Spiegava il mai troppo compianto Norberto Bobbio che la democrazia ha due regole minime: tutti, direttamente o indirettamente, partecipano alle decisioni; e queste devono essere il prodotto di un dibattito, libero. È bene tenerle a mente, le due regolette, mentre l’istituzione democratica cui abbiamo affidato la maggior parte delle scelte che influiscono sulle nostre vite sta per prenderne alcune determinanti. Sono iniziate in questi giorni le audizioni dei commissari europei in pectore, parte essenziale del processo che porterà (o meno) alla loro conferma nel “governo” d’Europa: tutti i 26 hanno ricevuto dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen una lettera di incarico dettagliata, che specifica compiti, percorsi da seguire e funzioni. Ed è proprio nel leggere le missive che sorge qualche dubbio sull’aderenza ai processi democratici di cui dicevamo.
Molti dei target indicati da Von der Leyen coincidono infatti con la strada proposta nell’ormai celebre “rapporto Draghi”, fino a incorporarne esplicitamente gli obiettivi, in tutti i settori e gli aspetti strategici: i suggerimenti della relazione sono menzionati non solo nella premessa di tutte le lettere, ma anche nei compiti assegnati ai futuri commissari e commissarie, specie nei campi della difesa, dell’energia, della competitività e della transizione verde. Tutti settori che definiscono il ruolo e la qualità dell’Europa e dei rapporti che avrà con la cittadinanza, con le forze economiche, con il resto del mondo. Qual è il problema? Semplice: il rapporto Draghi non è mai stato veramente discusso, approvato o emendato dal Parlamento Ue, cioè dall’organo in cui si dovrebbero prendere le decisioni, ma soltanto “presentato”. È una mancanza grave, soprattutto considerato che, oltre al messaggio condivisibile della necessità di “più Europa”, la strada disegnata dall’ex presidente della Bce manifesta carenze lampanti che, secondo autorevoli pareri, possono essere addirittura dannose per l’Europa. Con una disamina dettagliata, il Forum Disuguaglianze e Diversità ha spiegato per esempio che non solo il rapporto prende come modello gli Stati Uniti, ignorandone storture e debolezze, con l’idea di copiarne i “giganti” – come se i capitali non avessero dato prova di spostarsi dove più comodo, a dispetto di leggi e conseguenze sociali – ma manifesta una visione ancillare dell’asse sociale, che dovrebbe essere un pilastro europeo. Nell’analizzare il commercio, l’energia e i rapporti geopolitici, cioè le tre dimensioni da rimodellare, ignora poi le dinamiche che ne sono protagoniste: migrazioni, cambiamento climatico e disuguaglianze. Rinunciando in questo non solo ad ascoltare le voci, i bisogni e le paure della popolazione europea, ma anche ad affrontare la realtà – e l’apocalisse di Valencia ne ha fornito drammatico esempio – con progetti di trasformazione industriale assolutamente necessari, nonché creatori di sviluppo e ricchezza. Eppure Von der Leyen offre una legittimazione democratica a queste scelte inserendole nelle lettere di missione, adottandone in blocco l’approccio, mentre priva la cittadinanza di una discussione sulla strategia complessiva: alcuni elementi sono stati presentati al pubblico nelle guideline – il programma – della presidente, ma i singoli ingredienti non definiscono certo il risultato complessivo. Per non dire che i commissari sono trattati come scolaretti a cui vengono assegnati “compiti a casa” e stringenti tempistiche, in una dinamica appena ingentilita dalla semplicità della lingua inglese, che sfuma i confini tra capo ed esecutori. Un po’ poco come prova democratica.
* Per il Forum Disuguaglianze e Diversità