La prima volta che ci incontrammo fu nel 2002 nel suo ufficio di direttore dell’Unità, in via Due Macelli a Roma. E secondo me l’Unità, nelle tante vite che ha vissuto Furio Colombo in appena 94 anni, fu il suo capolavoro. Lui, che non aveva mai votato Pci, un anno prima aveva accettato l’offerta di un gruppo di imprenditori di resuscitare la storica testata ex-comunista, uccisa dai geni del partito, per farne un giornale libero, cioè non più di partito. Una specie di campo profughi per chiunque, dalle più diverse posizioni ed estrazioni, volesse combattere l’unica battaglia degna di quegli anni: contro B. e il berlusconismo, cioè in difesa della Costituzione, della legalità e della decenza.
Così, con quel comune denominatore, ci ritrovammo in tanti, sotto la sua guida e quella del condirettore Padellaro, a fare uno straordinario giornale che riusciva a rompere le palle tanto alla cosiddetta destra al potere quanto alla cosiddetta sinistra all’opposizione (si fa per dire). Naturalmente durò pochissimo: il partito, anzi la Ditta si riprese l’Unità per ammazzarla un’altra volta, facendo fuori prima lui, poi Padellaro. E ci rivedemmo al Fatto.
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Litigare con Furio era facilissimo, almeno per me: lui “liberal”, io “liberale”, e giuro che la differenza non era soltanto in una vocale. Anche se poi quasi sempre si ricomponeva nell’essere entrambi “liberi”. Abbiamo convissuto, con le rispettive e spesso diverse visioni del mondo, fino alla sua dolorosa uscita dal Fatto nel 2022, che esplicitammo sulle nostre pagine, per non nascondere nulla ai lettori. Se fosse rimasto avremmo forse litigato ancora, per esempio su Israele e Gaza, sull’Ucraina, sulla Ue, su Trump e Musk. E sarebbe stato un arricchimento per il giornale e per i lettori.
Ogni tanto lo vedevo in tv, splendido ultranovantenne combattivo come un ragazzo. Aveva appena finito un nuovo libro, che uscirà postumo. Ha vissuto una grande e bella vita, anzi mille grandi belle vite in una. E per noi che ne abbiamo incrociato qualche frammento è stato un privilegio.