“Zigomi nepalesi e occhi cinesi sotto le lenti scure”, Antonello Venditti si racconta a tutto tondo nella sua casa appena fuori Roma. Cena e champagne, aneddoti a pioggia e sigarette una dopo l’altra, poi giù in studio ad ascoltare in anteprima la sua cover di And so it goes di Billy Joel. Divertente, focoso, generoso, incontenibile: uno splendido padrone di casa, con alle porte sei date nei palazzetti a dicembre (la prima a Firenze il 6). Esce oggi per Rizzoli “Fuori fuoco”, pieno di foto pazzesche e racconti preziosi. Un libro letteralmente irrinunciabile. Le chiacchierate con Antonello richiederebbero dieci pagine del Fatto; sul cartaceo ne abbiamo usate due, e qui trovate la versione integrale (e dunque torrenziale).
Perché un libro fotografico?
Perché ogni foto racconta una storia. Solo che è una storia falsa. La fotografia è un grande inganno. Guardando le mie foto, sembro un bambino felice. Paiono felici perfino i miei genitori. Non era così.
Mio padre ha un buco in gola, cantavi nel ’73.
Mio padre era il sole, sempre pieno di energia per superare gli ostacoli. Mia madre era la luna, una grecista timorata di Dio. Ed io ero l’eclissi, introspettivo. Accanto a due personalità fortissime, la mia poteva emergere solo attraverso il conflitto.
Dentro il libro ci sono tanti amici e colleghi. Per esempio Ivan Graziani.
Un fratello. Era bravissimo. Gli ho prodotto I lupi, ma Ivan non era tipo da disco. Non riusciva a fermarsi: era un chitarrista di strada che viveva per i concerti. E poi amava la provincia: prima di Zocca e Correggio, nel rock italiano c’è stata la sua Novafeltria. Questo forse lo ha limitato nella fama e nella carriera, ma Ivan non poteva andare contro la sua natura. Mi manca molto.
Rino Gaetano.
Un nervo scoperto e una ferita non rimarginabile. Rino era fragilissimo ed era quello che più di tutti noi andava tutelato. Non andava fatto sbandare. E invece l’incontro con un discografico gli ha fatto bene dal punto di vista musicale, ma è stato devastante sulla sua vita. Rino aveva una sorta di complesso di inferiorità nei confronti miei e di Francesco (De Gregori, NdA). E non aveva proprio senso, perché era bravissimo e gli volevamo bene.
Volevi aiutarlo di più? Hai rimpianti?
Tanti, ma temo che quando il destino deve compiersi tu non puoi fare proprio un cazzo. Nel suo ultimo periodo non riuscivo più a capirlo, con Mogol non c’entrava nulla da un punto di vista artistico. E il troppo successo a Sanremo ha acuito le sue insicurezze. Rino esorcizzava le sue angosce con l’ironia. Era un bravo ragazzo pieno di ferite. Non farmi aggiungere altro, non voglio riaprire polemiche.
Come scopristi la sua morte?
Mi chiamò mio padre al mattino: “E’ morto Mino Reitano, l’ho sentito alla radio”. Gli dissi: “Mino? Sei sicuro?”. No: era Rino. All’obitorio c’ero anch’io quando riconoscemmo il cadavere. Stava dentro una sacca nera, neanche fosse spazzatura. Fu terribile (si commuove, NdA). Come lo fu il funerale, in quella chiesa del cazzo mezza gotica che mi ha sempre messo inquietudine. Oltretutto nella mia vita sentivo da tempo che c’era una morte nell’aria.
Cioè?
Nei Settanta mi sono accaduti fatti strani. Per esempio con “quel gran genio del mio amico”, il meccanico citato da Battisti: ero in studio con lui e di notte cominciarono ad accadere cose inspiegabili. Oggetti che si muovevano da soli, roba così. Scappai terrorizzato e andai da Graziani e sua moglie Anna a Milano. Praticamente dormii in mezzo a loro due, poveretti. E posso garantirti che non prendevo droghe o ero ubriaco. Sempre bevuto poco.
Altri episodi misteriosi?
Da un’amica sensitiva di Rino. Prima comparve una sorta di ectoplasma che era uguale al fidanzato morto della padrona di casa. Poi, verso le 9:15 di mattina, mi trovai non so come con Rino in Via Nomentana. Guidavo io. Vidi una stradina laterale e, senza motivi apparenti, gli dissi: “Mi raccomando, quando arrivi a questo punto prendi sempre questa traversa”. Era il punto esatto dell’incidente che gli sarebbe costato la vita nell’81, e se avesse preso quella traversa non sarebbe morto.
Rino torna sempre nei tuoi ricordi.
Un’altra volta la sua amica, sempre quella sensitiva, mi disse che sarebbe accaduta una tragedia subito dopo la nascita del figlio di un mio amico della Bilancia. Pensavo parlasse della mia morte. Poi un mio amico della Bilancia divenne padre, e di lì a poco morì Rino.
Di Lucio Battisti che ricordi hai?
Solo belli. Caratterialmente eravamo simili, entrambi lupi solitari. Ci frequentammo nel ’76 ad Anzano del parco, nel suo studio. Eravamo imbattibili a biliardino: chimica perfetta. Ivan (Graziani) e Oscar (Prudente) si incazzavano sempre perché non vincevano mai. A biliardino sono ancora molto bravo, a casa ne ho sette o otto.
Se non fossi diventato cantautore, chi saresti stato?
Un campione di tennis tavolo: ero un talento vero. Oppure un pilota. Ho truccato un sacco di macchine e ho una guida “intuitiva” che ha pochi rivali. Spingo e non ho paura del limite, a differenza di troppi piloti professionisti. Infatti, una volta, in una sorta di “gara” sconfissi Eddie Cheever. Quando arrivò al “traguardo” molto dopo di me, gli dissi ironicamente: “Tu non vincerai mai un cazzo”.
Uno dei tuoi capolavori è Modena. Chi è il “Mauro” che citi a inizio brano?
Un amico cameriere, un fan e compagno che mi seguiva nei Settanta. Modena ha molte chiavi di lettura. Una di queste è raccontare l’estate romana, il tripudio culturale che c’era nella Capitale grazie all’assessore Renato Nicolini. Il sottoproletariato (di cui Mauro era espressione) era vorace di cultura. La notte ci trovavamo al Comparone, un ristorante romano che non chiudeva mai. C’era il tavolo degli attori con Mastroianni, quello dei pittori. E poi quello dei cantanti: Io, Dalla, Ron, Zero, De Gregori, a volte Baglioni. A questi tavoli si aggiungevano tranquillamente i “proletari” come Mauro. Non c’erano differenze di classe e tutto era possibile. Altri tempi.
Quando finì la magia?
Nel 1982 non c’era già più niente. Lo canto in Eleonora, una ragazza di provincia che si ritrova nuda sopra un divano a tirare cocaina in mezzo a quei salotti romani “de sinistra” che non frequento mai. Oggi li chiameremmo i “comunisti col Rolex”.
Però ogni tanto organizzi grandi pranzi e cene.
Sempre meno. A Trastevere non sto praticamente più, amo Roma ma è diventata faticosissima. Qualche anno fa, per il mio compleanno (l’8 marzo), ho invitato un sacco di gente. C’era anche Sorrentino. Tavoli a tema. Io mi sono messo al tavolo dei “politici”, in mezzo a Santoro, Bertinotti, Damilano, De Angelis e non ricordo chi altri. Intervenivo solo per farli litigare e rendere evidenti le loro contraddizioni. Riuscendoci facilmente.
Bertinotti lo senti ancora, quindi.
Lo conobbi dopo che fece cadere il governo Prodi, la notte della marcia per la pace. Lo trovai in un hotel a Perugia, gli chiesi: “Ma tu esattamente che cazzo vuoi?”. E il risultato fu che mi tenne sveglio tutta la notte in camera mia, per raccontarmi le sue motivazioni. Ricordo che c’era un Gran Premio la notte, e quando finì lui era ancora lì a parlare. Da allora siamo diventati amici. Inseguivamo anche D’Alema.
Eh?
All’epoca lui era Presidente del Consiglio e parlava sempre della sua barca a vela. Du’ palle. Così io e Fausto gli andavamo dietro con la mia barca e attraccavamo in ogni porto prima di lui, solo per rovinargli la festa. Poco dopo D’Alema sostenne l’intervento Nato in Kosovo, e per certi versi la sinistra pacifista italiana è morta lì.
Ma sei ancora di sinistra.
Certo. E molto più della sinistra politica, che trovo sempre paludata e vecchia, col perenne senso di colpa di essere borghese. Anche i giovani del Pd sono vecchi e non sanno comunicare. Manca l’ironia, a parte Bersani che fa storia a sé.
Voti ancora?
Sì, ma nell’era del televoto non ha senso pretendere che la gente esca di casa per votare. Con Berlusconi è cambiato tutto. Il voto in presenza è come andare al cinema, infatti le sale stanno morendo. Le persone non escono più, peggio ancora dopo il Covid. Bisogna far votare la gente con lo smartphone. In questo modo l’astensionismo verrebbe limitato parecchio.
Eri uno dei cantanti prediletti dal Pci dei Settanta.
Il Pci faceva tantissimo per la cultura. Potevo confrontarmi con Berlinguer o con un sindaco illuminato come Petroselli, ed era stupendo. Nel ’73, quando mi organizzavano i concerti, chiedevo al Pci di suonare nei posti meno battuti, tipo a Leonforte. In Calabria, in Sicilia, alla fine del latifondo. Luoghi splendidi e lontani. Non c’era neanche il piano, lo facevano arrivare a dorso di mulo. Che cosa meravigliosa!
Hai conosciuto anche Pasolini.
E ci ho sempre litigato. Un grande intellettuale, ma su Valle Giulia aveva torto e osservava la vicenda da troppo lontano, pretendendo pure di conoscerla. Diceva provocatoriamente che il proletariato non eravamo noi ma i poliziotti, ma cosa cazzo aveva di proletario il Quarto Reparto Celere che ci manganellava? Glielo dicevo e si litigava. Lo ripeto ancora oggi. E aggiungo con dolore che la sua morte, tragica e tremenda, non ha misteri: Pasolini era uno stupendo intellettuale che frequentava certi ambienti pericolosi col macchinone, convinto di poter avere tutto coi soldi e con la fama. E purtroppo un brutto giorno la situazione è sfuggita di mano.
Ti sei definito lupo solitario. Non frequenti nessun collega?
Pochi. De Gregori lo conosco da una vita e fa storia a sé: ci vogliamo bene e conosciamo benissimo i nostri difetti. Con un certo cantautorato di qualità, che esalta le osterie e il vino, non c’entro molto. Per me il comunismo è far sì che tutti diventino ricchi e felici, non una società dove tutti sono poveri e si vergognano di bere ogni tanto Champagne. Forse per qualcuno ho venduto troppo, senza con questo smarrire la qualità. Ho un feeling particolare con Zucchero: siamo simili e quando ci troviamo diventiamo ingestibili, perché amiamo fare scherzi e “rovinare” le feste dove ci invitano.
Le nuove generazioni?
Voglio molto bene a Ultimo, in molti suoi aspetti e insicurezze mi ci rivedo. La sua è una generazione senza sovrastrutture, buttata nella mischia senza gavetta, e infatti entra subito in crisi: pensa a Sangiovanni. Conosco bene Annalisa, Angelina Mango e Madame. Bravissime, se gli dici di cantare Guccini e De André sono fenomenali. Ma per esigenze discografiche devono cantare altro, sottostare a “giudici” di talent che non sanno nulla ed essere pure belle per forza. E’ capitato anche alla povera Adele.
Il dominio dell’estetica.
Devastante. I fili della cultura si sono spezzati, l’estetica ha superato il contenuto e il berlusconismo ha ucciso tutto. A noi l’estetica non interessava, eravamo pure tutti bruttini tranne De Gregori: incarnavamo una sorta di “controbellezza”. Oggi invece se non sei figa non vali. E se non vai a Sanremo non esisti. Follia.
Il tuo primo successo fu Lilly.
Mi agghiacciò. Lilly scalò la Hit Parade nel ‘75, ma non la consideravo minimamente popolare. Parlavo di eroina, il muto assassino che stava mietendo una generazione. Entrare in quella canzone era come varcare la soglia di un obitorio. E invece la cantavano tutti, evidentemente non consapevoli di quel corpo bianco con quattro buchi sulla pelle, ritrovato fra immondizia e carte di giornale. Mah. Tuttora non la canto a cuor leggero.
Quand’è che “hai previsto tutto”?
Più volte, ma non per bravura o acume particolare: per intuito. Come per In questo mondo di ladri, uscita quattro anni prima di Tangentopoli. O quando predissi nel ’77 il reflusso degli Anni Ottanta. O quando capii che mio padre aveva un tumore semplicemente guardandolo. Mi osservò stranito: andò a controllarsi e ne aveva due. Certe cose le sento, anche quando vorrei non sentirle.
Per la scena di Barletta ti hanno massacrato.
Una fake news che mi ha fatto stare malissimo. C’era un fascista che provocava dall’inizio. Sento qualcuno che parla, al buio, e credo sia ancora lui. Invece era Cinzia, una ragazza autistica. Io ovviamente non vedevo nulla. Un collaboratore sul palco mi dice che “è una ragazza speciale”. Io non capisco che con “speciale” intenda “autistica”, e reagisco. Dopo il concerto, i genitori di Cinzia mi spiegano tutto. Resto mortificato, ci chiariamo. Da allora ci sentiamo regolarmente, a Cinzia voglio bene. Vado a letto, convinto che sia finita lì.
Invece al mattino era esploso tutto.
Il fascista aveva montato ad arte il video, lo aveva depositato con tanto di copyright per farci i soldi ad ogni visualizzazione, e aveva creato una fake news. Il video di scuse l’ho fatto dall’aeroporto, trafelato e sconvolto. Il fascista l’ho querelato, ma ci sono stato male per giorni. E per certi versi ci sto male ancora: io non sono così, io non sono quella roba lì. Una persona meno strutturata di me, dopo un attacco simile, si sarebbe suicidata.
Lo scontro con Salvini a Ballarò resta mitico.
Era il 2015. Qualche anno dopo, mi dicono che a un concerto-convention a Milano c’era anche Salvini. Dico: “Se c’è lui, io non suono”. Poi il concerto lo faccio, per motivi contrattuali. E Salvini, alla fine, viene pure a salutarmi come nulla fosse. Roba da matti. Aveva anche fatto un post dicendo che era venuto a vedermi, ma gliel’ho fatto togliere.
Sei una miniera di aneddoti.
Una volta salgo su un aereo e vedo che ci sono un sacco di personaggi equivoci. Malavitosi. Una signora mi aveva rubato il posto, la faccio allontanare. Si incazzano tutti e mi guardano male. Io mi alzo e teatralmente, da romanaccio, dico una cosa tipo: “Signori, se me lo volete ciucciare potete farlo ora o all’atterraggio”. Ho rischiato il linciaggio. Poi siamo atterrati a Roma. C’era la polizia, ha arrestato mezzo aereo: quel volo era pieno di camorristi ricercati.
Nel libro spieghi anche perché non ti togli mai i Rayban.
Me li ha fatti scoprire una ragazza a Falconara nel ‘74. Le lenti a goccia erano disegnate apposta per permettere ai bombardieri americani del Vietnam di tenere costantemente lo sguardo sul bersaglio e sul pannello di controllo, mentre il buco centrale serviva sia da mirino che da portasigarette. Erano perfetti per me: potevo convertire un oggetto di guerra in un simbolo di pace. Avrei scaricato canzoni sulla gente e avrei fatto molti vivi. Non me ne separo quasi mai, soprattutto in concerto.
Ma non sono solo una scelta legata al look.
Magari. Quello che non si sa è che senza occhiali vedo male. Sono stato operato due volte agli occhi per un pucker maculare e li devo proteggere. A volte vedo fuori asse, sfocato, ondulato. La sera confondo i colori. Il fatto incredibile è che faccio tutto come se vedessi bene, e questo è un altro dono della memoria: sovrappongo il ricordo di una vecchia immagine a quella attuale, ricostruendola nei minimi particolari. Ho una guida intuitiva sui tasti e al volante.
La solitudine ha un ruolo importante nel tuo percorso.
La solitudine ha generato in me molta fantasia. O viceversa. Non so quale delle due sia nata prima. A 14 anni, di domenica, composi Sora Rosa nella mia cameretta e mi parve un miracolo. Evidentemente scrivere canzoni era una dote innata.
Fumi molto.
Ricorda: non si può essere cordiali e non fumatori allo stesso tempo. Devo accendermi una sigaretta per bruciare via le tensioni e stare sereno. Dicono che se smetti, l’irascibilità dura un po’ e poi passa. Durante quel po’, però, potrei fare fuori qualcuno. Sai perché fumo? Per prendermi cura di chi mi sta attorno: lo salvo da me.
Uno dei talenti più grandi che hai conosciuto.
Fellini: imparagonabile, una categoria a sé. Un giorno ricevetti una sua lettera, in cui mi invitava sul set di E la nave va. Per tre mesi partecipai al suo Luna Park. Scoprii che esistevano due tipi di genio: consapevole e inconsapevole. Lui era del primo tipo. Aveva tutto in mente e niente di scritto, giocava con il suo mito e se lo godeva fino in fondo.
Ti sei beccato tre mesi con la condizionale.
Era il 1974. Teatro dei Satiri di Roma, spettacolo con De Gregori e Cocciante. Cantai A Cristo. Qualcuno non gradì e mi ritrovai davanti prima un maresciallo a fine concerto, poi un giudice a processo. Mi diedero tre mesi con la condizionale, perché né le forze dell’ordine né il tribunale comprendevano il romanesco. L’espressione sotto accusa era: “Ammazzate Gesù Cri’ quanto sei fico”. Un’offesa secondo loro, ma nel gergo di allora era un complimento. Passai per blasfemo. Per rabbia andai sotto la statua di Giordano Bruno, esempio di un uomo libero ritenuto eretico, e composi Campo de’ fiori.
La tua svolta nella carriera.
Tante, mica solo una. Di sicuro fu decisivo Ullalla, il disco che feci a Milano nel ’76 con i musicisti di Battisti nell’album La batteria il contrabbasso eccetera (compreso Graziani). Ci credevo tanto, ma la casa discografica non ci puntò e senza dirmi nulla mi cambiò pure missaggi e suono. Mi incazzai da morire e chiusi con la RCA. Non ero ancora così popolare e potevo finire da un giorno all’altro, ma volevo essere onesto con me stesso, con il pubblico e con la musica. La RCA mi presentava come “il cantante della rabbia e della battuta a caldo, il cantore della Roma cattiva”. Da quel momento mi presentai invece con un soft rock di livello internazionale, e cominciò un altro discorso. Me ne andai via e fu una fortuna.
Mi hai appena fatto sentire una tua splendida cover di Billy Joel.
Uscirà l’anno prossimo, e magari con Joel ci inventeremo anche altro. Ci siamo visti a Firenze e poi sono stato a trovarlo negli Stati Uniti. Mi conosceva già benissimo perché suo fratello, per motivi forse inspiegabili, gli aveva regalato il mio disco del 1973 Le cose della vita. Siamo diventati amici e la sua stima mi destabilizza e onora. Ho fatto una cover in italiano della sua And so it goes, il titolo è Perché a Firenze non tramonta il sole.
Con un chitarrista d’eccezione.
Joe Bonamassa. Inizialmente avevo pensato a Jeff Beck, ma poco prima di chiamarlo lui è morto. Un altro dolore grande. Così va la vita.
******
Le prossime date del tour:
06 dicembre Firenze – Nelson Mandela Forum
11 dicembre Bologna – Unipol Arena
13 dicembre Assago (MI) – Forum
17 dicembre Torino – Inalpi Arena
20 e 22 dicembre Roma – Palazzo dello Sport