Delitti Italiani: brava gente o assassini nati?
Inchieste

Delitti Italiani: brava gente o assassini nati?

Mostri, serial killer, poveri cristi, coppie diaboliche. Ma anche ministri, generali e aristocratici. La storia d'Italia è rosso sangue

di Roberto Casalini

L’eroe dei due mondi, l’Apostolo del Risorgimento, il Grande Tessitore, il Re Galantuomo. Il Ministro della Malavita no, quello sarebbe arrivato più tardi e nei nostri libri di testo non c’era, almeno non così. A lungo, la storia patria che ci hanno insegnato è stata un accrocco di figurine del presepio immacolate e aureolate di gloria: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II. Ma le nazioni nascono nel sangue e l’Italia non ha fatto eccezione, la nostra storia è anche storia criminale e di violenza pubblica e privata. Non eravamo, non siamo mai stati i pacifici e paciosi estroversi che l’oleografia ha cercato di accreditare.

guerra civile a sud: 30mila morti

Prima che il nuovo stato si consolidi, ci sono tra il 1861 e il 1870 dieci anni di guerra civile per conquistare il Mezzogiorno che fanno quasi 30 mila morti: 8000 fra i soldati italiani e i civili, 20 mila fra i briganti sterminati. Brigante, nella terminologia spiccia del potere sabaudo, è il mercenario al soldo dei Borboni, il bandito che rapina e ammazza, ma anche il contadino affamato che si ribella alla tassa sul pane e alla leva obbligatoria. I governi non fanno distinzioni e mandano l’esercito a combatterli. Il risultato sono gli stati d’assedio, i processi militari sommari e le fucilazioni spesso anche senza processo, le popolazioni incarcerate o deportate in massa.

“sterminateli tutti”

A Bronte sulle falde dell’Etna, nel 1860, una rivolta contadina è soffocata nel sangue dai garibaldini; un anno dopo i piemontesi a Pontelandolfo nel beneventano, dopo che gli insorti hanno ucciso 40 soldati, danno alle fiamme il paese. Sono gli episodi più celebri, non i più efferati della mano pesante dei militari. “Sterminateli tutti” ordina il primo ministro Bettino Ricasoli al generale Enrico Cialdini. I militari che eliminano briganti e contadini si lasciano fotografare accanto ai corpi e alle teste mozzate degli uccisi, trofei di una battuta di caccia grossa. Lo faranno, nel Novecento, anche con i soldati indisciplinati che vanno davanti al plotone di esecuzione: mille fucilati, spesso estratti a sorte per “dare l’esempio”, durante la prima guerra mondiale. Con i libici e gli etiopi massacrati: lunghe file di “ribelli” impiccati che penzolano dalle forche e, davanti a loro, gli ufficiali in posa.

I nostri primi serial killer. Come Ernesto Picchioni, che ammazzava con la scure

Vincenzo Verzeni infieriva a morsi sulle vittime. Lo studiò Cesare Lombroso

il “vampiro della bergamasca”

In un clima di violenza pubblica quotidiana, anche quella privata si carica di un sovrappiù di brutalità, e la “follia” contadina marchia a fuoco molti delitti celebri, fino quasi a ieri. Serial killer è un termine che viene di moda nell’ultimo scorcio del Novecento, sull’onda del Silenzio degli innocenti e di Hannibal the Cannibal, ma gli uccisori seriali, fra psicopatologie e più meschine liti per la roba e soprassalti di avidità, sono fra noi già dall’Ottocento.

Antonio Boggia fra il 1848 e il 1860 a Milano uccide cinque persone per derubarle e le seppellisce in uno scantinato. Che cosa ne avete fatto dei soldi? gli chiede il presidente del tribunale, e lui: “Li scialacquai in bagordi”. Sarà uno degli ultimi impiccati del Regno. Nel 1870 a Bottanuco, il ventenne “vampiro della bergamasca” Vincenzo Verzeni ammazza tre donne, ne succhia il sangue e ne strazia le carni. E negli anni Trenta del secolo breve Cesare Serviatti adesca donne sole, ne incamera i risparmi, le fa a pezzi e le mette in valigie che carica sui treni. Smembramenti, accette e scuri saranno modalità e armi del delitto fra le più utilizzate.

la provincia ti fa “belva”

Sono frutti di una provincia malata, di un mondo contadino arcaico e incline all’eccesso, la sorella che evira il fratello per esorcizzarlo dal demonio (a Mezzojuso in Sicilia nel 1891), il bandito Giuseppe Musolino che tra il 1898 e il 1900 in Calabria stermina la famiglia rivale degli Zoccali, la “saponificatrice di CorreggioLeonarda Cianciulli che nel 1939 mette a bollire tre donne in un pentolone per farne saponette e, al tempo stesso, liberare i figli dal malocchio con la loro eliminazione rituale. Viene dalla durezza contadina del Friuli, con un marito internato in manicomio il giorno dopo le nozze, la “belva di via San Gregorio” Rina Fort che nel 1946, a Milano, sopprime la moglie e i tre figli dell’amante.

Politica, mirini e bombe: la rivolta contro il caro-pane finisce in massacro. Poi le stragi, le Brigate rosse…

Trappole perfette

È contadino il “mostro della Salaria” Ernesto Picchioni che nel secondo dopoguerra buca le gomme delle vittime e, fingendo di soccorrerle, le attira in casa, le abbatte a colpi di mazza e di scure e, dopo averle spogliate di ogni avere, le seppellisce nell’orto. Da una schiatta contadina della bergamasca viene il “mostro di Pontoglio” Vitalino Morandini che nel 1956 massacra nove persone spargendo il terrore. Ha esordito legando il cugino che lo aveva denunciato per furto alle corna di una vacca che ha fatto correre all’impazzata e precipitare in un canalone.

Il mostro, i mostri di Firenze, hanno antenati illustri. Guardoni e sadici, fra il 1974 e il 1985 sparano alle coppiette appartate negli sterrati attorno a Firenze, asportando alle giovani uccise seno e pube. Il terrificante Pietro Pacciani che stupra moglie e figlie e le nutre con cibo per cani appartiene al medioevo contadino. Guasta l’immagine del Rinascimento come muffa che rovina le dorature, come lo sporco sotto il tappeto di una civiltà che si dice raffinata. Allo stesso modo, i briganti e i contadini incarogniti dalla miseria hanno sciupato il bel quadro di austere barbe dei padri della patria. Poi, alla fine del Novecento, arriveranno i “killer dei treni” come Donato Bilancia e i massacratori di prostitute che infestano le cronache nere.

ragazzini e fucilerie di stato

Come bambini maltrattati che diventano adulti violenti, gli assassini che agiscono per avidità, vendetta e arcaismi hanno introiettato una dura pedagogia da sudditi. Perché i briganti e i meridionali non sono le uniche vittime della mano pubblica: nel Regno d’Italia dove soltanto il due per cento della popolazione vota e l’80 per cento è analfabeta c’è piombo a volontà per tutti. Per i cittadini torinesi che nel 1864 scendono in piazza perché la capitale è stata trasferita a Firenze: 77 morti, tra loro molti ragazzini. Per chi protesta contro la tassa sul macinato: nel 1869 soltanto nel centro-nord vengono falciati dalla fucileria in 250. Per i milanesi insorti perché il prezzo del pane va alle stelle e affrontati dal generale Fiorenzo Bava Beccaris: 11 mila proiettili esplosi, cannoneggiati persino i conventi che scodellano la zuppa agli affamati, il conteggio finale della macelleria registra 83 uccisi e 502 feriti.

Caccia al rosso

Si spara nel mucchio, lo si farà sin quasi alla fine del Novecento: i militari insofferenti ai “mezzi legali”, alle leggi e alle procedure ordinarie sono, ci si passi la semplificazione, il fascismo prima del fascismo, e la violenza pubblica in Italia è il marchio di Caino di una democrazia fragile. Che dubita spesso di se stessa e viene messa in discussione, ogni venti-trent’anni, dall’alto e dal basso. Dall’alto con colpi di mano e colpi di stato tentati o riusciti. Dal basso con jacquerie, sommosse e voglie di rivoluzione. Accade per tutto l’Ottocento con gli stati d’assedio. Nel 1922 con la marcia su Roma che porta al potere il fascismo, dopo anni di militanti di sinistra assassinati e di sedi di giornali, cooperative e sindacati date alle fiamme: soltanto a Torino, ma l’elenco sarebbe lunghissimo, la “caccia al rosso” guidata dallo squadrista Piero Brandimarte fa 15 morti e 26 feriti, scuoiati o evirati o sgozzati. Nel 1943-45 con la caduta del fascismo, l’invasione tedesca, la Resistenza e la guerra civile: 44.700 partigiani caduti in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti, 23.669 vittime delle stragi naziste, dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema.

In piazza della Loggia a Brescia una bomba neofascista uccise 9 persone e ne ferì 102, il 28 maggio 1974

il terrorismo nero

Dal 1969 al 1980 con la “strategia della tensione” e le sue stragi, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, dal treno Italicus alla Stazione di Bologna: centinaia di vittime civili per seminare il terrore e propiziare un “ritorno all’ordine” che sbarri la strada alla sinistra, mandanti i servizi segreti e gli Affari Riservati del Viminale nel clima teso della guerra fredda, esecutori i neofascisti reclutati all’uopo. E, accanto al terrorismo nero delle stragi, il terrorismo rosso che tra il 1974 e la fine degli anni ’80 fa un centinaio di vittime.

da sindona all’olgiata

Riassumere stanca, e gli elenchi rischiano di risultare indigesti: ma è proprio questa contabilità agghiacciante, questo fiume di sangue italiano e di morti che il più delle volte non hanno ottenuto giustizia, a dare il senso di una ferocia endemica e quotidiana, di un filo rosso che lega una storia tragica dove tutto si tiene e tutto si confonde: criminali comuni che si politicizzano; terroristi che si finanziano con le rapine; la criminalità organizzata più longeva, feroce e pervasiva d’Europa (mafia, camorra, ’ndrangheta: e a tacere del resto, le guerre interne di camorra e mafia negli anni Settanta e Ottanta fanno almeno cinquemila morti) spesso contigua o al servizio del potere politico, prossima all’eversione neofascista e infiltrata dagli spioni; banchieri come il “salvatore della lira” Michele Sindona e come Roberto Calvi che gestiscono miliardi mafiosi e vaticani prima di venire eliminati; l’industria dei sequestri di persona che fra gli anni Sessanta e gli Ottanta del Novecento registra un fatturato di 800 miliardi di lire; i servizi segreti che fanno capolino anche nei “delitti privati”, come avviene nel caso Fenaroli-Ghiani, nel delitto dell’Olgiata, in via Poma e nel caso Marta Russo. C’è da avere le vertigini.

Nel Paese dall’ammazzatina facile non squartano solo le plebi rurali, ma anche i buoni borghesi

Gaetano Bresci uccide re Umberto I a Monza, il 29 luglio 1900

“ucciso il re/ con palle tre”

In questo paese di bonarietà soltanto apparente, dove lo scontro politico raggiunge non di rado temperature da altoforno, abbiamo un elenco di “cadaveri eccellenti” che non ha nulla da invidiare agli Stati Uniti. E se loro hanno avuto Lincoln, i Kennedy e Martin Luther King, di recente Trump scampato a un cecchino, noi abbiamo avuto il giornalista Raffaele Sonzogno fatto eliminare (1875) per le sue denunce sul sacco edilizio di Roma; il radicale Felice Cavallotti trafitto in duello da un deputato conservatore (1898); Umberto I abbattuto dall’anarchico Gaetano Bresci nel 1900 (“Alla stazione di Monza/ c’è un treno che ronza/ hanno ucciso il re/ con palle tre”); Giacomo Matteotti e i fratelli Carlo e Nello Rosselli assassinati dal fascismo nel 1924 e nel 1937; Benito Mussolini fucilato dai partigiani nel 1945; Aldo Moro soppresso dai brigatisti nel 1978, al culmine degli anni di piombo. Piersanti Mattarella e Pio La Torre ammazzati dalla mafia come Ambrosoli, il generale Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino e decine d’altri fra il 1969 e il 1992.

la conta nel tempo

A lungo, in Italia si ammazza più che altrove. Scrive Giordano Bruno Guerri: “Nel decennio 1891-1900, con una popolazione che era metà di quella attuale, gli omicidi volontari furono quasi quattromila all’anno (ventidue volte più che in Gran Bretagna, sei volte più che in Francia) contro i 1400 dei nostri ‘feroci’ anni Settanta. I ‘fatti di sangue’ fra il 1890 e il 1911 raggiunsero l’inammissibile cifra di due milioni. Alle voci ‘rapine, estorsioni e sequestri di persona’ abbiamo il 25 per cento più di oggi, e assai più erano i galeotti”. Soltanto alla fine del Novecento e nel nuovo millennio gli omicidi saranno, stabilmente, meno di mille, anche se l’allarme sociale e la richiesta ansiosa (e ansiogena) di sicurezza si impenneranno.

mogli kaputt, solo “disgrazie”

In questa Italia dall’ammazzatina facile non sparano, squartano e accoltellano soltanto le plebi rurali tenute ai margini, ma anche i buoni borghesi, gli ufficiali in libera uscita, gli aristocratici oziosi. Quando l’assassino è maschio le pene sono quasi sempre irrisorie. Il contabile Alberto Olivo, che nel 1903 uccide in uno scatto d’ira la moglie petulante e la fa a pezzi, è condannato soltanto per occultamento di cadavere a dodici giorni e 125 lire di multa. E nel 1925 il tenente di artiglieria Virgilio De Fabritiis, che ha giustiziato davanti alla Scala di Milano la moglie sospettata di infedeltà, è scagionato per infermità mentale. “Sono certo che la pubblica opinione esprimerà la propria soddisfazione per il verdetto, apprendendo che il fatto non è stato un crimine, ma una terribile disgrazia”, dichiara giulivo il magistrato che lo assolve.

La “mantide di Cairo Montenotte”, la “Circe della Versilia”, Patrizia Reggiani: una galleria di assassine

Patrizia Reggiani assolda dei sicari per assassinare il suo ex marito Maurizio Gucci

Incesti e Gattopardi

Fatti di gente perbene. A Bologna, nel 1902, il socialista Tullio Murri figlio del professor Augusto, luminare di clinica medica e libero pensatore, uccide il cognato Francesco Bonmartini che “rendeva infelice” la sorella Linda. Laici e clericali si scontrano, i giornali cattolici insinuano una relazione incestuosa tra i due fratelli. A Roma nel 1911, in un albergo a ore davanti alla Stazione Termini, la contessa Giulia Tasca di Trigona, dama di compagnia della regina Elena e zia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa autore del Gattopardo, è massacrata a coltellate dal giovane amante e mantenuto Vincenzo Paternò barone di Cugno. L’ultimo soprassalto di ferocia aristocratica avviene nel 1970, quando il marchese Camillo Casati Stampa, che da dieci anni fotografa la moglie Anna Fallarino mentre fa l’amore con giovanotti prezzolati, la uccide assieme all’amante di turno di cui la donna si è innamorata.

donne che odiano gli uomini

Intanto, tra mariti che fanno fuori le mogli per avere il loro spicciativo “divorzio all’italiana” – il divorzio, quello vero, arriva soltanto nel 1970 – e amanti che sopprimono i consorti del loro oggetto del desiderio, viene alla ribalta una nuova razza cafona di donne che uccidono per impossessarsi del malloppo. Gigliola Guerinoni, la “mantide di Cairo Montenotte”, che nel 1987 elimina l’amante farmacista Cesare Brin a martellate dopo avergli svuotato le tasche. Luigia Redoli la “Circe della Versilia” che nel 1989 assieme all’amante giovane ex carabiniere a cavallo fa fuori il marito usuraio e va in chiesa, al suo funerale, leopardata. Patrizia Reggiani che nel 1995 fa sopprimere l’ex marito Maurizio Gucci per cupidigia e per vendetta. Per niente pentita, sconta diciott’anni a San Vittore e, scarcerata, ha un solo rimpianto: fosse stata capace di sparare, al marito avrebbe provveduto lei invece di affidarsi a una banda di balordi.

tutto in famiglia

Nell’inferno delle famiglie, i parricidi e i matricidi riprendono quota. Ma se un tempo erano la rivolta estrema contro il padre padrone che governava a bastonate e stupri, adesso il movente è l’avidità. La diciottenne Doretta Graneris nel 1975 a Vercelli stermina i suoi assieme al fidanzato e non ha rimorsi: “Ma sì, ma sì… Avevamo bisogno di soldi, sapevo che i miei avevano milioni, oro, gioielli”. Il diciannovenne Pietro Maso nel 1991 sopprime, nel veronese, padre e madre per fare la bella vita: frequentare i ristoranti dove vanno i vip come Jerry Calà, dice.

yara, cogne e dirette tv

È arrivato il nuovo millennio, i delitti sono calati – erano 746 nel 2000, saranno 285 nel 2023 – e vengono dati in pasto all’infotainment televisivo, come è accaduto di recente con la docuserie Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio di Netflix, che ha alimentato le tesi innocentiste suscitando un torrentello di polemiche. I nuovi omicidi restano comunque difficili da decifrare. Perché due adolescenti che hanno tutto, Erika e Omar, nel 2001 uccidono la madre e il fratellino di lei? Perché una madre premurosa e sollecita come Anna Maria Franzoni uccide il figlio di tre anni nel 2002? Perché due trentenni della buona borghesia romana, Manuel Foffo e Marco Prato, nel 2016 torturano a morte un ventenne per il puro gusto di uccidere? I delitti sono calati, ma metà delle vittime restano donne: tremila dal 2000 al 2018, il 37,1 per cento degli omicidi. Cultura del patriarcato, del possesso, dello stupro. Un passato che non passa, un medioevo contemporaneo che non riguarda soltanto gli emarginati, ma i maschi di ogni ceto sociale. Italiani, brava gente?

Dal massacro di Bronte a Willy Monteiro
Con uno sforzo enciclopedico, Roberto Casalini ricostruisce i più importanti delitti che hanno segnato le nostre cronache dall’Unità d’Italia a oggi. In Sangue Italiano (Neri Pozza, 320 pagg., 20 euro) ci sono i casi di nera che hanno fatto epoca e quelli dimenticati, ma anche i delitti del potere, dalle cannonate di Bava Beccaris al G8 di Genova. Con un inquadramento storico e sociale che, in ogni storia, porta il lettore ben oltre il feticismo del “giallo”.

L’eroe dei due mondi, l’Apostolo del Risorgimento, il Grande Tessitore, il Re Galantuomo. Il Ministro della Malavita no, quello sarebbe arrivato più tardi e nei nostri libri di testo non c’era, almeno non così. A lungo, la storia patria che ci hanno insegnato è stata un accrocco di figurine del presepio immacolate e aureolate di […]

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