Le interviste
Mafie unite d'Europa: che cosa fanno, come si combattono. La parola agli esperti: Ernesto Savona (Transcrime) - Giulia Baruzzo e Davide Pati (Libera) - Rocco Sciarrone (Larco) - Federico Varese (Università di Oxford) - Fabrizio Fantini (Dia) A cura di Mario Portanova
"416 bis per tutti i Paesi Ue? No, meglio seguire i soldi"
Ernesto Savona - Università Cattolica di Milano/Transcrime
“Sfiancarsi a chiedere un normativa antimafia unica per tutta Europa è inutile. Alcuni paesi non rinunciano alle loro prerogative, alla privacy”. Ernesto Savona, direttore del centro interuniversitario Transcrime e docente all'Università Cattolica di Milano, non crede che la strada penale sia per forza quella più efficace per combattere le mafie a livello europeo. “Datemi invece la possibilità della confisca internazionale, che sulla carta esiste ma nella realtà non funziona. È più efficace di un 416 bis europeo. A Strasburgo c'è stata anche una Commissione antimafia, che però non ha prodotto niente. E comunque anche l'Italia ha le sue pecche nella normativa, basti pensare a quanto ci è voluto per riformare la prescrizione”.
Eppure il fronte antimafia italiano è netto nelle sue richieste all'Europa. L'Italia ha il grosso rischio di leccarsi continuamente la ferita. Non vuol capire che le cose cambiano. Rispetto a quando il reato di associazione mafiosa è stato introdotto, nel 1982, il tasso di violenza dei clan si è ridotto quasi a zero, salvo Napoli. Il circuito dell'antimafia ha le sue rendite di posizione.
Allora qual è la strada da seguire? La vera domanda per l'Europa è: dove finiscono tutti i soldi che la criminalità organizzata incassa? Nei Paesi dove la mafia è “matura”, il punto è questo, è il secondo stadio. In Messico ci si occupa dei morti ammazzati, ma se si va in Colombia ci si rende conto che i soldi del narcotraffico sono stati spalmati sul territorio. Vanno tagliati i fili tra capitali sporchi e puliti. L'infiltrazione nell'economia lecita non è un reato in sé, ma la somma di corruzione, riciclaggio… In Europa tutti hanno strumenti gli giuridici per perseguire questi reato, ma mancano le informazioni. Pensiamo a quanto conta la criminalità nell’economia di un Paese balcanico, ben più della pizzeria in Germania. La Germania, è tra i paesi più gelosi di normativa. Collabora come polizia, ma è ferma sulle garanzie. L'idea è: “Vengano pure coi soldi, se fanno crimini li arrestiamo, se no no”.
In pratica che cosa dovrebbe fare l'Unione europea? In Europa agiscono gruppi forti spalmati sul territorio, poco collegati alle case madri, con attività economiche e criminali specializzate o generiche a secondo del contesto: nei Balcani trovano opportunità diverse che nel Regno Unito. Allora l'Ue deve decidere qual è il modello che riduce le asimmetrie normative che permettono all'imprenditore mafioso di aprire una pizzeria non in Calabria, dov'è sotto il riflettore delle forze dell'ordine, ma altrove, dove non c'è alcun riflettore acceso e norme sono più leggere. La strada è quella di una cooperazione giudiziaria forte e di protocolli tra le polizie nazionali. Servono capacità investigative comuni, che si stanno già costruendo. Che poi è quello che serve anche sul fronte del terrorismo. Formazione dei poliziotti, capacity building... Spostare l'analisi sui fattori di rischio invece che incorniciare fotografie. Più dati si cumulano, migliori saranno le analisi.
Qual è la fotografia attuale delle mafie in Europa? Gli italiani, i russi, i cinesi e i turchi sono i soli a vantare una certa durata. Si va verso una frammentazione territoriale, più che nel passato. Le grandi mafie si restringeranno, andranno verso modelli più flessibili: pochi omicidi e più soldi che girano. Per esempio a Napoli le “paranze” sono il nuovo, non la vecchia camorra: giovani di 18-20 anni non necessariamente di tradizione camorrista, che controllano il territorio con le estorsioni e il piccolo traffico di droga.
Però le indagini dicono che una mafia “solida” come la 'ndrangheta sia tra le più forti del continente, se non la più forte. La 'ndrangheta pare aver creato la propria frammentazione, una sorta di franchising leggero. In Germania il modello è simile a quello della Lombardia, come mostra la locale scoperta a Singen. L'idea è: più autonomi siamo, meno inchieste demolitorie subiamo.
Qual è il ventre molle dell’Europa rispetto al rischio criminale? Ci sono stati più fragili. Pensiamo al movimento sorto in Romania contro un governo che depenalizza corruzione, senza che l'Unione europea dica nulla. E con la corruzione la criminalità lavora. Romania e Bulgaria hanno vulnerabilità serie su questo fronte. Le norme sono perfette, ma quasi ma applicate, o applicate in modo diverso. Si fanno le leggi per ottenere i contributi europei, poi tanti saluti. Credo sempre meno che l'uniformità normativa serva, credo più in quella informativa. E se un giorno Europol diventasse Fbi europea sarebbe un bel passo avanti. Ma non credo succederà.
Poi ci sono aspetti al di fuori del raggio d'azione dell'Unione europea, come i paradisi fiscali. Sul fronte dell'offshore, in vent'anni sono stati fatti progressi sull'asimmetria normativa, pensiamo al caso della Svizzera. Ora la grande scommessa è rendere conoscibile il destinatario finale dei quattrini. La direttiva antiriciclaggio del 2014 ha introdotto il registro dei beneficiari effettivi, ma ogni singolo Paese dibatte sulla sua attuazione. E' vero che alla fine rischi di trovare solo i prestanome. Allora devi sviluppare capacità investigative per risalire al vero beneficiario, per esempio con le intercettazioni.
"Anche in Europa riutilizziamo a fini sociali i beni confiscati"
Giulia Baruzzo e Davide Pati - Libera
“Vogliamo portare sempre più in Ue la dimensione sociale della lotta alla mafia. Così cittadini percepiscono che non è solo Europa delle banche, ma anche dei diritti”. Davide Pati è il responsabile per i Beni confiscati di Libera, la rete di associazioni antimafia fondata da don Luigi Ciotti, da anni impegnata nella sensibilizzazione sul tema anche a Bruxelles. Lo intervistiamo insieme a Giulia Baruzzo, del settore internazionale di Libera. Che sottolinea: “Siamo riusciti a far inserire nei più recenti documenti approvati il concetto del riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla criminalità organizzata”, uno dei pilastri della normativa italiana antimafia, in vigore dal 1996 proprio grazie alla campagna dell'organizzazione guidata da don Ciotti. “Esiste già l'Asset Recovery Platform, che riunisce le agenzie nazionali sui beni confiscati. E' stata recepita dalla maggioranza degli Stati, ma spesso con poche risorse. Oltre all'Italia, gli Stati più avanzati su questo fronte sono Spagna e Francia”.
Quando avete iniziato a “esportare” in Europa una questione ancora oggi ritenuta soprattutto italiana? La prima audizione che Libera ha fatto al Parlamento europeo risale al 1997. Dopo quell'intervento, Strasburgo adottò la prima risoluzione sulla prevenzione della criminalità, la base di molti documenti successivamente approvati.
Però ancora oggi si fa fatica a convincere tutti dei rischi legati all'espansione criminale, che peraltro non riguarda solo le mafie italiane. Ci siamo accorti subito che stati membri faticavano a recepire certe nostre normative, come il reato specifico di associazione mafiosa, mentre è più facile trovare orecchie sensibili sul crimine economico, come dimostra il maggiore consenso dei Paesi membri sulle direttive antiriciclaggio. Negli ultimi tempi, inoltre, nei vertici dei ministri dell'Unione europea l'attenzione è molto più concentrata su terrorismo e immigrazione. La lotta alla criminalità organizzata è inserita in modo residuale all'ordine del giorno.
Detto questo, al Parlamento europeo vede differenze di sensibilità fra Paesi e gruppi politici? Sicuramente le componenti progressiste sono più sensibili, anche per l'attenzione al sociale che le caratterizza. Ma non vedo una netta distinzione politica. Dipende molto dai singoli parlamentari. E si va avanti quasi sempre su spinta italiana. Anche sulla Procura europea il ministro della Giustizia italiano Andrea Orlando è fra i pochi a puntarci davvero. Ma la strada è in salita.
"Non tutto è mafia, ma non esistono Paesi invulnerabili"
Rocco Sciarrone - Università di Torino/Larco
“Le mafie non sono dappertutto, ma non esistono aree che si possono ritenere a priori immuni, invulnerabili, non appetibili per i gruppi criminali italiani e non”. Rocco Sciarrone, sociologo dell'Università di Torino, dirige il Laboratorio di analisi e ricerca sulla criminalità organizzata. Con la sua squadra di ricercatori è attualmente impegnato in uno studio approfondito sull'espansione delle mafie italiane in Europa. Che però non sono sole: “C’è una tendenza alla strutturazione di gruppi criminali che potremmo assimilare a quelli mafiosi, con delle specificità proprie, senza scadere in una visione 'pan mafiosa'”, precisa Sciarrone.
Cominciamo da qui. Come si riconosce una mafia, se non ha il pedigree delle organizzazioni italiane riconosciute come tali, dalla 'ndrangheta alla camorra a Cosa nostra? Già il reato italiano di associazione mafiosa, il 416 bis, è puntuale ma anche flessibile e con una visione larga, anche se, per esempio, il tentativo della Procura di Roma di applicarlo a Mafia capitale non è stato accolto dai giudici. Il reato non contiene nessun connotato etnico-geografico. Anche il riferimento all'omertà può riguardare gruppi diversi, non necessariamente italiani (in Italia è stato contestato a gruppi cinesi, nigeriani, romeni, ndr). Stando attenti a non esagerare, però. Contano la struttura organizzativa gerarchica, la capacità di svolgere attività economiche non circoscritte al sottomondo criminale, di agire a cavallo tra mercati legali e illegali, di svolgere attività di 'governo' in determinati settori: estorsioni, intermediazioni, protezione. Per uscire dal perimetro giuridico, la cosa più preoccupante che connota i gruppi mafiosi è la capacità di instaurare rapporti di cooperazione e scambio con soggetti dell’economia, della politica e delle istituzioni.
Dalla ricerca che state svolgendo, emerge davvero una questione mafiosa europea? Certo. Che però andrebbe discussa evitando la polarità tra i due estremi: da un lato il pregiudizio etnico del 'sono affari degli italiani', dall'altro l’allarmismo generalizzato. Il problema non è che la mafia va alla conquista dell’Europa, non c'è nessun esercito di criminali che invade nuovi territori. Sulla base delle evidenze empiriche, comunque, la storia delle mafie italiane all’estero è lunga, sia pure a macchia di leopardo.
Come avviene allora questa espansione? Le dinamiche sono differenziate. Alcune sono più tradizionali, proprie della criminalità organizzata più strutturata. Lo vediamo per quanto riguarda i mercati illeciti, le strategie di sommersione. Le mafie si spostano dalle loro aree di origine per ragioni strategiche e di occultamento, e quando lo fanno avviano attività in loco. Poi c’è un secondo scenario, più preoccupante, per il quale tanto il dibattito pubblico quanto la legislazione sono più arretrati.
Quale scenario? Riguarda le dinamiche che si collocano nel funzionamento dell’economia legale, o formalmente legale, in rapporto alle funzione svolta dalla politica. Come si connettono economia e politica? Che tipo di legislazione c’è? In Europa si registrano grandi asimmetrie sul piano legislativo, che si traducono poi anche in asimmetrie investigative. Sono fattori che possono offrire alla criminalità organizzata una struttura di opportunità favorevole. Anche in Italia le mafie hanno trovato interstizi tra economia, politica, pubblica amministrazione...
E questo si sta replicando in Europa? Penso ai diversi sistemi fiscali, alla criminalità economica, alla corruzione politico-amministrativa. Fenomeni che certo non sono soltanto italiani. Questo secondo scenario non è semplicemente l'estensione dell’area dell’illegalità, ma porta alla creazione di una commistione tra lecito e illecito. Così diventa difficile individuare l'impresa buona rispetto a quella cattiva. E si può anche creare una domanda di competenze di illegalità specializzate, aspetto fortemente sottovalutato. La situazione della Svizzera su questo è emblematica, ma vale anche per la Germania. Non riusciamo a vedere tutto lo scenario dispiegato e, proprio per questo, non siamo in grado di riconoscerlo. Così come condizioni particolarmente favorevoli possono crearsi in alcuni Paesi dell'Est. Il nostro gruppo di ricerca sta approfondendo, ad esempio, il caso della Romania. A livello europeo ci dovrebbe essere più attenzione alla criminalità economica, non solo alle forme più tradizionali di criminalità organizzata, ma a quella propriamente economica e finanziaria.
Così torniamo al punto di partenza, sul quale il dibattito all'interno dell'Unione europea pare incartarsi. Non è un problema di “cultura mafiosa” che esisterebbe in alcune aree e in altre no. In linea generale la cultura mafiosa esiste, perché ogni fenomeno ha una dimensione culturale. Solo che, a mio parere, non va vista come la variabile principale, se non l’unica, nella riproduzione della mafia. Qui a Torino c’è stata una “cultura” della Fiat? Certo, ma non puoi leggere tutta la città con quella lente. Per lungo tempo, anche in Italia, parlare di cultura ha impedito di vedere la struttura organizzativa delle mafie. I mafiosi producono cultura, ma sono scettico sul fatto che una cultura possa produrre mafia. Giudico molto più importanti gli assetti istituzionali, le pratiche proprie di un certo territorio, che cosa è considerato legittimo e che cosa no. La cosa interessante, anche per chi deve predisporre le politiche di contrasto, è verificare quali condizioni rendono possibile l'espansione delle mafie. E dal mio punto di vista si tratta soprattutto di condizioni di contesto e di condizioni istituzionali, in particolare – come dicevo – negli snodi di regolazione e di raccordo tra economia e politica.
Sembra di rivivere la tardiva “scoperta” che le mafie si sono insediate da tempo anche nel Centro-Nord Italia. Il fatto che all'estero ancora ci si stupisca quando emergono casi di presenza mafiosa fa parte del problema. Ma non dobbiamo stupircene noi, perché appunto è successa la stessa cosa in Italia di fronte all'espansione in aree diverse da quelle tradizionali. Ci sono due pregiudizi duri a morire. Il primo: per lungo tempo si è ritenuta la mafia non esportabile, la si vedeva espressione tipica di una società locale. Il secondo: la convinzione che “da noi non può succedere, perché abbiamo alti livelli di sviluppo e cultura civica”.
Quindi che cosa dovrebbe fare l'Unione europea per combattere in modo efficace la criminalità organizzata. L'armonizzazione delle normative nazionali è auspicabile, ma serve realismo. Ci sono resistenze dai Paesi membri, in parte imputabili a ritardi culturali, ma anche a differenti culture giuridiche. E' sicuramente più importante il coordinamento delle indagini, con lo scambio di informazioni e di pratiche. Mi pare riduttivo fermarsi al 416 bis o a una norma che individua il fenomeno in modo restrittivo. Puoi trovare la locale di ‘ndrangheta all'estero, ma non puoi pensare che il radicamento territoriale esaurisca lo spettro delle possibilità, né che sia lo scenario del futuro. Ripeto, bisogna rivolgere l'attenzione alla dimensione economica. E non è detto che la logica degli affari sia meno pericolosa. Il mafioso può essere un soggetto economico che porta capitali non solo per riciclare, ma per cercare investimenti nell’economia legale. Su questo bisognerebbe intervenire, in particolare con le misure di prevenzione, come sequestri e confische, naturalmente accompagnate da tutte le garanzie giudiziarie dovute.
"La mafia russa ricicla in Ue: sistema bancario senza controlli"
Federico Varese - Università di Oxford/Exlegi
Non sono solo le mafie italiane a espandersi in Europa. “C'è una forte presenza di mafia russa, o meglio post sovietica, in diversi Paesi dell'Unione, in particolare in Grecia”. Federico Varese, criminologo dell'Università di Oxford e direttore di Exlegi (Extra-Legal Governance Institute), è uno dei massimi esperti di quel “ceppo” di criminalità organizzata. Alla luce del suo attivismo, vede di buon occhio l'introduzione di un reato di associazione mafiosa, simile al 416bis, esteso a tutti i Paesi dell'Unione. “E' molto importante avere sistemi coordinati a livello europeo”, afferma lo studioso. “In particolare il mandato di cattura europeo è molto utile. Ogni tentativo di ridurne la portata è gravissimo. Poi però ci vuole anche una lotta concreta sul campo, in ogni singolo territorio nazionale”.
Cominciamo a mettere ordine: che cosa intendiamo per “mafia russa”. Georgiani, ceceni... Non partirei da un ceppo etnico, la mafia russa è caratterizzata da membri di una società segreta, i “ladri in legge”, formata da individui che accettano un particolare codice d'onore. Questi diversi gruppi esistevano già in epoca sovietica, sono esplosi negli anni Novanta dopo la caduta dell'Urss e continuano a esistere oggi. I membri sono soprattutto georgiani e russi, mentre i ceceni appartengono a organizzazioni separate.
Quali sono le loro attività nei Paesi dell'Unione Europea? Fanno soprattutto un massiccio riciclaggio di denaro che esce dal sistema bancario della Russia e delle repubbliche ex sovietiche in maniera incontrollata, perché non vi è nessun tentativo di separare i soldi sporchi da quelli puliti. Poi c'è il controllo di diverse attività legali, in particolare in Grecia. La mafia russa cerca inoltre di entrare in maniera massiccia nel mercato della droga.
Che cosa distingue una mafia da un gruppo criminale anche forte e strutturato? Su questo spesso si fa confusione. Il punto è che una mafia ha la tendenza a diventare un'entità di governo. Per cui per operare in determinato settore o territorio è necessario farci i conti. E' il gruppo criminale che si fa politico. Questa è la vera differenza rispetto alla criminalità comune.
In Europa c'è sufficiente consapevolezza, secondo lei, di questa realtà e dei potenziali rischi futuri? La domanda va messa nel contesto della crisi politica europea. La criminalità è percepita come straniera, quindi la soluzione proposta è sbattere fuori, espellere. Invece una criminalità autoctona esiste. Questa consapevolezza non c'è in tutti i Paesi.
Lei insegna in Inghilterra, un Paese che di solito non associamo alle mafie. Com'è la situazione lì, e come viene percepito il tema. Esistono organizzazioni locali importanti, anche formate da inglesi autoctoni, e altre di importazione. In passato, per esempio, è emersa la presenza del clan di camorra La Torre ad Aberdeen. Ore credo che il nodo centrale sia Londra, per i crimini finanziari e il riciclaggio.
Che però è sempre difficile da tradurre in casi concreti. Non possiamo dire molto di preciso, in effetti, perché le indagini non ci sono. Il mercato, non solo finanziario, è molto deregolamentato ed è facile, per esempio, nascondere i proprietari effettivi di un immobile di lusso. E quel poco che veniamo a sapere è sempre svelato da indagini che partono dall'Italia.
E' un problema di legislazione? Sul sequestro e la confisca di beni e denaro alle organizzazioni criminali, l'Inghilterra qualche passo avanti lo ha fatto, con nuove normative. C'è invece ancora molto da fare sull'individuazione dei gruppi criminali. La legge nazionale non prevede neppure un reato di crimine organizzato come lo si intende in Italia. Esiste la cosiddetta conspiracy, che coinvolge più persone, ma sempre in relazione a un reato specifico.
Da diversi documenti investigativi emerge la preoccupazione per la crescita dei clan albanesi, diventati forti con il grande traffico di marijuana e ora in espansione su altri fronti. Con un un allarme specifico proprio sul Regno Unito. L'allarme c'è soprattutto nel Sud. Ma è presto per capire se quei gruppi, basati come la 'ndrangheta su stretti legami familiari, abbiano davvero fatto il salto per essere definiti mafie.
"Indagini comuni tra polizie, il primo passo è fatto"
Fabrizio Fantini - Direzione investigativa antimafia
Pochi lo sanno, ma le indagini comuni europee sulla criminalità organizzata sono già una realtà. Il sistema si chiama @on e permette a polizie di diverse nazionalità di “aprire un caso e di scambiarsi informazioni già nella fase embrionale delle indagini, prima ancora che sia aperto un procedimento giudiziario”, spiega il primo dirigente di polizia Fabrizio Fantini, responsabile dei rapporti internazionali della Direzione investigativa antimafia, che molto si è data da fare perché @on diventasse realtà, con l'approvazione da parte del consiglio Giustizia Affari Interni (GAI) il 4 dicembre 2014.
Che cosa cambia in concreto nella lotta alla mafia in Europa? Cambia molto. Ora le indagini che coinvolgono più Paesi si possono fare da subito insieme ai colleghi dello Stato interessato, senza aspettare di dover compiere un atto formale, come una rogatoria che arriva nell'ufficio giudiziario estero a un magistrato che nulla sa del caso e magari lo tratta solo in modo formale. Questa potrebbe essere la base per future squadre investigative comuni, già previste dall'Unione europea, ma non ancora attuate.
Come funziona esattamente? L'avvio di un'inchiesta viene deciso in una cabina di regia che si riunisce periodicamente presso Europol, appunto con lo scambio di informazioni immediato e senza troppe formalità.
Però bisognerebbe anche mettersi d'accordo su che cosa è mafia, crimine organizzato. Le definizioni non sono univoche. Ci sono voluti anni per arrivare a una definizione comune: la Convenzione Onu di Palermo del 2000, la decisione quadro europea del 2008... Ne è venuta fuori una definizione di compromesso fra la common law anglosassone egli altri codici europei. Per quanto mi riguarda, per essere mafiosa un'organizzazione deve essere strutturata e avere una vocazione imprenditoriale, cioè l'abilità di sfruttare tecniche finanziarie per occultare capitali e soprattutto di reinvestire nell'economia reale. Insistiamo su questo e oggi troviamo una sensibilità maggiore rispetto al passato.
Non servirebbe, secondo lei, un'armonizzazione dele leggi europee? Più che il 416 bis, sarebbe importante armonizzare le misure prevenzione patrimoniale. E' più efficace tagliare risorse che arrestare, perché l'arrestato può essere sostituito, il capitale no. Dunque lo strumento necessario su cui battere sono le misure sul doppio binario: poter aggredire beni e denaro della criminalità sul fronte penale, dopo la condanna, ma anche con un procedimento separato basato sulla pericolosità sociale e sulla sproporzione dei beni rispetto ai redditi e alle risorse dimostrabili come lecite. E' l'insegnamento di Falcone, “follow the money”.
E su questo a che punto siamo? Ci stiamo avvicinando. La Germania sta prendendo a modello la nostra normativa, il Bundestag sta discutendo l'inversione onere della prova. Si sta allineando anche il Regno Unito, nella normativa antiriciclaggio, il Criminal Finance Bill: il Parlamento sta discutendo di unexplained wealth. appunto la sproporzione di cui parlavo. Con questi passi avanti il riconoscimento di una nostra richiesta di misura di prevenzione sarà più facile. Teniamo anche conto che in Spagna e Francia ci sono già stati casi di confische di questo tipo, in seguito a inchieste per mafia partite dall'Italia. L'Ue dovrebbe fare di più: come per il mandato di cattura europeo esiste una lista dei reati più gravi, cosi dovrebbe essere per sequestro e confisca. Personalmente sono piu per i piccoli passi concreti, anche verso la Procura europea che risolverebbe tanti problemi di armonizzazione giudiziaria.