Lo hanno chiamato dominatore, fenomeno, eroe, “Signore degli Anelli“. Juri Chechi è stato per anni un imbattibile, rallentato soltanto da un grave infortunio, per il resto era una medaglia annunciata ancora prima di gareggiare. Ha partecipato quattro volte ai Giochi, da Seul 1988 (“La sera prima della gare ero a tavola con Ben Johnson…”) fino ad Atene 2004, quelli della resurrezione dopo dopo la resa sconsolata di Sydney 2000. Deciso, duro, sportivo, determinato. Per lui l’unico obiettivo era la vittoria (“Non mi interessava partecipare”); talmente un’ossessione che dopo ogni gara scattava un senso di liberazione. Normale per chi ha il ruolo del dominatore. Alla vigilia delle Olimpiadi Parigi che iniziano iol 26 luglio, ecco tutte le sue “verità” a cinque cerchi
Dominatore.
Eh?
È la sua definizione su Wikipedia.
(Silenzio, quasi balbetta) Non me ne ero mai accorto.
Eppure?
Effettivamente dal 1993, anno del mio primo Mondiale, fino al 1997, credo di non aver perso una gara agli anelli.
È il Signore degli Anelli.
È vero.
Negli occhi degli avversari ha mai letto la resa immediata?
(Sorride) Qualche volta è successo: c’era un atleta ungherese, Szilveszter Csollany, poverino, morto recentemente per il Covid, che ogni volta mi guardava preoccupato; (cambia tono) al Mondiale del 1997 era incerta la mia presenza, poi all’ultimo decisi per il “va bene, vediamo che succede”. Una volta al palazzetto intravvidi i suoi occhi sconsolati che recitavano “Eh no, ancora tu”.
Qui entra in campo Lucio Battisti…
Canzone perfetta per quella situazione.
Csollany poi però le Olimpiadi riuscì a vincerle, quelle del 2000.
Sì, quelle che ho saltato per infortunio; lui era un tipo particolare, ma nelle interviste o nelle dichiarazioni ha sempre ammesso di essere secondo, perché io ero davvero imbattibile.
Leggere negli occhi degli avversari il senso della loro sconfitta annunciata non rischia di deconcentrare?
Ricordo Szilveszter solo perché era palese, altrimenti non ci ho mai fatto caso, non ci pensavo; (resta zitto).
Però?
Nel 1996, eravamo al Mondiale in Portorico, gli statunitensi investirono tantissimo su un ragazzo, solo per battermi. Si chiamava Chris Lamorte.
Tantissimo, tradotto?
Anni di allenamenti, stuoli di preparatori, studi, tecniche avveniristiche.
E… ?
Agli americani andò male; ma tutto questo l’ho scoperto solo dopo, lì per lì non me ne ero accorto, andavo dritto.
Gli americani costruirono una sorta di programma speciale per battermi, un pool al servizio di un nuovo atleta. Si chiamava Chris Lamorte. Quanto gli andò male!
Le Olimpiadi sono?
Il massimo, il non plus ultra e non solo per un discorso prettamente tecnico: a volte il Mondiale è pure più difficile.
Ma?
È il clima, l’attesa, la presenza di un numero incredibile di atleti provenienti da ogni Paese; quando sei lì ti rendi conto di essere al centro del mondo.
Nel 1996, alle Olimpiadi di Atlanta, per la prima volta parteciparono come stati indipendenti le repubbliche una volta sovietiche. La politica entra nel villaggio?
Molto poco.
È una bolla?
Sì, ed è bella; realmente si vive il clima olimpico, con una forte solidarietà per chi è in difficoltà, per chi arriva da situazioni complicate.
Esempio?
Ho più volte visto israeliani e palestinesi mangiare assieme, anche se gli israeliani erano sempre seguiti dalle guardie del corpo.
Altre nazioni hanno le guardie del corpo?
No, solo loro; e all’Olimpiade ho visto pregare insieme musulmani, cristiani e buddisti.
L’utopia esiste.
Per carità, non tutto è sempre perfetto: mi è capitato anche l’egiziano che non ha stretto la mano al siriano, ma grossomodo il clima è straordinario.
Ci sono nazioni senza speranza di vittoria: i loro atleti come vivono quei giorni?
(Ride) In realtà in maniera molto più tranquilla, però con un cazzeggio rispettoso di tutto e di tutti, come una festa. E anche questo rientra nella liturgia olimpica.
Il mito era Johnson, mica Lewis. Ero a cena con Ben la sera prima della finale. Aveva occhi rossissimi… Poi capii
E lei cedeva al “cazzeggio” o no?
No, io solo e sempre super concentrato. Purtroppo.
Purtroppo.
Chi va in finale deve restare concentrato e il giorno dopo la vittoria vai via. È la regola.
Al massimo quanto ha vissuto il villaggio?
Due settimane; (sorride) sempre ligio, perfetto, altrimenti non si ottengono risultati.
La tensione si sente?
Caspita! Ho il ricordo nitido di me, ad Atlanta, subito prima di iniziare l’esercizio: ero avvolto dalla paura di sbagliare.
Qualche volte si rivede?
Raramente. E di quell’esercizio non ricordo nulla.
Era in trance.
Mentre di Atene ho un ricordo più nitido per il male al braccio e infatti sono caduto in piccole imperfezioni nell’esercizio che ad Atlanta invece non ci sono.
Il telecronista di allora, Andrea Fusco, sembrava soffrire con lei.
Sentivo un dolore assurdo.
La sofferenza l’ha innalzata ulteriormente.
Sono andato a una tappa del Giro l’altra settimana e ancora mi fermano in tantissimi. Non ha idea del piacere che provo.
L’atleta olimpico che l’ha colpita.
Roger Federer.
Il tennis non è lo sport più “tipico” delle Olimpiadi.
Ho visto Federer super concentrato, voleva vincere: chi arriva ai Giochi ne capisce l’importanza, tutti vogliono fregiarsi dell’oro.
Il podio degli atleti che ha visto e conosciuto nella sua carriera…
Troppo difficile, posso rispondere su coloro che avrei desiderato conoscere.
Chi?
Fausto Coppi e Cassius Clay.
Cassius Clay era ad Atlanta, fu lui ad accendere la fiamma olimpica…
Povero, era già messo male… Ma quella scena resta indimenticabile.
E Carl Lewis, no?
(Pausa) Ero a Seul nel 1988 e la mia più grande delusione sportiva è stata Ben Johnson: la sera prima della famosa finale dei 100 metri – vittoria su Lewis con tanto di record del mondo – stavo mangiando proprio con lui… Aveva gli occhi rossi, tanto rossi. Poi abbiamo capito il perché.
Il doping… Gli occhi rossi non l’avevano insospettita?
Sì, e non solo me. Un po’ tutti.
Delusione generale.
Per me tanto, tifavo per lui, non per Carl Lewis.
Ben Johnson era il figlio del popolo, un po’ come lei.
Non lo so, nel caso mi fa piacere.
A Seoul 1988 lei aveva 18 anni… Cosa la colpì delle Olimpiadi?
Ero felice, curioso, emozionato; poi le gare andarono benino, sbagliai solo un esercizio alla sbarra e mi incazzai tantissimo. Eppure ci stava.
Dalle Olimpiadi ha preso qualche ninnolo da portare a casa?
(Stupito) Sempre! Però non ho più nulla, ho perso tutto.
Prima di una gara olimpica, il sesso è previsto?
(Silenzio) Eh? Dipende da come lo fai e da quanto lo fai. Tre ore pure no.
Non una maratona…
Se è rilassante, magari la sera prima è utile; (ride) contano le caratteristiche personali e a 18 anni come a 25 non cambia molto, le energie sono tante; non si hanno 70 anni.
Ai Giochi quali consigli dava ai più giovani?
Di non pensare di essere all’Olimpiade, di inquadrarla come una gara qualunque, altrimenti sono cavoli; (cambia tono) ad Atene sono stato il portabandiera, una delle emozioni più grandi della mia vita, e per un attimo ho detto “mio dio”.
Ha imparato a gestire l’adrenalina?
Uno si allena anche per questo. Ma non sempre si è in grado.
Il post gara?
Difficile da spiegare; volevo vincere, solo vincere, assolutamente vincere, così dopo mi sentivo quasi liberato dall’ossessione.
Tra voi campioni olimpici c’è una forma di complicità particolare?
Sempre al Giro ho incontrato Paolo Bettini (oro ad Atene 2004) e nonostante tutte le gare che ha vinto, insieme abbiamo parlato proprio di Olimpiadi.
È il massimo.
Senza eguali.
Lo hanno chiamato dominatore, fenomeno, eroe, “Signore degli Anelli“. Juri Chechi è stato per anni un imbattibile, rallentato soltanto da un grave infortunio, per il resto era una medaglia annunciata ancora prima di gareggiare. Ha partecipato quattro volte ai Giochi, da Seul 1988 (“La sera prima della gare ero a tavola con Ben Johnson…”) fino […]