Francesco Guccini è sereno, sta bene e beve rum a fine pasto con piacere genuino. Da Pavana osserva la realtà, ricorda con garbata nostalgia e nei ritagli di tempo scrive limerick (forma particolare di poesia umoristica) dedicati a Vannacci e La Russa. Pranzo alla Caciosteria, uno dei suoi luoghi-nido, e poi chiacchierata-fiume nella sua casa. Si parte dal suo ultimo libro, Così eravamo (Giunti), un gioiellino di cinque racconti che racconta con maestria la sua adolescenza negli anni Cinquanta tra la via Emilia (molta) e il West (all’epoca un po’ meno). E si arriva a dissertare di Meloni, Trump, tempo che passa, morte, vita e altri demoni.
Nel primo racconto del libro rifletti sul senso del vivere.
Un tema a me molto caro. Racconto la morte di un mio compagno delle medie. Si chiamava Colombini e aveva 12 anni. A quell’età non percepisci la tragicità della morte, poi cresci e ci rifletti su. E non pensi tanto alla sua morte, ma a quello che non avresti vissuto se fossi stato tu a morire così presto. Colombini si è perso tutto.
Come Silvana Fontana, la protagonista di Canzone per un’amica.
E’ una mia costante quella di chiedermi “a che cosa è servito/ vivere, amare, soffrire”. Nelle canzoni, nei libri, sempre. Però, come scrivo nel racconto, credo che – nel bene e nel male – sia meglio aver visto e aver vissuto, e “non essere scomparso come un soffione che a un semplice alito di vento è volato via”.
La morte ti fa paura?
No. Col tempo ho acquisito una sorta di serenità zen. Ho 84 anni, ho vissuto una bella vita, ho fatto tutto quello che volevo e potevo. Va bene così. Più che della morte, provo angoscia di fronte al tempo che passa e a ciò che cancella. Anche per questo sono così legato alla memoria.
Pensi che dopo la morte ci sia qualcosa?
No. Non sono ateo: ci vuole troppa fatica per esserlo. Sono agnostico: non mi aspetto nulla, e non essendo credente non posso aggrapparmi alla fede per trovare la risposta al senso del vivere. Credo che si muoia e finisca tutto lì, ma magari sbaglio io.
Essendo ormai zen, non ti arrabbi più?
Non esageriamo. Per esempio mi arrabbio moltissimo quando guardo i talkshow. Sono proprio uno che urla contro il televisore, soprattutto quando parlano certe persone a Retequattro.
Vasco ha parlato di ritorno del fascismo.
Non me lo aspettavo. L’ho visto una sola volta: venne alla trattoria Da Vito di Bologna per dirmi che amava L’avvelenata, e poi se ne andò. Siamo due montanari ed entrambi abbiamo avuto i padri internati, il mio era nel campo di concentramento con Guareschi. Ha avuto coraggio, mi è piaciuto e ha detto cose vere. Infatti il regime lo ha subito attaccato.
Il governo Meloni è un “regime”?
Certo che lo è! Un regime. Non a caso vogliono far sottostare tutti i poteri (a partire dalla magistratura) a quello esecutivo (cioè il governo). Proveranno anche a limare la Costituzione: non dico modificarla, non ne sarebbero capaci, ma limarla sì. Meloni neanche concede più interviste, a meno che non sia da Vespa, dove fa delle figuracce immonde come quella della calcolatrice. Sono illiberali e non accettano critiche, arrivando ad attaccare anche dei “canterini” come me o Vasco. Ci chiedono di “cantare e basta”, ma un cantautore vive proprio delle sue parole e dei suoi punti di vista. Cosa gliene frega ai meloniani se Vasco li critica?
Guarda che Meloni ti adorava, e c’è rimasta male quando ha scoperto che non la stimi.
Non è colpa mia se delle mie canzoni non ha capito nulla. Una volta mi telefonò per invitarmi ad Atreju: ma figuriamoci. Stanno provando a sostituire “l’egemonia culturale di sinistra” piazzando cinque sfigati alla cultura, ma non hanno niente. Nessun cantautore di destra. Non è che io, De André e Vecchioni c’eravamo messi in testa di divulgare deliberatamente “la cultura di sinistra”: semplicemente lo eravamo e lo siamo. Non puoi non avere una sensibilità di sinistra per scrivere certe canzoni. La Meloni che mi stima mi ricorda un fascista che mi fermò molti anni fa.
Racconta.
Centro di Bologna, avevo inciso da poco Radici. Mi fermò un tizio, mi disse: “Io non la penso come te Guccini, ma mi piaci”. E poi mi diede il ciclostilato fresco di stampa de La voce della fogna, un foglio satirico dell’estrema destra. Ecco: questi qua sono usciti dalle fogne, dopo decenni vissuti ai margini, e adesso che sono al potere vogliono vendicarsi. In ogni modo.
Diranno, a torto, che sei comunista.
Mai stato. La mia famiglia era democristiana e mio padre liberale di destra, innamorato di Einaudi e Montanelli. Anch’io sono un liberale, però non alla Malagodi: diciamo alla famiglia Rosselli. Sono un socialista liberale.
Hai insegnato a lungo negli Stati Uniti. C’era già la pulsione reazionaria che ha portato alla vittoria di Trump?
No. O meglio: io insegnavo in Pennsylvania e avevo una visuale particolare, perché tutti i docenti e studenti erano democratici. La mia morosa dell’epoca oggi è una senatrice democratica del Maine. Erano gli unici a non avere la bandiera americana esposta fuori casa, una cosa tipica del nazionalismo repubblicano. Comunque Trump mi atterrisce.
Volevi fare il cantautore?
Macché. Sognavo di fare il giornalista e poi lo scrittore. Oppure l’insegnante. La vita sa stupirti.
C’è qualche giovane cantautore che ti piace?
No, ma ascolto poco. Neanche vado più al Tenco, è cambiato il clima umano. E più che altro è cambiato il mondo. Peccato, credo che la canzone di protesta servirebbe ancora. Forse ci provano i rapper, ma non è il mio genere.
Ti mancano i concerti?
Per niente. E neanche i dischi. Al massimo mi mancano le cene e le bevute prima e dopo i concerti. Tirar tardi al mattino. Quello sì. Ma sono tempi lontani: il mio nipotino mi chiama “il nonno che suona la chitarra”, anche se non suono la chitarra da un bel pezzo.
Cibo e alcol sono per te piaceri rari.
Sono figlio, per dirla con Gramsci, della cultura contadina, che era opposta a quella borghese. Il cibo era una cosa preziosa e sacra, rara e conviviale. Poi è arrivata la cultura industriale e consumistica, alla Berlusconi, dove a ogni cosa va aggiunto un aggettivo: il pane “soffice”, la cioccolata “golosa”. Fronzoli che hanno sporcato un po’ tutto.
Le sbronze più colossali?
Tante. Ne ricordo una con Gregory Corso. Eravamo a Bologna, ci dicono che c’è un incendio. Andiamo a vederlo e stiamo lì tutta la notte a bere. La mattina alle 8 dovevo fare lezione agli alunni e la sera c’era un concerto nel Lazio per solidarietà a un ragazzo arrestato in Turchia, dove invitarono 40 cantautori ma alla fine andai solo io. E la sera dopo il concerto a Roma. Ci arrivai in condizioni pietose.
Mai provato droghe?
Mai. Bologna è stata devastata dall’eroina negli Anni Ottanta. Ho perso tanti amici. Penso anche ad Andrea Pazienza. Un amico e un talento puro. Al Tenco, una volta, ci sfidammo coi disegni: lui ne facevo una sulla tovaglia ed io rilanciavo con un altro. Quella tovaglia c’è ancora. Poi, alle sei di mattina, dopo aver bevuto ininterrottamente, andammo al Mercato dei Fiori di Sanremo. Aveva una giacca di cui andava molto fiero, piena di bottoni. Gliene strappai uno, senza motivo. Lui si vendicò e ne strappò uno a me. Andammo avanti fino quasi a spogliarci. Stavamo per prenderci a cazzotti, poi intervenne Mollica: “Ma che diavolo state facendo?”. E ci mettemmo a ridere.
Come sapesti della sua morte?
Da una telefonata di Sergio Staino. Piangeva e si sentiva in colpa, perché gli aveva prestato da poco moti soldi e temeva che con quei denari Andrea avesse comprato la dose che l’ha condotto alla morte. Aveva provato a smettere, ma non c’era riuscito.
Vanno di moda le fiction e serie tivù sui cantanti: De André, Vasco, 883. E se la facessero su di te?
Mi imbarazzerei da morire. A Reggio Emilia vogliono fare una mostra su di me: okay, grazie, fatela. Ma io mi vergogno di queste cose. Mi pare sempre troppo. Come quando mi fermano e mi dicono: “Sei un grande Guccini!”. E io subito: “Macché. Al massimo sono alto, ma grande proprio no”.