Piero Bassetti: “Il progresso dell’Italia non passa dalle Regioni”
Interviste

Piero Bassetti: “Il progresso dell’Italia non passa dalle Regioni”

Il primo presidente della Lombardia e pioniere del regionalismo italiano racconta la sua delusione. E svela come la corruzione si sia subito insinuata nell'amministrazione locale, fin dai primi anni Settanta

di Roberto Casalini, foto di Marcello Bonfanti

Ha la civetteria di aumentarsi l’età, Piero Bassetti. Dichiara 96 anni, anche se li compirà in dicembre. Imprenditore (le telerie Bassetti che introdussero in Italia le lenzuola colorate e quelle con l’angolo), sportivo (un bronzo nella staffetta 4X100 alle Olimpiadi di Londra del 1948), politico di lungo corso. Si iscrive alla Democrazia Cristiana nel 1947, è consigliere comunale di Milano dal 1954, assessore al bilancio con il centro-sinistra negli anni ‘60, primo presidente della Regione Lombardia dal 1970 al 1974, deputato dal 1976 al 1982, in seguito presidente della Camera di Commercio di Milano e di Unioncamere. Tuttora attivo, si occupa di “italicità”, di glocalismo e, con la Fondazione Giannino Bassetti, di innovazione responsabile. Sul regionalismo oggi è scettico, sentiamo perché.

Le Regioni di oggi sono quelle che lei sognava nel 1970, quando parlava di “ristabilire il primato dell’interesse collettivo sul profitto privato, cioè il primato della politica sull’economia, il primato della democrazia sulla tecnocrazia”?

No, il mondo non è più lo stesso, altri sono i problemi. Secondo me il punto centrale oggi è la fine dello Stato. Stato è il participio passato del verbo stare. E il mondo oggi non sta, il mondo si muove.

Lei ha individuato nella decisione di fare le regioni l’atto più radicalmente innovativo della Costituzione. Ma a parte quelle a statuto speciale, che vennero fatte subito perché bisognava pacificare confini turbolenti o scongiurare il separatismo, dal 1948 al 1970 si è mosso molto poco…

Sinistra e destra, per lunghi anni, si sono trovate concordi a non farle perché ognuna di loro vedeva il rischio della preminenza dell’altra parte. La storia politica dell’Italia è spesso storia di politicismi, e il peccato originale è l’Unità d’Italia per come è stata realizzata, con la grande frattura fra Nord e Sud che non è mai stata ricomposta e che, anzi, si è fatto di tutto per aggravare.

Il regionalismo era il tentativo progressista di incontrare la società con un’organizzazione politica adatta ai tempi, negli anni in cui l’Italia conosceva la modernità

Con l’Unità d’Italia vinse il centralismo, lo stato prefettizio e napoleonico. Carlo Cattaneo e i federalisti erano minoranza…

Lì è stato il grande errore della borghesia piemontese, che è stata rappresentata dalla burocrazia piemontese. Io sono un grande ammiratore di Cattaneo, ma secondo me ha sbagliato durante le Cinque Giornate di Milano del 1848, quando non si è ribellato alla sostituzione degli austriaci con il re. Il fallimento dell’Unità d’Italia è il fallimento di una cosa che non c’era, la borghesia italiana. Per questo servivano le regioni.

Nel suo discorso d’insediamento del 1970 lei parlava di limitazione progressiva delle libertà, di forze sociali tradizionalmente prive di potere, di ventre del fascismo ancora fecondo.

Questo lo dico ancora adesso. Vale per l’Italia, vale per tutta l’Europa dell’Est esposta al fascismo, la situazione incandescente in Slovacchia ce lo sottolinea. Nel 1970 ricordavo che il fascismo, quando cancellò la libertà, demolì anche l’autogoverno, tagliando alla radice il regionalismo.

La sinistra ha colpe?

La sinistra ha preso dalla destra la componente più pericolosa, il razionalismo. Della rivoluzione francese, invece di prendere la testa del re, ha preso la ghigliottina.

Poca fratellanza…

E poca attenzione alla complessità.

Una certa propensione al volontarismo, come se dire una cosa significhi anche farla.

La questione è più sottile, antropologica direi. L’intelligenza è una grandissima tentazione alla prepotenza. Se tu hai capito una cosa e l’altro no…

Oggi non trova che ci sia una prepotenza dei fessi?

Io salgo in aereo, la hostess chiude il portellone e dice eleggiamo il pilota, lei cosa fa? Io chiedo che riattacchino la scaletta e scendo. Tu non puoi dare un mondo complesso in mano ai cretini, come non puoi darlo in mano al despota. Invece è quello che stiamo sistematicamente facendo, mentre bisognerebbe conciliare la bontà con l’intelligenza. L’auctoritas non è la forza. Il potere non è il manico del coltello, è la lama. È lì che noi abbiamo consegnato il mondo in mano alle multinazionali, perché nelle grandi imprese il rapporto tra potere e intelligenza è gestito dal risultato: tu non puoi permetterti il lusso di affidare una funzione a un cretino, perché poi la paghi. Invece in politica è la regola: in questo governo, il poco d’intelligenza che c’è è in crisi. Pensi ai generali: ieri i conservatori avevano De Gaulle, oggi eleggono Vannacci.

Torniamo alle regioni e al 1970. Da un lato c’è il suo programma riformatore, all’estremo opposto la rivolta di Reggio Calabria perché il capoluogo era stato assegnato a Catanzaro.

Noi non eravamo campanilisti, ma lei non deve dimenticare che al programma che esposi nel 1970 sono seguite, dopo meno di quattro anni, le mie dimissioni volontarie. Io mi sono dimesso gratis et amore dei, e tutti pensavano che facessi una cretinata.

Privatizzando le Ferrovie Nord, il problema della “stecca” è venuto fuori subito. Non ne volevo sapere niente, non ci stavo, ma la malattia era già cronica

Perché si è dimesso?

Perché ho capito che l’essenza del nostro regionalismo era diventata… Insomma le regioni erano state fatte in modo da avere irreversibilmente sputtanato il discorso regionalista. Quindi servire il discorso regionalista all’interno di quel gioco era inutile.

Per lei che cos’era il regionalismo?

Era il tentativo di dare un’organizzazione politica adatta alla società italiana, negli anni dell’incontro dell’Italia con la modernità. Una nuova modalità della storia nazionale che faceva seguito alla Liberazione e all’attuazione della Costituzione, il contributo della classe dirigente alle modalità dello sviluppo. Su queste premesse avevamo fatto la battaglia per le regioni. Noi dicevamo: se non si fanno le regioni il Paese avrà dei guai; gli altri dicevano: se si fanno le regioni il Paese si divide. Io dopo quattro anni di potere che di fatto era un’impotenza non ho avuto dubbi sul fatto che non era di lì che passava il progresso del Paese.

Perché non passava più di lì?

Non erano state fatte le regioni, la mia esperienza di presidente mi ha aiutato a capirlo, ma dei dipartimenti dello stato nazionale centralista.

Non crede che dipenda anche dal fatto che le regioni sono diventate soprattutto un centro di spesa?

Non sono del tutto d’accordo con questo ragionamento. Sarebbe come dire che per essere onesti devi avere il portafoglio vuoto e le toppe al sedere, così eviti le tentazioni. Ma non c’è dubbio sul fatto che il regionalismo, operazione costituzionale progressista e come tale complessa, era stato preso, posseduto dalla logica deteriore che si stava impadronendo delle forze politiche. Pensi alla classe dirigente che avevano i partiti alla Costituente, ai Marcora e ai Lama dei miei tempi… La battaglia regionalista è stata fatta da una sinistra che aveva una dignità storica e intellettuale indiscutibile. Io invece, da presidente, mi sono trovato a constatare che i partiti si stavano deteriorando in modo incredibile. Da lì allo scandalo Liguria il passo è stato breve.

C’è stata una degenerazione generale…

Sì. Io ne ho avuto la certezza quando in Regione Lombardia è nato il problema delle Ferrovie Nord. Bisognava regionalizzare le Nord, e le Nord appartenevano alla Edison. E subito, tac, c’è stato il problema della stecca. Io lì, poco eroicamente, ho detto: non ne voglio sapere niente, ma ho capito che il discorso era ben dentro, che ormai la malattia era cronica. Sommiamo questo, la perdita della fiducia del senso di quello che stavamo cercando di fare, il rischio di contribuire a una degenerazione…

Ha ricevuto critiche per questo suo rifiuto?

Può immaginare: ah, dai, cosa vuoi fare, la vergine? No, io non voglio fare la vergine, dico solo che come presidente della Regione non voglio sapere e non ci sto.

Lei è famoso per le sue dimissioni, in seguito si sarebbe dimesso anche da deputato. Ha lasciato per la faccenda delle Ferrovie Nord?

No, se avessi detto mi dimetto perché mi chiedono la stecca per le Nord avrei tradito i miei amici. Mi sono dimesso perché l’Italia della Costituzione non stava venendo fuori dalle regioni, perché non avevamo visto arrivare la strage di Brescia, per molte ragioni. Essenzialmente perché io credevo che fare la politica non fosse andare alla ricerca forsennata del consenso sempre e comunque. Per me fare politica era mettersi al servizio della storia, contribuire a fare la storia anche in piccolo, avere il sentimento dell’oltre, di quello che resta dopo di noi.

Credo nell’oltre, in quello che resta dopo di noi, ma sul Dio della Bibbia il mio giudizio politico è assolutamente negativo. Crea gli uomini e quelli subito si ammazzano?

Sull’oltre ci ritorneremo. Quanto alla storia, lei ritiene di avere contribuito a farla?

Non sta a me dirlo, ma almeno una volta credo di sì. Metà della soluzione del problema dei tralicci è nato da un colloquio che ebbi con Aldo Moro, che allora era ministro degli Esteri, e con il segretario generale della Farnesina. C’era la ribellione dei tirolesi dell’Alto Adige, c’erano gli attentati ai tralicci. Si poteva intervenire con la repressione, ma la politica della mano forte non piaceva a Moro, oppure facendoli scegliere, con il rischio che scegliessero l’Austria. Restava la strada della solidarietà istituzionale e dell’autonomia concordata, e Moro mi disse: la Lombardia è nelle tue mani e ci dà la massima garanzia che gli altoatesini non passano con l’Austria. Io sapevo che una delle richieste era l’autostrada Milano-Vienna e ho detto, be’, c’è il modo, facciamo l’autostrada e offriamola in cambio dei tralicci, avvicinando il Tirolo all’Italia. L’abbiamo fatta, ho anche preso parte ai festeggiamenti per i cinquant’anni di quell’accordo. Si è potuto farlo perché tra Lombardia e Alto Adige c’erano duecento anni di solidarietà: il Lombardo-Veneto funzionava e quello austriaco era un impero di buon governo.

L’Austria era un paese ordinato, come scrivevano due scrittori triestini, Carpinteri e Faraguna. Il senso di fare la storia coincide in lei con l’oltre. Naturale per un credente…

Sì, io credo nell’oltre, che è il contrario del nulla. Lo vede il pannello dietro di noi? C’è scritto: “Galleggia nella vita la sensazione dell’oltre. È un istante che si dilata riconoscendo il destino”. L’oltre è quel che ci lasciamo dietro, perché non può essere che con la morte tutto scompaia. Vale per le nostre vicende umane, come quei castelli inglesi con i fantasmi, e vale per la storia e la politica, perché anche la fattualità si lascia dietro i suoi fantasmi. Io credo nell’oltre, mentre non credo in Dio.

Può ripetere?

Io mi considero un laico. L’oltre c’è ma il primo bischero è stato il padreterno che ha creato l’uomo, e dopo due minuti Caino e Abele si sono ammazzati. Il giudizio politico sul Dio della Bibbia è assolutamente negativo. Un bel bischero e un maschilista: crei la prima famiglia, crei la donna dalla costola di un uomo e le fai commettere il primo peccato, poi i loro figli si uccidono. Che disastro: la Bibbia è un libro vecchio.

Singolare, per un democristiano. E dalla corruzione, come se ne esce?

Non ho ricette, temo che siano cazzi vostri. Di sicuro non è una cosa che si risolve nel poco tempo che mi manca per compiere cent’anni.

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