tra il 1962 e il 1975. Prendono il nome dalla loro forma triangolare, che ricorda quella di una vela.

Nascono subito Avvele-nate. I loro spazi che si intersecano rappresentano immediatamente una fortuna a misura di spaccio per i clan. Un deserto non fiorito, incompleto, che ha portato ad una totale sottomissione le fasce più deboli che non possono neanche più immaginare la speranza di un futuro possibile. Persone a cui non viene garantita un’occupazione, uno sviluppo delle risorse del territorio, spazi di aggregazione per se stessi e per i propri figli, tutti elementi costitutivi di un qualunque progetto di cittadinanza.

Addirittura nacquero con la falsa finalità di dare vita ad un progetto di edilizia popolare che potesse garantire la relazione e la fratellanza, convinzione da subito svanita, in quanto si trattava di un progetto bello e vivibile solo sulla carta degli immacolati disegni architettonici. Quelle pietre antisismiche hanno rivelato da subito che non potevano dare i frutti sperati e così, sotto lo sguardo indifferente dell’opinione pubblica, il progresso sperato si è disintegrato in un battito di ciglia, mentre le coscienze non ne venivano assolutamente colpite.

Per chi ha capacità di andare oltre alle definizioni preconfezionate, è possibile vedere l’altra faccia di Napoli, quella che non quasi nessuno riesce a svelare. A Scampia c’è anche chi protesta, stanco delle etichette trasmesse dai media che propongono soltanto i soliti luoghi comuni e vedono le cose secondo i soliti, abusati, logori cliché. C’è chi denuncia questi servizi basati sul sensazionalismo, corredati da foto agghiaccianti nella loro brutalità e caratterizzati da una desolante superficialità di indagini, prodotti di un business mosso dall’unica preoccupazione dell’effetto, dello shock da provocare, che non è capace di approfondire i problemi o analizzare le cause. Approssimazioni, ripetitività, semplificazioni abusive, analisi prefabbricate, pseudo-inchieste a senso unico; tutte descrizioni parziali e comode.

Ha diritto di ribellarsi chi invece questa realtà la vive da dentro, soffrendola sulla propria pelle: farne un dipinto così poco veritiero e sommario è come se si volesse sottolineare la tempesta perenne, senza mai la capacità di tracciarne un raggio di sole, oppure come se gli unici strumenti con cui operare siano certi bisturi spietati, affondati nel suo corpo malato che, invece di estirpare, come dovrebbero, il male, finiscono unicamente per uccidere la speranza.

Poi tra mostre di disperazione e interventi malriusciti, qualcuno non ci sta e protesta.

Gente semplice, che ha fatto della sua vita una r-esistenza, come Vittorio Passeggio, una sorte di don Chisciotte, che per oltre 40 anni ha dedicato la vita alla lotta per il diritto alla casa. Per quest’uomo, le Vele devono essere rase al suolo, le vede come un’ingiustizia cementata che non rispetta un abitare dignitoso per la persona, li arriverà a definire dei “carceri speciali”. Una vita in trincea da inquilino delle Vele per oltre 30 anni, Vittorio Passeggio lotta quotidianamente per cambiare le politiche sociali di una Napoli sull’orlo del baratro. Presto verrà battezzato come l’uomo del megafono. Il regista e produttore Gaetano Di Vaio realizzerà un film bellissimo su di lui, “l’uomo con megafono”. Da quell’altoparlante Vittorio fa uscire rabbia e passione, diventando la voce di un popolo che somiglia sempre di più a quei soldati che si rialzano da tutte le guerre perse. Vittorio, con il suo gruppo del comitato Vela, incassa diverse vittorie per gli abitanti di Scampia, ma non mancano le porte sbattute in faccia, le innumerevoli delusioni spesso proprio da parte di quelli per cui lui si è battuto.

Come Vittorio, anche altri hanno deciso di non lasciare stare le cose come sono state costruite, ma di demolire le convinzioni che le vogliono immutabili e dimostrare che non c’è un’unica storia da narrare in giro per il mondo. Sono le persone animate dalla umana follia che, al sud, ha pure un nome : ’A’rraggia. Da Napoli a Palermo la rabbia ha in comune la vampata di calore, l’accumulo di energia che, esplodendo, irradia tutto. ’A ’rraggia non si fa guidare dalla ragione, è istinto che viene fuori dalla paura di morire, di fronte alla minaccia, quando non si lasciano alternative alla sofferenza, quando non ci è stato dato amore e cura o, peggio, quando arriva a scombussolare equilibri ormai fondati sulla perpetuata assenza d’amore. ’A ’rraggia è un pugno selvatico che non sente spiegazioni.

Qua la conosciamo bene, è l’impeto che ha lacerato vite e relazioni, fatto esplodere passioni e sofferenze, travolto comunità e storie, perché grande è stata la solitudine e lo sfruttamento che per tanto tempo, ciascuno ha vissuto.

Il crollo dei ballatoi è stato un presso degli innumerevoli appelli che, nonostante la veemenza e la cocciutaggine di chi non si è mai voluto rassegnare, non hanno comunque avuto mai ascolto. Denunce inutili delle innumerevoli situazioni disumane che le persone vivevano quotidianamente; rischi trascurati ma possibili da contare, le tre Vele rimaste in piedi contano infatti 808 persone. 492 adulti e 316 minori di cui 73 sono portatori di disabilità.

La notte del 22 luglio accade l’irreparabile, qualcosa che dà la sensazione di azzerare completamente il senso di tutte le battaglie portate avanti negli anni e di tutto il dolore che si è dovuto patire per ottenere il diritto a vivere dignitosamente.

La Vela B chiamata comunemente celeste per il suo colore, quella ritenuta più sicura rispetto alla rossa e alla gialla, riceve improvvisamente il crisma di vela maledetta. Alle ore 22.28 crolla una passerella dell’isolato B3 trascinandosi giù per 20 metri 13 persone, sei adulti e sette bambini. Cadendo la prima passerella si trascina con sé pure la seconda e la terza. Quest’ultima trancia il tubo principale dell’acqua e i cavi dell’alta tensione. Si scatena un boato da terremoto, esplosioni da mitra, fulmini e saette. Le persone da subito non sanno se scappare da una possibile sparatoria oppure precipitarsi a soccorrere le persone sotto le macerie. Tra le grida e il terrore due persone dello stabile, Giuseppe e Gaetano, noncuranti dei fili della corrente sull’acqua, hanno cominciato ad estrarre le vittime. Roberto Abbruzzo invece muore sul colpo per salvare la figlia di due anni proteggendola con le sue gambe. Patrizia Della Ragione e sua nipote Margherita moriranno poco dopo in ospedale.

L’immagine prefabbricata svanisce e appaiono drasticamente davanti a tutti solo le macerie che già prima c’erano e che adesso sono solo più dolorose.

Un evento che ci siamo trovati a registrare in questa tragedia annunciata, ma che non ha sorpreso nessuno… quando un crollo a cui seguono delle morti non sorprende significa che il silenzio che c’è stato prima è ingiustificabile.

Terremoti, alluvioni, epidemie e guerre hanno tutte una connotazione di disastro; un crollo di un edificio che l’edilizia pubblica stava mettendo in sicurezza non può essere un effetto di un improvviso cataclisma, perché niente di quello che poteva essere fatto per evitarlo era stato minimamente avviato.

Adesso le colpe ricadranno sugli occupanti abusivi che nessuno conosce e che quindi possono essere indicati come “troppi” per vivere in quella struttura precaria, l’attenzione dei social si accenderà nuovamente su quella parte di mondo perché le macerie sono scenografie molto vendibili e forse, qualche riflessione intelligente su quello che è accaduto rischierà di essere sepolta dal qualunquismo imperante dei superficiali.

La vita che si è persa in quella notte e quella che anche adesso sta cercando di trovare uno spazio dove buttarsi e non impazzire ha diritto di essere raccontata e testimoniata; qualcuno là dentro era riuscito a costruirsi un’esistenza più bella della sopravvivenza, qualcuno rischiava addirittura di essere ad un passo dal realizzare un futuro… adesso, a chi resta, rimane solo la scelta di chi chiamare per chiedere ospitalità e un abbraccio.

Le Vele e chi per loro, hanno sempre saputo di essere un pericolo; da quando vennero immaginate, poi disegnate, fino a quando ci si accorse che, mentre nessuno avrebbe mai dovuto viverle, c’era già un mondo che le stava abitando, un’umanità che non aveva scelta e che, anche stavolta, è dovuta essere abusata perché qualcuno finalmente ne parlasse almeno per il tempo di una mezza estate italiana.

*Scrittore e educatore, vive a Scampia, dove ha fondato L’albero delle storie, un’associazione di promozione sociale

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