Mille giorni fa la Russia invadeva l’Ucraina. Ma la guerra civile fra i governi di Kiev e le popolazioni russofone e russofile nel Sud-Est del Paese dura ormai da oltre 10 anni: dalla cacciata del presidente neutralista Viktor Yanukovich nel 2014 a furor di piazza, di squadroni della morte e cecchini filoccidentali, vissuta dai filorussi come un colpo di Stato; e poi dal tradimento dei due accordi di Minsk, firmati con Mosca e mai attuati dai governi di Petro Poroshenko e Volodymyr Zelensky, ansiosi di entrare nella Nato. Ho ricostruito in sintesi l’intera storia nel mio nuovo libro Ucraina, Russia e Nato in poche parole (ed. PaperFirst), da oggi in edicola col Fatto, nelle librerie e nelle piattaforme online. Qui anticipo il paragrafo sugli accordi di Istanbul, che portarono Mosca e Kiev a un passo dalla firma della pace poche settimane dopo l’invasione del 24 febbraio 2022 e saltarono sul più bello: ecco come e perché.
8 marzo 2022. I presidenti cinese Xi Jinping e turco Recep Erdogan, che come il premier israeliano Naftali Bennett rifiutano di armare Kiev e sanzionare Mosca, si propongono come mediatori. Dal 10 marzo i negoziati dalla Bielorussia si sposteranno ad Antalya, in Turchia. Zelensky, intervistato dall’americana Abc, fa un’importante apertura che un mese prima avrebbe evitato la guerra: “Ci siamo resi conto che la Nato non è pronta ad accettare l’Ucraina. L’Alleanza teme un confronto con la Russia”. Quanto a Crimea e Donbass, “possiamo discutere con Putin e trovare un compromesso sulle regioni e le repubbliche occupate”.
10 marzo. Primo incontro ad Antalya fra le delegazioni ucraina e russa, guidate dai ministri degli Esteri Kuleba e Lavrov. Lavrov fa capire che l’obiettivo della guerra non sono l’intera Ucraina e il suo governo, ma l’indipendenza del Donbass e la neutralità di Kiev.
11 marzo. Putin parla di “qualche progresso nei negoziati”. Kuleba smentisce: “Zero progressi, non so di cosa parli”.
12 marzo. Zelensky nota “un approccio fondamentalmente diverso da Mosca” e si dice “felice di avere un segnale dalla Russia”.
13 marzo. Il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoglu dice che “le posizioni si sono ravvicinate”. L’ucraino Podoljak conferma: “La Russia è più vicina alle nostre richieste e ha cominciato a parlare in modo costruttivo”. Le due delegazioni iniziano a scambiarsi bozze per un trattato di pace.
15 marzo. Zelensky dice addio alla Nato: “Da anni si parla di porte aperte dell’Ue e della Nato all’Ucraina, ma abbiamo pure sentito dire che non possiamo entrarci e dobbiamo ammetterlo”. Parole che, dette un mese prima, avrebbero forse evitato l’invasione. Ma ora aiutano il negoziato.
16 marzo. Il Financial Times svela il piano di pace in 15 punti emerso al tavolo russo-ucraino in Turchia: cessate il fuoco da ambo le parti e ritiro delle truppe russe; rinuncia di Kiev a entrare nella Nato e a ospitare basi militari o sistemi d’arma stranieri; garanzie di sicurezza per l’Ucraina da Usa, Gran Bretagna e Nato; congelamento delle dispute su Donbass e Crimea da risolvere in futuro. Biden però non gradisce e definisce Putin “criminale di guerra” per gli attacchi su Mariupol.
17 marzo. Kiev è molto ottimista sui negoziati turchi: “Ora la soluzione è possibile. Dieci giorni per la pace”.
20 marzo. Il ministro degli Esteri turco è sempre più ottimista: “Un accordo è vicino”.
21 marzo. Dopo un nuovo round di negoziati in Turchia, Zelensky dà per scontato un esito positivo: “I compromessi tra Ucraina e Russia saranno sottoposti a un referendum in Ucraina. Possono essere messi ai voti le garanzie di sicurezza e lo status dei territori temporaneamente occupati in Donetsk, Lugansk e Crimea”.
22 marzo. Zelensky invita il Papa a Kiev, “garante della sicurezza” post-negoziato.
25 marzo. Mosca chiarisce lo scopo della “operazione speciale”: “Le forze russe si concentreranno sulla completa liberazione del Donbass”. A Biden ne scappa un’altra: “Opzione nucleare? In circostanze estreme”.
26 marzo.
Newsweek svela un rapporto top secret del Pentagono che conferma le reali intenzioni di Putin: fin dall’inizio gli Usa sanno che la sua è una “guerra a bassa intensità” e “per ora evita inutili stragi e non attacca tutte le città” perché “punta al Donbass”, non certo a conquistare l’intera Ucraina, né tantomeno ad attaccare l’Europa. Ma, spinto dal Congresso e dalla lobby delle armi, Biden ignora quelle indicazioni e continua a sabotare il negoziato: “Putin è un macellaio e un tiranno, non può restare al potere”. Un portavoce della Casa Bianca è costretto a precisare: “Biden non stava parlando di un regime change in Russia”. Il portavoce di Erdogan: “Se tutti bruciano i ponti con la Russia, chi parlerà con Mosca a fine giornata?”. Seguono le prese di distanze di Blinken, Borrell, Macron e Johnson. Solo Draghi tace.
27 marzo. Nuova apertura di Zelensky a un compromesso con Mosca: “Neutralità e accordo su Crimea e Donbass”.
28 marzo. Mentre Lavrov e Kuleba si rivedono a Istanbul, Zelensky rilascia un’intervista a giornalisti indipendenti russi: “Lo status neutrale e non nucleare dell’Ucraina siamo pronti ad accettarlo: se ricordo bene, la Russia ha iniziato la guerra per ottenere questo. Poi servirà discutere e risolvere le questioni di Donbass e Crimea. Ma capisco che è impossibile portare la Russia a ritirarsi da tutti i territori occupati: questo porterebbe alla Terza guerra mondiale”. Ed ecco subito una nuova provocazione per esacerbare gli animi. Il quotidiano ultraconservatore americano Wall Street Journal sostiene che l’oligarca russo di madre ucraina Roman Abramovich, che partecipa con la delegazione di Mosca ai negoziati, è stato avvelenato con agenti chimici durante un incontro a Kiev il 3 marzo con due negoziatori del fronte opposto, anch’essi colpiti dagli stessi sintomi. Ma fioccano solo smentite.
29 marzo. A Istanbul l’avvelenato Abramovich assiste in ottima forma al discorso di Erdogan che accoglie le delegazioni di Mosca e Kiev. E il tavolo negoziale registra nuovi importanti progressi. Mosca dice di aver ricevuto da Kiev una proposta scritta che garantisce la “neutralità” e “denuclearizzazione” del Paese. Il documento, firmato dal capo delegazione ucraino Arakhamia, si intitola “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina” e si snoda su 18 articoli. Putin lo mostrerà nel 2024 incontrando una delegazione di leader africani. L’Ucraina si impegna a non entrare nella Nato; ma non rinuncia alla Ue, chiede garanzie internazionali per la propria sicurezza, anche con una No fly zone, e rinvia a un imminente vertice tra Zelensky e Putin il destino di Donbass e Crimea, da sottoporre poi a referendum in loco. La Russia chiede che l’Ucraina non ospiti basi militari straniere e per il resto non obietta su nulla, neppure sull’adesione alla Ue e sul ritiro delle proprie truppe. E, come segno di apertura, promette di abbandonare le zone di Kiev e di Kharkiv. Cosa che farà nei giorni seguenti. Le due delegazioni concordano un “comunicato” congiunto che riassume i punti di convergenza, da usare come base per il futuro trattato di pace. L’Ucraina sarà “perennemente neutrale e non nucleare”. Segue una lista di possibili “garanti” della sua sicurezza in caso di nuovi attacchi armati: i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu (Russia inclusa), Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia. Lasciando il Donbass all’imminente vertice Putin-Zelensky, le parti s’impegnano a “risolvere pacificamente la controversia sulla Crimea nei prossimi 15 anni”. Il ministro degli Esteri turco parla dei “più significativi progressi fatti finora”. Gli Usa restano scettici.
31 marzo. Il Corriere della Sera rivela: “Un asse anglo-americano sembra remare contro la trattativa: anzi, probabilmente punta a farla fallire, perché intravede come obiettivo strategico non tanto la fine della guerra quanto la sconfitta sul campo della Russia… La strategia attuale – spiegano a Downing Street – è continuare a sostenere l’obiettivo ucraino di respingere l’invasione…”. Anche il New York Times smentisce la narrazione atlantista: Putin non voleva affatto occupare l’intera Ucraina e non è passato a più miti consigli per la strenua resistenza popolare; sin dall’inizio puntava alla conquista del Donbass e al mantenimento della Crimea, ma ha alzato un polverone con i diversivi su Kiev e Kharkiv per fingere di volere tutto e poi trattare.
1° aprile. Bucha, sobborgo a 30 km da Kiev, torna in mano agli ucraini. Che l’indomani diffondono un video di almeno 20 cadaveri in abiti civili allineati lungo la strada principale e di altri 300-400 gettati in fosse comuni. Il 3 aprile Kuleba accusa i russi di un “massacro deliberato”. Governo e stampa internazionale parlano di rastrellamenti casa per casa, bambini usati come scudi umani, torture, stupri di donne e minori, fosse comuni, “pulizia etnica”. Mosca prova a negare e accusa Kiev di “provocazione per interrompere i colloqui di pace”. Guterres chiede che “un’indagine indipendente accerti una responsabilità effettiva”. Anche il Pentagono è prudente: “Non possiamo confermare in modo indipendente né confutare le affermazioni ucraine”. La verità probabilmente sta nel mezzo. I morti sono opera dei russi (se non avessero invaso l’Ucraina, quelle 300 o 400 persone sarebbero ancora vive) e le brutalità sono accertate, anche se è difficile distinguere fra civili giustiziati (ce ne sono, come mostrerà un filmato diffuso dal New York Times) e militari caduti in battaglia. Ma la fossa comune accanto alla chiesina di Bucha, ripresa dai satelliti ed esibita da tutti i giornali e tv, è in realtà il cimitero improvvisato del vicino ospedale che getta lì i corpi dei feriti di guerra che non ce l’hanno fatta. E la collocazione dei cadaveri, senza sangue e probabilmente uccisi settimane prima, disposti a distanza regolare sulla strada a favore di telecamere, fa sospettare una regia per moltiplicare lo choc.
5 aprile. Il mondo Nato esulta, sperando nella morte dei negoziati. Per Biden, non si tratta con Putin, “criminale di guerra che va processato all’Aja”. Stoltenberg proclama: “La guerra può durare anni, a Kiev servono armi pesanti”. Zelensky accusa i russi di “crimini di guerra” e li paragona all’Isis. Ma non chiude le porte al negoziato, anzi: “Tragedie del genere ti colpiranno sul polso mentre fai l’una o l’altra trattativa. Ma abbiamo ancora opportunità per compiere questi passi”. E incredibilmente le delegazioni russa e ucraina continuano a trattare 24 ore su 24 scambiandosi nuove bozze di accordo.
8 aprile. La Russia, come promesso agli ucraini a Istanbul, “ridisloca” nel Donbass le unità finora impegnate sul fronte Nord e nelle regioni di Kiev e Kharkiv.
9 aprile. È il giorno ipotizzato per la firma dell’accordo. Ma il premier britannico Boris Johnson si precipita a sorpresa a Kiev, primo leader del G7 a visitarla dopo l’invasione, in un viaggio avventuroso fra auto, elicottero, aereo militare e treno. Incontra Zelensky a quattr’occhi e blocca ogni ipotesi di negoziato con parole definitive. Versione dell’Ukrainska Pravda: “L’Occidente non sosterrà alcun accordo di pace”. Versione di Bennett: “Non negoziate e continuate a colpire Putin”. E pubblica sui social l’elenco dei nuovi armamenti da Londra, incitando il “leone” Zelensky a combattere “fino alla vittoria”.
12-15 aprile. Nuovi round di negoziati a Istanbul. Le due delegazioni discutono ancora della richiesta russa – indigesta per Kiev – di vietare per legge “il fascismo, il neonazismo, il nazionalismo aggressivo” e le riabilitazioni delle formazioni ucraine che combatterono contro l’Armata Rossa. Kiev promette di non limitare più l’uso della lingua russa sul suo territorio. Mosca si impegna addirittura ad “agevolare” l’ingresso dell’Ucraina nella Ue e non pretende più il riconoscimento della Crimea, anche perché il risolutivo incontro fra i due presidenti sulle questioni territoriali è dato per imminente: si parla di due settimane. Zelensky è disponibile a lasciare almeno parte del Donbass a Mosca. E Putin rinuncia alla demilitarizzazione totale del Paese. Ma restano ancora distanti le posizioni sulle dimensioni del futuro esercito ucraino (250 mila uomini per Kiev, solo 85 mila per Mosca). Ma soprattutto sulle modalità di intervento dei Paesi garanti. La penultima bozza del 12 aprile prevedeva che ciascuno avrebbe deciso autonomamente se e come difendere l’Ucraina. Ora invece Mosca chiede “una decisione concordata da tutti”, che le garantirebbe un diritto di veto sugli altri, inaccettabile per Kiev. Ma in una trattativa che ne ha superati ben altri, questi sono ostacoli facilmente appianabili continuando a negoziare. Invece, di punto in bianco, la delegazione ucraina lascia il tavolo per non tornarvi mai più. Le pressioni di Londra e Washington hanno avuto la meglio. E l’allontanamento delle truppe russe da Kiev e Kharkiv, con le promesse Nato di armi decisive, ha illuso Zelensky di poterle sconfiggere in Donbass.
Intervistato dalla tv zelenskiana “1+1”, il capodelegazione zelenskiano Arakhamia dirà nel novembre 2023: “I russi erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità: noi avremmo dovuto promettere di non aderire alla Nato. Questa era la cosa più importante per loro, il punto chiave. Tutto il resto era semplicemente retorica e ‘condimento’ politico sulla denazificazione, sulla popolazione di lingua russa e bla-bla-bla”. Ma il 9 aprile “quando siamo tornati da Istanbul” dal terz’ultimo giro di negoziati, “Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla con i russi, ma solo combattere e basta”. Un altro negoziatore ucraino, Oleksandr Chalyi, confermerà: “Eravamo molto vicini alla conclusione della guerra con un accordo di pace. Putin si era reso conto di avere sbagliato e ha fatto tutto il possibile per fare la pace con l’Ucraina. Ha deciso lui di accettare il Comunicato di Istanbul, completamente diverso dalle sue richieste precedenti”. Poi ci sono le parole dei leader mediatori. Erdogan: “L’opportunità storica che avrebbe salvato la vita di decine di migliaia di persone e impedito sofferenze e distruzioni è stata sprecata, anzi sabotata”. Bennett racconterà che al documento finale si era giunti dopo 17-18 bozze: “Putin era pragmatico e capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky”, il quale mostrava un “parallelo pragmatismo”. Poi, dopo Bucha, “nessuno era più pronto a pensare in modo non ortodosso” e su spinta di Biden e Johnson prevalse “la legittima decisione degli occidentali di continuare a colpire Putin… Hanno bloccato la mediazione… Pensai che era sbagliato… Credo davvero che esistesse una chance per il cessate il fuoco”. Definitivo il giudizio di Oleksii Arestovych, allora consigliere di Zelensky, anche lui presente ai negoziati: “Erano stati cancellati i due accordi di Minsk 1 e 2, molto pericolosi per l’Ucraina. Quello era l’accordo migliore che avremmo potuto stipulare”.
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