Tre mucchi di mattoncini Lego. Ci puoi costruire il grattacielo, la reggia o l’allegra fattoria. Detto così suona gioioso e sembra che sia tu l’architetto. I mattoncini sono zucchero, grassi e sale: gli ingredienti principali di preparazioni che non sono più cibo ma combinazioni di composti. Big Food li sposta per noi, ingegnerizzando il cibo – grasso incolore inodore insapore che si mimetizza, zucchero e sale che modificano la struttura diventando impalpabili per invadere meglio gli alimenti da colonizzare – dalla barretta che sostituisce il pasto ai cereali per la colazione, dalla bevanda gasata alla pizza surgelata.
Poi varia le proporzioni, un po’ più di zucchero e un po’ meno di sale o viceversa; guarnisce di composti chimici, emulsiona, addensa o ammorbidisce. I prodotti sembrano diversi, ma sono più o meno tutti uguali nella struttura. Si chiamano cibi ultraprocessati, sono il vanto e la fonte quasi esclusiva di profitti immensi per i giganti mondiali del pronto all’istante, dello “stacca, lecca e inzuppa”. È il tema di copertina del nuovo numero di Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 7 dicembre e in libreria da venerdi 13 (leggi qui dove acquistarlo, come abbonarti e come regalarlo a Natale). Negli Usa otto alimenti su dieci sono fatti così e forniscono il 60% dell’apporto calorico medio quotidiano alla popolazione. In Italia siamo ancora lontani da quegli abissi, ma nei grandi centri urbani, tra i single indaffarati e imbranati ai fornelli e tra gli anziani soli con pochi soldi e scarsa voglia di spignattare la percentuale aumenta.
Facili, economici, micidiali. “Negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata dovunque, l’obesità e le altre conseguenze nefaste per la salute che una dieta a base di cibi processati porta con sé si sono impennate da quando le grandi aziende hanno esteso il loro dominio sul mondo” mi dice Michael Moss, reporter del New York Times che con le sue inchieste ha vinto il premio Pulitzer (la sua requisitoria Grassi, dolci, salati. Come l’industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo in Italia è stata pubblicata da Mondadori).
Ma come si riconosce il pappone da cui stare alla larga? Secondo l’epidemiologo brasiliano Carlos Monteiro, che ha inventato il termine “ultraprocessato”, se contiene aromi, coloranti, addensanti, emulsionanti e altri additivi fra gli ingredienti, non è un alimento naturale. Ancora più drastico Chris Van Tulleken, medico e ricercatore inglese, volto noto della Bbc e autore del best-seller fresco di stampa Cibi ultraprocessati (Vallardi), che scrive: “Se è avvolto nella plastica e contiene almeno un ingrediente che di solito non si troverebbe in una classica cucina, è cibo ultraprocessato: forse li conoscete come ‘cibo spazzatura’, ma esistono un sacco di alimenti ultraprocessati biologici ed ‘etici’, che vengono venduti come sani, nutrienti, rispettosi dell’ambiente o utili per perdere peso”.
Completiamo l’identikit dei prodotti nel mirino. Sono cibi piacevoli al tatto e al gusto. E facili da tenere in casa, a volte senza neanche il bisogno del frigorifero. Energetici e ad alta densità calorica: saziano presto e, al tempo stesso, ne vorresti di più. Costano poco. Sono pratici, devi solo riscaldarli e a volte li puoi mangiare anche freddi. C’è il convenience food, il cibo istantaneo così comodo: come l’aranciata in polvere “Tang”, basta aggiungere l’acqua. Peccato che sia al 100% artificiale, l’arancia neanche vista in cartolina. Ci sono i cereali zuccherati, Super Orange Crispie: 70,8% di glucosio, di cereali quasi zero.
“L’industria – spiega Moss – utilizza una combinazione di iper-ingegneria per massimizzare l’eccitazione che i loro prodotti creano nel nostro cervello e un marketing selvaggio che ci spinge ad agire d’impulso per acquistare e consumare questi prodotti anche quando non abbiamo fame”. Diventiamo cioè “forti utilizzatori”, nel gergo dei manager di Big Food. Come tossici a caccia di una dose. I cardiologi americani paragonano lo zucchero alla metamfetamina e i grassi agli oppiacei. E infatti i topi da laboratorio, ingrassati a zucchero, hanno crisi di astinenza se glielo togli.
Si comincia con i bambini: le colazioni più zuccherate sono per loro, aiutate da una pubblicità mendace e invasiva nei programmi con i cartoon dove l’eroe tutto zucchero combatte contro Bad Apple, la mela cattiva. Si comincia indagando sul loro bliss point, il “punto di beatitudine” perfetto del prodotto. “Il termine è stato coniato da un consulente del settore, un ‘mago dello zucchero’, Howard Moskowitz, per descrivere la quantità di dolcezza che li rende difficili da contrastare. Moskowitz descrive questa formulazione come una scienza precisa che coinvolge quella che lui chiama ingegneria alimentare e che ha funzionato così bene nel generare un aumento delle vendite e dei consumi che oggi due terzi dei prodotti presenti in un negozio di alimentari hanno zuccheri aggiunti e un punto di beatitudine ingegnerizzato per la dolcezza” dice Moss.
L’algoritmo e Mr. 61 prototipi. Esempio? La Dr. Pepper, bevanda gasata molto zuccherata che piaceva assai a John Lennon e Hillary Clinton, era terza dietro Coca e Pepsi e perdeva terreno. Cercò di riguadagnare posizioni con un nuovo prodotto al gusto di ciliegia che si rivelò un flop epocale. A questo punto intervenne Moskowitz, riformulando il prodotto. Preparò 61 prototipi, variando in ciascuno la quantità di zucchero, ciliegia, aroma di vaniglia, intensità del colore. Poi li sottopose ai gruppi test e infilò i risultati in un computer, generandone un algoritmo. Quello della formula vincente, che fu ovviamente un successo clamoroso. Moss ha provato a far bere a Moskowitz la sua Dr. Pepper. Il “mago dello zucchero” ne ha preso qualche sorso e ha fatto una smorfia. “Ha un gusto che non mi piace… Ah, certo, sa di benzaldeide”. Pensavate davvero che ci avessero messo succo di ciliegia?
Se lo zucchero ha il suo bliss point, il grasso in compenso non ne ha nessuno. Piace e non stufa mai. Accade così che un’azienda in declino di carni rosse e salsicce, la Oscar Mayer, si sia inventata uno dei più grandi successi di sempre, i Lunchables, vassoietti a scomparti di carne, formaggio, cracker, condimenti, dopo le prime prove anche di dolcetti, destinati al pranzo dei bambini. Oggi “Lunchables” ha sessanta versioni, tutte abbastanza poco raccomandabili, e secondo Michael Moss è tra i prodotti più pericolosi anche del futuro assieme ai sinistri Hot Pockets, panzerotti ripieni della qualunque, per la sua pretesa di simulare e sostituire un intero pasto.