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La sanità pubblica al disastro: altro che “taglia-code” e Pnrr

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Qualcuno ci aveva anche creduto, con quel nome così assertivo: “Taglia code”. Poco importa se l’idea che basti un decreto per risolvere un problema di sottofinanziamento cronico e strutturale sconfina nel pensiero magico o, più facilmente, nella propaganda: d’altronde la legge 107 del 2024 che “introduce misure urgenti per ridurre i tempi di attesa delle prestazioni sanitarie” è stata varata tre giorni prima delle elezioni europee mica per caso. Un anno dopo, dei sei decreti attuativi che avrebbero dovuto consentire di intervenire sullo scempio di lungaggini che arrivano a 12 mesi per una semplice Tac, talmente tanti da far rinunciare il 35% della popolazione alle cure del Servizio sanitario nazionale, ne sono stati varati soltanto due. E a beneficiare della norma sono stati, come ampiamente prevedibile e denunciato a più riprese dalle opposizioni, solo le strutture private che, favore dopo favore, vanno via via sostituendosi al pubblico: quando il sottosegretario alla Sanità è azionista di una catena di cliniche che si fa pubblicità proponendosi come alternativa alla lentezza degli ospedali, d’altra parte, c’è poco di cui stupirsi. Ben venga allora, paradossalmente, lo scontro tra Regioni e ministero che, nelle ultime settimane, ha riportato a galla le promesse mancate e i problemi realissimi del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), al cui ridimensionamento, se non smantellamento, il governo Meloni – quello “dalla parte delle persone” – sta attivamente lavorando sottotraccia. Se amministrazione centrale e locali discutono di chi deve avere il potere di controllare l’effettivo rispetto delle norme per ridurre i tempi di attesa, riattivando loro malgrado la discussione sul diritto universale della salute, previsto nel dettato costituzionale ed esplicitamente ribadito dalla sentenza della Consulta che ha fatto a pezzi il disegno di legge dell’Autonomia differenziata (195/2024), è fondamentale focalizzarsi sui motivi di tali code, e sui percorsi scelti per tagliarle. Si scopre così una verità semplice: la sanità pubblica declina perché non riceve le risorse necessarie al suo funzionamento. È la stessa Corte a segnalarlo, quando scrive: “La determinazione dei Livelli essenziali di prestazioni origina il dovere dello Stato di garantirne il finanziamento: è la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”. Per verificare quanto siamo lontani da questa condizione basta annotare la progressiva riduzione della percentuale del Pil che destiniamo alla sanità pubblica: dal 6,8% del 2014 al 6% del 2025, fino al 5,6% previsto per il 2030. Anche laddove i soldi ci sono, per esempio nella “missione Salute” del Pnrr, non si spendono adeguatamente. Al dicembre 2024, con soli 16 mesi ancora davanti per ultimare il famoso Piano di cui si sono ormai perse le tracce, il sistema nazionale di monitoraggio Regis segnalava che sulle fondamentali “Case della comunità”, primo presidio e perno dell’assistenza territoriale, è stato speso meno di un decimo dei fondi disponibili. Alla stessa data risultavano completati e collaudati solo 25 progetti, mentre ben 885 (62,6%) presentavano almeno uno step in ritardo. A fronte di questi numeri, i battibecchi su responsabilità e attribuzione di controllo si rivelano per quello che sono: fumo negli occhi per coprire il disastro, l’inerzia e il progetto non dichiarato di un Servizio sanitario pubblico “residuale”, che si occupa “solo di ciò che non interessa il mercato privato o protegge solo i rischi non assicurabili”. Così recita l’appello “Non possiamo restare in silenzio. La società civile in difesa della sanità pubblica”, promosso da Associazione Salute Diritto Fondamentale, Laboratorio Salute e Sanità – LABOSS, Salute internazionale, Cittadinanzattiva, Forum Disuguaglianze e Diversità e molte altre realtà. Leggerlo è un ottimo modo per vederci chiaro, e conoscere gli obiettivi per cui dare battaglia.

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