Il silenzio può essere più forte delle parole, delle menzogne, dei ritardi, dei sottintesi, dei depistaggi, delle false accuse, dei sogghigni irridenti di chi si credeva improcessabile. Il silenzio senza lacrime e pieno di dignità di Licia Rognini Pinelli ha parlato ogni giorno, da quel 15 dicembre 1969 in cui morì, volando da una finestra della questura di Milano, il marito Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico illegalmente trattenuto in una stanza al quarto piano con l’accusa, falsa, di essere coinvolto nella strage di piazza Fontana.
Ieri, a 96 anni, Licia ci ha lasciato. Continueranno a parlare per lei le figlie Silvia e Claudia e tutti i cittadini e i compagni che manterranno memoria della strage, delle false accuse all’anarchico Valpreda, dei morti per la bomba fascista, delle coperture e dei depistaggi di Stato. E della diciottesima vittima della strage, Pino il ferroviere, Pino il partigiano.
Manca esattamente un mese al 12 dicembre, data della strage. In quel giorno, Licia avrebbe ricevuto dall’Anpi la tessera di partigiana ad honorem. Ci restano le sue parole che squarciano ogni silenzio, consegnate a Piero Scaramucci, nel libro Una storia quasi soltanto mia.
Poi, nel 2019, quando il presidente Mattarella era venuto a Milano a ricordare i 50 anni dalla strage (“L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana”), Licia aveva parlato a Radio Popolare: “Ho deciso di partecipare anch’io, oggi. Quello di quest’anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia. Parlare di mio marito Pino è anche un tassello per la democrazia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”.