Le democrazie contemporanee non sono esposte al rischio di un ritorno del fascismo così come lo abbiamo conosciuto o studiato sui libri di storia e di teoria politica. Si è trattato di una fase storicamente determinata che si è chiusa con la caduta di Mussolini (tanto che occorrerebbe parlare di fascismo “storico” o “reale”). È evidente che ciò che a quelle latitudini politiche lo ha seguito, ovvero il neofascismo, ha legami profondissimi di ordine pratico e simbolico col fascismo reale. Ma è un’altra cosa (mentre è legittimo avere seri dubbi sul fatto che sia mai esistito un autentico post-fascismo). Non meno minacciosa, ma diversa. Oggi la presa violenta del potere e l’estensione dello Stato in tutti gli ambiti della vita, fino alla penetrazione di esso nelle coscienze individuali (in interiore homine), sarebbero più faticose e meno efficaci di quanto si possa ottenere sfruttando gli stessi buchi neri degli ordinamenti costituzionali vigenti.
In altri termini, se contro il fascismo era nata la Carta costituzionale post-bellica, tesa a sopperire ai limiti dello Statuto Albertino, le cui maglie larghe avevano consentito il proliferare di un regime illiberale, oggi ci troviamo di fronte alla sfida di ripensare le Carte costituzionali nate da quelle esperienze, perché evidentemente esse vengono sfidate da nuove forme di autoritarismo. Forme più “morbide”, subliminali nel senso più pienamente etimologico: esse si insinuano al di sotto della soglia del controllo costituzionale, non attivando quegli allarmi acustici che un assalto apertamente neofascista alle istituzioni attiverebbe.
Dunque, se non esiste un rischio fascista, esiste il rischio di involuzione autoritaria. La cosa abbastanza nuova di questo scenario è che si tratta di una minaccia che promana non solo da destra. Nuova, si diceva, perché caratteristica degli ultimi decenni. Quando sia destra che sinistra cavalcano le forme dell’amministrativizzazione del diritto, ovvero bypassano Parlamenti e volontà popolare – considerati, non di rado apertamente, anticaglie e ostacoli (si ricordino i “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria) – delegando l’esecutivo non solo a eseguire, per l’appunto, ma a legiferare; quando sia destra che sinistra invocano, a giustificazione di ciò, l’esigenza di fronteggiare situazioni di emergenza perenne (che se è perenne non è più emergenza); quando i diritti costituzionalmente garantiti sono stressati, stiracchiati o minati da decisioni esecutive che saltano il controllo legale-costituzionale; quando il grande capitale finanziario si serve dei tecnocrati che non necessitano di alcuna legittimazione popolare (certo secondo la Costituzione il Parlamento conferisce la fiducia, non il popolo; ma un qualche legame andrebbe comunque ristabilito); quando accade questo, non c’è bisogno del fascismo per dire di trovarsi di fronte a una minaccia all’ordinamento costituzionale post-bellico.
Queste minacce, combinate con l’esasperato leaderismo, non vengono percepite come tali dall’opinione pubblica. Lo scivolamento verso forme di “autoritarismo democratico”, cioè apparentemente suffragato dal voto (ma qui, di nuovo: il voto di chi? Esistono garanzie costituzionali contro l’astensionismo? Oggi non è necessario ridurre il Parlamento a un bivacco di manipoli ma basta chiudersi in una stanza e fare le liste con una legge elettorale indecente), non trova ostacoli neanche tra i teorici della politica, che non sembrano pronti alla sfida concettuale di pensare nuove forme di partecipazione. Tra chi grida al fascismo e chi si attarda a proporre le fruste formule del parlamentarismo novecentesco, non si vede come si possa uscirne.
Chi tra le forze politiche ci ha provato è stato massacrato da destra e da sinistra, perché a destra e a sinistra conviene (come in Weekend con il morto) tenere in piedi il cadavere della democrazia parlamentare che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento.