La domanda che non si può fare a Elias è se ha paura. Che insieme a soldi, cibo e medicine finiscano anche le speranze, che un giorno con il figlio se ne vadano anche gli amici, che la guerra al destino sia una sfida già persa in partenza. “Benvenuti, essere qui è una scelta e noi siamo onorati di ospitarvi”. Elias, il guardiano della farmacia di Kapnikos a Katerini, nel nord della Grecia, è un gigante con i capelli bianchi e gli occhiali: ti guarda dritto negli occhi e soffia via le parole che qui mai come in nessun altro luogo sono inutili. Al numero 8 di via Fleming ci sono una casa colonica che un tempo fu una fabbrica di tabacco, un terreno, tre magazzini e un cancello sempre aperto. Poi il cane Rex, i gatti che rotolano dalle scale come gomitoli e i volontari da tutto il mondo che dormono nei letti a castello. Infine naturalmente le medicine: scaffali di farmaci arrivati con i camion di donazioni (l’ultima e più consistente dal Banco farmaceutico italiano) e che ogni tre giorni vengono distribuiti agli ospedali pubblici e a chi ne ha bisogno. In cambio chiedono lavoro: per portare avanti la farmacia, perché ognuno faccia la sua parte per quella che nessuno ha il coraggio di chiamare rivoluzione. Kapnikos è una comunità prima di essere un luogo.
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Elias è il regista: l’idea è stata sua, anche se non ama dirlo ad alta voce, ed è sbocciata nel pieno della crisi economica della Grecia degli anni 2000. “Era autunno. Era il 2012. Ho acceso la radio e ho sentito le proteste dei produttori di patate”. Dicevano che non riuscivano a vendere perché i supermercati avevano alzato troppo i prezzi. Avevano la voce piatta di chi ha fame, di chi non riesce a dar da mangiare ai suoi figli, di chi presto non combatterà più. “Ero con due amici e in dieci minuti abbiamo deciso di organizzare mercati nelle piazze per far incontrare direttamente consumatori e produttori. Lì è avvenuta la magia”.
E’ nato un movimento, il movimento delle patate, e nel giro di qualche giorno c’erano mercati in tutta la Grecia. “Insieme a noi anche gli uomini di Tsipras, quando ancora erano dalla parte del popolo”. E’ successo qualcosa in quei giorni, è successo che Elias e i suoi hanno capito che insieme erano molto forti e che la disperazione – come i ratti – non si fa trovare quando intorno ci sono gruppi di persone con il coltello fra i denti che fanno un gran rumore. Una iniziato, il resto è stato come una cascata: Elias e i suoi hanno occupato la fabbrica di tabacco abbandonata, l’hanno ristrutturata e hanno iniziato a raccogliere cibo e medicine. Si sono chiamati O topos mou, il mio posto, e hanno stabilito tre regole: non avere regole, struttura o burocrazia, non accettare denaro e soprattutto non ammettere i politici.
“Qui tutti devono sentirsi liberi: non abbiamo leader e ognuno deve fare la sua parte. Deve essere chiaro che non abbiamo padroni e possiamo criticare chi sta al governo”. Oggi Kapnikos è una realtà avviata che fornisce cibo a 500 famiglie, farmaci ad altre 400 e poi vestiti, materiale scolastico e per l’igiene a chi ne ha bisogno. La farmacia apre tre volte a settimana: i cittadini vengono nel primo pomeriggio, lavorano e poi ritirano quello che serve loro. Arrivano intorno alle tre e se ne vanno quando scende il sole.
C’è Glyka che faceva la donna delle pulizie e a cui nessuno ha mai pagato l’assicurazione sanitaria. E’ lei a fare il caffè per volontari e utenti, sempre lei a occuparsi della cucina quando serve.
Eirene e Agnes puliscono le scale nella pausa dai turni nei campi di tabacco: solo così possono portare a casa qualche scatola di biscotti e pane per i figli. Georgis è invece il responsabile del supermercato sociale, parla un inglese perfetto ed era un manager prima di essere licenziato dalla sua azienda. Arriva per mano alla moglie Efi che fa la segretaria della farmacia. Si commuove quando pensa alla sua terra, poi con le mani ruvide asciuga le lacrime che scendono a tradimento: “Lasciare la Grecia per cercare fortuna altrove? Io da qui non mi muovo”.
In coda allo sportello ci sono malati psichiatrici che fanno tentativi di reinserimento, disoccupati e lavoratori stagionali. Cittadini abbandonati dalla società che cercano di rialzarsi. Georgis li guarda e dice: “Questa è Katerini. Siamo il sostegno attivo di un sistema che altrimenti sarebbe già collassato”. Poi c’è Panagiotis che fa l’insegnante di italiano ed è una delle colonne di Kapnikos. Arriva in bicicletta, Elias lo rimprovera perché è in ritardo e gli consegna le chiavi. “L’ospedale di Katerini”, spiega, “ha una sala rianimazione chiusa per mancanza di personale. Periodicamente finiscono le medicine e noi riceviamo una chiamata. Hanno due ambulanze per una città di 80mila abitanti. Senza contare i due campi per gli immigrati”. Già. Dal 2015 ci sono anche centinaia di stranieri che vivono a pochi chilometri dalla città. “Quando sono arrivati abbiamo messo le medicine nelle scatole e siamo andati a portarle a chi aveva bisogno. Ora aiutiamo anche loro”.
Non ci ha pensato nessuno che avrebbero potuto fare distinzioni: li hanno considerati abitanti del posto e hanno diviso il pane con loro. Perché sì e nessuno ha fatto domande. Panagiotis chiede solo una cosa: “Fino a quando il governo ci ignorerà? Il giorno dopo l’elezione uno dei rappresentanti del partito Syriza ci ha minacciato. ‘Chiuderete presto’, ha scritto. Sono nati qui tra noi e ora ci fanno la guerra perché siamo la prova concreta che il sistema sanitario non funziona”. Il diritto alla salute in un Paese in ginocchio è come l’ultima frontiera della civiltà. L’Europa, le banche, i burocrati hanno imposto le regole e chiesto indietro soldi. Tanti. Hanno preso le strade, così che chi si muove deve pagare pedaggi, così che la libertà si misura in chilometri. Questo ha in testa la gente come Panagiotis quando chiedi loro altri sacrifici.
Elias non ha paura di dire la sua soluzione ad alta voce: “Se stare dentro l’Unione europea significa dover rinunciare al diritto di essere curati quando si sta male, meglio ricominciare da capo. La povertà non ci fa paura, la dittatura sì. La fame non ci fa paura, il non avere un futuro sì. Qui i potenti stanno facendo un esperimento”. Il nuovo direttore sanitario dell’ospedale di Katerini è uno dei fondatori della farmacia. Anestis Mystridis spiega che sono al lavoro e che le cose andranno meglio. Per lui il nemico è a Bruxelles e non ad Atene. “Ci manca il personale, i reparti stanno in piedi solo grazie agli straordinari. La troika non può pensare di tagliare su un settore così importante e così delicato. La sanità non deve essere toccata”.
Elias lo ascolta e sorride. Perché i tagli sono già avvenuti e ora c’è da fare i conti con le conseguenze, evitare che si muoia e salvare la dignità. “Siamo molto delusi dal governo”, risponde. “Siamo molto delusi da Tsipras. Ha promesso troppo ed è stata una presa in giro. Non ci piangiamo addosso, ma ce ne ricorderemo”. Fra pochi mesi ci saranno le elezioni per il sindaco di Katerini e dalle parti di Kapnikos vogliono che Elias si candidi. Lui dice che chiederà alla comunità e che non è un’impresa da affrontare da solo.
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La domanda che non puoi fargli è sempre se ha paura. Che una volta al governo sia lui a deludere gli amici, che le promesse siano fatte per non essere mantenute. Quando i pensieri si fanno più bui, lui guarda verso l’Olimpo, “il nostro monte con le nostre foreste” e chiama i volontari, i greci come gli inglesi e gli italiani. “Non dimenticatevi di noi”, dice. Perché esserci è una scelta, ma anche restare e combattere. Ed Elias per fare la guerra al destino ha bisogno dei rinforzi.