Sequestro Lavorini:  nel 1969 il depistaggio nero delle marchette
Inchieste

Sequestro Lavorini: nel 1969 il depistaggio nero delle marchette

Ermanno, 12 anni, rapito da giovani di destra a Viareggio: lo uccidono, poi la messa in scena. È caccia al "pederasta", anticipo di quella all'anarchico

di Roberto Casalini

Il 31 gennaio 1969, all’antivigilia del carnevale con i carri che sfilano, Ermanno Lavorini esce di casa dopo pranzo. Lo fa tutti i giorni, si spinge nel centro di Viareggio con la bicicletta Aquila rossa che ha ricevuto in regalo per Natale. Ha promesso che rientrerà dopo un’ora ma alle cinque ancora non si vede. Alle sei meno venti, nel negozio di tessuti dei genitori, squilla il telefono. Una voce maschile chiede quindici milioni di riscatto e intima di non avvisare la polizia, se vogliono rivederlo vivo. Ermanno ha dodici anni, è alto un metro e 55, esile, i capelli biondi e ondulati. Studia da privatista, gioca a calcio, tifa per l’Inter ed è un ragazzo quieto che non ha mai dato problemi. Quando è uscito di casa indossava pantaloni color ruggine, un maglione bianco con disegni neri, un impermeabile bianco.

Malgrado gli inviti al silenzio la voce trapela e i giornalisti accorrono a frotte anche dalla Scandinavia, è il primo kidnapping in Italia e fa rumore: 27 trasmissioni tv, all’inizio tre dirette al giorno mentre l’esercito draga i canali e le darsene. E poi 300 passaggi radiofonici e 22 inviati speciali che si accampano. Dall’Olanda arriva addirittura un veggente, il “mago di Utrecht” Gerard Croiset, che getta tutti nello sconforto: evocando il ragazzo Ermanno, lo ha “visto” morto annegato.

Lavorini, nessuno ancora lo sa, non è annegato, ma è morto un’ora dopo essere uscito di casa. Colpito da una scarica di pugni e, con ogni probabilità, sepolto vivo. Il cadavere lo ritrova otto giorni dopo, che affiora da uno strato sottile di sabbia a Marina di Vecchiano, un maresciallo dell’aeronautica in pensione che sta portando a spasso il cane.

A Viareggio, città di artisti e anticonformisti che spicca come una macchia vistosa nella cattolica e conservatrice provincia di Lucca, il clima è teso. Un mese prima, la notte di san Silvestro, Potere Operaio e il Movimento studentesco pisano hanno bersagliato con un fitto lancio di ortaggi i “signori” che andavano a festeggiare il Capodanno alla Bussola di Marina di Pietrasanta. I carabinieri hanno caricato facendo 13 feriti. E hanno sparato, colpendo alla colonna vertebrale il sedicenne Soriano Ceccanti che resterà invalido a vita. Anche la scomparsa di Lavorini rientra in questo clima di burrasca? Il padre del ragazzo ne è convinto e dice ai giornalisti: “I contestatori me lo consegneranno quando sarà finito il carnevale”.

Nelle pinete dietro Viareggio si appartano gli omosessuali. Le frequentano anche i giovani che si vendono per poco, duemila lire per farsi masturbare. Sono marchettari e monarchici, estrema destra di minorenni sbandati che chiedono a Umberto di Savoia un aiuto per comprare i motorini, anche gli autori dell’omicidio. Si chiamano Marco Baldisseri, 16 anni, qualche lavoretto precario e una carica di tesoriere del Fronte monarchico giovanile che ha sede in un garage; Rodolfo Della Latta detto Foffo, necroforo in un’agenzia di pompe funebri; e il leader Pietrino Vangioni, cameriere e informatore dei carabinieri, l’unico maggiorenne.

Gli investigatori sospettano di loro, ma a Lucca chiedono aiuto a Roma. Arriva il colonnello dei carabinieri Mario De Julio, braccio destro del generale Giovanni De Lorenzo, quello del piano Solo che nel 1964 avrebbe dovuto guidare un colpo di stato e arrestare oltre settecento esponenti dell’opposizione di sinistra per rinchiuderli in un campo di prigionia di Gladio, la struttura paramilitare segreta della Nato, a Capo Marrargiu in Sardegna. De Julio era quello che doveva firmare i mandati di arresto, a Viareggio esautora gli inquirenti locali e indirizza le indagini verso i “pederasti”.

Marco Baldisseri, che già il 20 aprile ha ammesso di essere l’autore dell’omicidio, è spronato dal colonnello De Julio a depistare. Ritratta, cambia versione una ventina di volte, punta il dito contro il sindaco socialista di Viareggio, Renato Berchielli, e contro il presidente dell’Azienda di soggiorno, Ferruccio Martinotti: frequentavano la pineta e il giro omosessuale, non sono estranei all’omicidio. I due si dimettono: le indagini li scagioneranno, ma la loro carriera politica è rovinata. Poi il suo socio, il becchino Della Latta, accusa Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore teatrale Ermete e proprietario a sua volta di un teatro. E Zacconi, per dimostrare di essere estraneo ai fatti, deve rendere nota la sua impotenza. Scagionato anche lui dopo essere finito sulle bocche di tutti, commenterà amaro: “Mi hanno levato la merda di dosso, ma la puzza resta”, prima di morire di crepacuore.

Le accuse alla cieca delle marchette monarchiche si fanno sempre più crudeli: Baldisseri accusa Rodolfo Meciani, proprietario di uno stabilimento balneare, sposato ma frequentatore clandestino di uomini, di essere l’autore della telefonata minatoria. Arrestato e segnato a dito come mostro, Meciani si impicca in carcere: è innocente.

L’isteria monta, l’omosessualità è un ottimo spauracchio per il perbenismo bigotto e un incentivo pruriginoso per la vendita dei giornali. Nove anni prima, a Brescia nel 1960, lo scandalo dei “balletti verdi” ha tenuto banco a lungo. Duecento persone sono finite sotto accusa per traffici sessuali con minorenni, giri di droga, addirittura “tratta dei bianchi” dalla vicina Svizzera per “pratiche irriferibili”. Sono girati nomi grossi: Mike Bongiorno, Dario Fo e Franca Rame, Gino Bramieri. I missini moralizzatori hanno soffiato sul fuoco, i comunisti bacchettoni (“L’omosessualità è un vizio borghese”) hanno abboccato all’amo. Poi lo scandalo si è sgonfiato: tutti assolti nel 1964, c’erano semplicemente degli omosessuali adulti che si incontravano a cena in una cascina non potendolo fare nei locali pubblici.

A Viareggio si replica il copione. Arriva in città il principe Junio Valerio Borghese, il capo della X Mas tornata di recente agli onori delle cronache grazie al generale Vannacci, e la tappezza di manifesti. Mostrano un bambino che piange e invoca: “Mamma e papà, cosa aspettate a difendermi?”. Il titolo dei manifesti è eloquente: “Italia drogata e democratica”. Si accoda prontamente Il Secolo d’Italia, quotidiano dei fascio-missini: “Strappiamo la maschera agli infami corruttori della gioventù. I responsabili della morte di Ermanno appartengono alla banda socialcomunista che controlla la città”.

Ingoia l’amo e la lenza, con poche eccezioni, tutta la stampa italiana. Su Epoca, che in quel periodo con il corsivista Ricciardetto, ex prefetto, suggerisce di usare il napalm in Barbagia per sconfiggere il banditismo, Domenico Bartoli scrive: “Non si tratta… di perseguitare gli omosessuali, ma di impedire che il loro vizio, tollerato quando è circoscritto, diventi oggetto di imitazione e quindi di ammirazione”. Ancora più duro l’Espresso che invita con Mino Monicelli, fratello del regista Mario, a “lavare via lo sporco dalla città impestata dall’incubo di quell’immondo imbroglio di omosessuali che si chiama caso Lavorini”.

Le indagini tenaci della magistratura portano infine alla condanna dei giovani monarchici (Corte d’Assise di Pisa nel 1975, Corte d’Appello di Firenze nel 1976, Cassazione nel 1977). Hanno sequestrato e ucciso per finanziare il Fronte monarchico, volevano comprare esplosivi per fare degli attentati. In quel 1969 funesto che sfocerà nella strage di Piazza Fontana, quello di Viareggio è il primo tentativo di depistaggio che cerca di fabbricare mostri a sinistra. Dopo gli omosessuali arriveranno gli anarchici.

Il 31 gennaio 1969, all’antivigilia del carnevale con i carri che sfilano, Ermanno Lavorini esce di casa dopo pranzo. Lo fa tutti i giorni, si spinge nel centro di Viareggio con la bicicletta Aquila rossa che ha ricevuto in regalo per Natale. Ha promesso che rientrerà dopo un’ora ma alle cinque ancora non si vede. […]

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