C’è un’ora in cui Napoli, Parthenope, si accende e gonfia come una medusa. Una Medea che, nutrendosi della sua progenie, si sazia. Perché i figli, in questa città, non sono di chi li ha partoriti o di chi li cresce. Ma dell’asfalto. Che li inghiotte, feriti a morte, a volte solo per aver sporcato una scarpa alla persona sbagliata.
E quando giù, sotto la superficie cangiante e affollata, si crea una voragine – che interrompe all’improvviso il cuore e le vite delle madri, delle zie, delle giovani fidanzatine, dei padri e dei fratelli, di un intero quartiere che è anche una comunità – poi valla a spiegare la bellezza di questa città, “i ragazzi pieni di luce”. Passa solo il buio. Per chi vuole fermarsi a guardare.
Santo Romano è stato ucciso a 19 anni, nella notte tra venerdì e sabato, a San Sebastiano al Vesuvio, nella parte “bassa” di quell’anfiteatro naturale che è il golfo di Napoli. Sparato da un 17enne, L., che dall’interno di una Smart avrebbe fatto fuoco due volte, dopo una discussione. L. era stato scarcerato dall’Istituto penitenziario minorile di Nisida a maggio scorso: era stato rinchiuso per spaccio e per resistenza a pubblico ufficiale, ora rischia una condanna per omicidio. Anche l’assassino di Giogiò, il musicista 24enne morto un anno fa per uno scooter parcheggiato male, aveva 17 anni, e tre anni prima era stato preso in carico dalla giustizia minorile per il tentato omicidio di un coetaneo. E pure quello ventenne di Francesco Pio Maimone, ucciso a 18 anni agli chalet di Mergellina in una rissa partita per una Louis Vitton macchiata, era stato arrestato, da minore, per spaccio di droga: aveva ottenuto la messa alla prova.
Sono molti di più. Molti più di quelli che possiamo ricordare e per cui ci possiamo indignare. Decine. Centinaia, se si guarda negli anni. Questi ragazzi non sono nemmeno più ventenni: ammazzano e vengono ammazzati prima. E per uno che viene ucciso, ce n’è un altro – quello che ha sparato o accoltellato – che è già morto, dentro. Ha gli occhi di chi, senza nemmeno rendersene conto, dà la morte e subito dopo la posta sui social, per scrollare con le dita, contare quanti like ha ricevuto e finalmente sentirsi vivo. Quello sguardo vuoto, quasi bucato, l’ho incrociato molte volte da quando, assieme a Micaela Farrocco, abbiamo girato nelle carceri campane Robinù, il documentario sui “babyboss” della camorra. Siamo entrate nel cuore e nella vita di chi, a Napoli, ha 14, 15, 16 anni e un unico imperativo: trovare un posto nel mondo. Ma gli strumenti per raggiungerlo, date la povertà educativa e la mancanza di opportunità, ai più sono preclusi. E allora la violenza serve a esistere e a prenderti quello che vuoi: rischi tutto o non sei nessuno. Come ha scritto Isaia Sales su Repubblica, questi ragazzi “non hanno avuto infanzia e non si aspettano una vita da adulti. La violenza sugli altri è la via d’uscita dalla minorità, minorità di età e di considerazione”.
Ero arrivata a Napoli, nove anni fa, per un altro omicidio. Genny Cesarano, 17 anni, ucciso, mentre si trovava con i suoi amici, proprio nella stessa piazza alla Sanità dove qualche giorno fa è stato ammazzato a 15 anni Emanuele Tufano. “Mai più”, “Deve essere l’ultimo”, “Disarmiamo i nostri ragazzi”, “Le istituzioni facciano il loro dovere”. I palloncini bianchi e azzurri (tutti tifano Napoli). La foto del volto sulla maglietta. Tanti, tantissimi ragazzi e ragazze in lacrime. E una moderna madonna – la madre – spezzata. Le immagini dei funerali si ripetono come un copione. Solo che alcuni morti ci interessano, altri no (che dire dell’omicidio di Gennaro Ramondino, 20 anni, assassinato quest’estate a Pianura, periferia occidentale di Napoli, per mano di un amico 16enne che per rispondere agli ordini del clan lo avrebbe ucciso, caricato in auto e dato fuoco nelle sterpaglie? “Un regolamento di conti per droga”, si è detto: e perciò – chiedo – merita di meno la nostra attenzione? Chi ne ha parlato, salvo poche eccezioni?).
Abbiamo passato gli ultimi dieci anni a chiederci quanto i ragazzi delle paranze fossero più o meno figli di Gomorra, più o meno affascinati dalla spettacolarizzazione della camorra, mentre un esercito di piccoli sanguinosi “ribelli”, armati di kalash in una mano e cellulare nell’altra, cresceva sotto i nostri occhi… distratti. Siamo stati omertosi. Ipocriti. Li abbiamo fatti sparire, dimenticati. Almeno per il tempo in cui hanno continuato a uccidersi tra loro, nei confini dell’altro Stato. O fino a quando non è entrato in vigore il decreto Caivano (819 provvedimenti destinati ai minori nei primi nove mesi del 2024, rispetto ai 380 del 2023, e 50% di presenze in più negli istituti minorili, secondo dati Libera e Gruppo Abele). Più pene per tutti, e poi?
“Noi dimentichiamo con troppa facilità”, ha detto nell’omelia per il funerale di Emanuele Tufano il neo cardinale Mimmo Battaglia, qualche giorno fa. “Dimentichiamo il sangue che scorre, dimentichiamo il terrore negli occhi, dimentichiamo le urla delle madri, dimentichiamo i figli di questa città abbandonati a se stessi e consegnati alle celle di un carcere o al cimitero. Noi sì, noi dimentichiamo. E tiriamo a campare distraendoci e stordendoci. Raccontando di una città che esiste solo in parte, rifugiandoci nei numeri del turismo, nei protocolli avviati – che fine ha fatto il Patto per Napoli, per esempio? – distogliendo lo sguardo da questa follia di un mondo adulto che non vede più i suoi figli più giovani e più fragili”.
Folle è questa certa consuetudine vile. I napoletani e noi che con loro preferiamo certi spettacoli ad altri. Tra tutti, la contemplazione e la penitenza: sono più “riposanti”. In pochi altri luoghi al mondo la morte scorre, come qui, parallela alla vita. Camminandogli accanto, una certa indifferenza per poter sopravvivere è d’obbligo. E la “borghesia” di questa città lo ha imparato bene. Non smette di sorridere, pur essendo di continuo urtata dai dolori della “plebe”. E dall’alto, dalle case meravigliose con vista golfo, quelle piene di bouganville e dove il sole non sparisce neppure di notte, osserva il “ventre molle” che si contorce. Anche se una va verso l’aria e l’altra, invece, verso il centro caldo e movimentato della terra, non c’è una parte della città che, senza l’altra, si salvi. E non solo perché a unirle è il mercato della droga. Perché l’amore e il dolore accomunano gli uomini, anche quelli più diversi, e “tutti piangono a un modo”, scriveva Benedetto Croce. Specie se si perde un figlio. E qui di figli se ne sono persi tanti, da troppo tempo.
Qualcuno aveva detto che questa Napoli rifletteva una lacera condizione universale. Ma rivederla e compiangerla ormai non basta. Napoli è offesa o solo un po’ indifferente? Capita infatti che, per molti, certi morti non siano morti: non esistono. Non esistevano nemmeno prima, da vivi.
“Non è possibile che non succeda mai niente. Un giorno, forse, capiterà qualcosa. Allora mi farà piacere essere rimasto qui, ad aspettare”. Scriveva Anna Maria Ortese.
“E se non capitasse nulla?”
Non rispose.