Le mafie non sparano più? Di certo non vale nel Gargano
Reportage

Le mafie non sparano più? Di certo non vale nel Gargano

Gli omicidi, le faide e gli affari dei clan foggiani sono stati messi a verbale dal boss pentito Marco Raduano. E l'impunità comincia a vacillare

di Andrea Tundo, foto di Alfredo Bosco

Carcere de L’Aquila , 20 marzo di quest’anno. Sono passati 47 giorni dalla fine della sua latitanza, terminata nel ristorante U Spurtinu di Aléria, vicino a Bastia, in Corsica, dopo quasi un anno da fuggiasco tra l’isola francese e la Sardegna. Lì aveva fatto perdere le sue tracce calandosi con le lenzuola dalle mura di cinta del carcere di massima sicurezza di Badu ’e Carros, a Nuoro. Marco Raduano è stato il primo a violarle con il più vecchio degli stratagemmi, ma quando gli uomini dei Ros, guidati dal colonnello Lucio Arcidiacono, lo hanno fermato, il boss di Vieste, inserito nella lista Europol dei tre ricercati italiani più pericolosi in quel momento, ci ha messo poco a capire che la sua carriera mafiosa era finita per sempre.

Marco Raduano, 41 anni, boss di Vieste (Foggia), oggi collaboratore di giustizia

Sono le 16.24, accanto ha la sua avvocata, Rosa Pandalone, e siede di fronte al pubblico ministero della Dda di Bari Ettore Cardinali. Il magistrato non ci gira intorno: “Quali sono le ragioni per cui ha deciso di collaborare con la giustizia?”, chiede. “Per dare un futuro a mio figlio, per cambiare vita e anche perché sono stato vittima di diversi tentativi di omicidio, perché vorrei condurre una vita da normale cittadino e perché sono pentito e dispiaciuto per quello che ho fatto. Ho commesso direttamente cinque o sei omicidi, ma sono coinvolto in più di dieci. Sono tutti omicidi di mafia”, risponde tutto d’un fiato Raduano, soprannominato Pallone, prima di iniziare a ricostruire nei dettagli la guerra di mafia che ha insanguinato il Gargano tra il 2015 e il 2019. Un Far West nel quale si sono contate dodici persone assassinate, molte delle quali under 30, sei scampate ai killer e una lupara bianca in un paese di neanche 14 mila abitanti. Una battaglia tra famiglie malavitose per il controllo del territorio, dei traffici di droga e del settore ittico, sulla quale Raduano sta facendo luce da mesi.

In quattro anni e in un territorio limitato ci sono stati 12 omicidi, sei agguati falliti e una lupara bianca

Riannoda i fili, svela le alleanze che partono da Foggia, passano per San Severo e risalgono lungo le pendici del promontorio pugliese. Fornisce dettagli, svela i luoghi dei summit, identifica decine di volti e fornisce nomi che i magistrati antimafia non avevano tra le mani e nei verbali restano coperti da omissis. Anonimi con le settimane contate, ora che i pubblici ministeri possono fare affidamento sui racconti di un collaboratore di giustizia di spicco nel ramo più omertoso della mafia foggiana e garganica. Raduano è stato a lungo il luogotenente a Vieste del clan ex Romito, dalla morte di Mario Luciano, assassinato nella strage di San Marco in Lamis, retto dai Lombardi-Latorre, alleati con la batteria Moretti della Società foggiana. Dall’altra parte gli Iannoli-Perna, legati al clan Miucci, erede dei Li Bergolis, la famiglia più sanguinaria del Gargano che aprì una faida da decine morti nel dicembre 1978 per una vicenda di abigeato. Un furto di bestiame vendicato per decenni con i fucili fino allo sterminio dei Primosa-Alfieri. Quindi, in anni più recenti, la rottura dell’alleanza con i Romito, quando i Li Bergolis scoprirono le loro confidenze ai carabinieri. E giù un’altra guerra di mafia.

“Fino a qualche anno fa si pensava che fosse una mafia invincibile, oggi non più: lo Stato ha fatto squadra”

morti e affari

Di morto in morto, fino ai giorni nostri. Sono cambiate le convergenze, gli uomini, gli affari, ma non i metodi. Perché le mafie foggiane non hanno paura di fare rumore mentre riciclano i soldi in attività legali. È accaduto anche durante il regno di Raduano, anni 41, la primula rossa caduta in una fredda sera di Aléria mentre si preparava a sedersi a tavola con una donna senza sapere di essere ormai braccato dagli uomini del Reparto operativo speciale dei Carabinieri. “Ho ucciso Angelo Notarangelo”, ha confessato in aula a giugno accendendo una luce su un omicidio impunito che ha rappresentato l’inizio della faida di Vieste, nella quale il suo gruppo è stato contrapposto al clan Iannoli-Perna, fedelissimi di Miucci, nella diaspora seguita all’assassino di Cintaridd nel gennaio 2015.

I suoi verbali sono un viaggio nell’abisso. “Eravamo in guerra”, dice raccontando le azioni di fuoco alle quali ha preso parte. Una è datata 21 marzo 2017 e la ricostruisce, guarda il caso, esattamente sette anni dopo. “Omicidio Silvestri Giuseppe, cosa sa?”, chiede il pm Cardinali alla ricerca di una verità più ampia su un caso per il quale è già stato condannato all’ergastolo Matteo Lombardi. “L’abbiamo commesso io, (omissis) e Matteo Lombardi”, è l’autoaccusa di Raduano. All’alba del primo giorno di primavera di sette anni fa, sulle strade di Monte Sant’Angelo, Pallone c’era. Con Lombardi indossava “cappucci e sottocaschi”, mentre chi guidava il Rav 4 grigio aveva calato sul volto una “maschera in silicone”. Silvestri, detto l’Apicanese e “ritenuto tra i responsabili” del tentato omicidio di un loro affiliato, quel giorno è vivo solo perché da una settimana non lascia la sua abitazione all’orario previsto. Il commando ha già pianificato tutto da un mese. Attende solo il momento buono per colpirlo.

A fine luglio Vieste è piena di turisti. Il rivale è massacrato a tavola, mentre pranza con moglie e figlia

accecati dalla rabbia

La vittima parte a bordo di un furgone, il Rav 4 accende il motore e segue a distanza. Poi gli spari: “Quando ci avvicinammo, forse sentì il rumore, vide le luci e tentò di… diede una mezza sterzata e iniziò ad accelerare, però venne subito raggiunto dalle prime due fucilate”. Lombardi spara, ma l’arma si inceppa, così subito dopo è Raduano ad aprire il fuoco: “Secondo me hanno voluto farmi fare proprio a me personalmente l’azione di fuoco per… per arruolarmi, ecco! Posso usare questo termine qui. Perché da noi… voi sapete che da noi non si usano affiliazioni, gradi, queste cose qua, però la fiducia si conquista commettendo gli omicidi, restando a disposizione su questi fatti qua. Però se lui non lo aveva preso, lo avevo preso io al primo colpo perché… al primo colpo lui ha subito ceduto… gli era rimasto un po’ il piede sull’acceleratore, perché sentivamo il furgone a folle… vuuum vuuum… che accelerava”.

“Hanno voluto farmi fare personalmente l’azione per arruolarmi. Da noi la fiducia si conquista con gli omicidi”

Silvestri va finito: “Con molta tranquillità siamo scesi, io e (omissis) siamo andati dal lato dove lui era coricato… diciamo piegato sul sedile posteriore, e Lombardi ha sparato… ha aperto lo sportello, è rimasto quasi là, e abbiamo finito… abbiamo scaricato praticamente i caricatori, io avevo… non so… c’erano 4-5 colpi”. Lombardi “fece pure segno così, ‘basta sparare’, perché eravamo talmente accecati dalla rabbia che volevamo mettere pure altre cartucce dentro, comunque fece così, ci mettemmo in macchina e ce ne andammo”. Un uomo a bordo di una Panda vede, ma tace minacciato dal commando che poi abbandona l’auto nella boscaglia e prova a cancellare le tracce: “L’abbiamo occultata bene, l’abbiamo coperta con i rami, abbiamo scaricato l’estintore dentro e abbiamo buttato della candeggina su schienale, poggiatesta, cruscotto, maniglie e quant’altro”.

Quattro mesi dopo, il 27 luglio del 2017, fu assai più plateale l’omicidio di Omar Trotta: “Doveva essere ucciso, perché era una persona inserita nel gruppo Iannoli-Perna”. A processo per l’assassinio del giovane viestano, freddato nella sua bruschetteria in pieno centro all’ora di pranzo, ci sono Angelo Bonsanto, ritenuto l’autore materiale, e Gianluigi Troiano, braccio destro di Raduano arrestato a Granada poche ore prima del boss e in attesa di estradizione poiché la giustizia spagnola lo accusa di un omicidio avvenuto ad Alhendín nel novembre dello scorso anno.

Il coinvolgimento di entrambi nell’assassinio di Trotta è confermato da Raduano a verbale, nel quale ricostruisce la pianificazione e l’esecuzione del giovane, che nei mesi precedenti era stato avvicinato dai magistrati antimafia nella speranza che si convincesse a collaborare. Il nome del mandante è coperto da omissis: “Mi disse che avevano deciso di eliminare Trotta e che mi avrebbero inviato due persone a Vieste per compiere l’omicidio. Ho acconsentito all’azione – è la ricostruzione di Pallone –. Ci accordammo perché mandasse anche Antonio Quitadamo (oggi anche lui collaboratore di giustizia, nda) a Vieste per dare supporto ai killer”.

Il racconto è dettagliato: “Mi occupai di farmi dare da Gianluigi Troiano le foto di Trotta da far vedere ai killer; anche lui sapeva dell’omicidio. Lo rintracciai nel pomeriggio, lo portai dove stavano i killer; Bonsanto prese le foto”. Poi “si fece sera” e Antonio Fabbiano, caduto anche lui nella guerra di Vieste nell’aprile 2018, “si fece carico di mostrare a Bonsanto il percorso e il ristorante di Trotta; gli mostrò anche da quale porta sarebbe dovuto entrare, ovvero quella posteriore, perché sapevamo dove mangiava”. Il locale, L’antica bruschetta, era gestito da Trotta e aveva un impianto di videosorveglianza: “Ma i killer non si erano posti il problema”.

Il gruppo di fuoco memorizza la strada, riceve un cellulare criptato, le armi e un T-Max per arrivare sul posto. Il giorno dopo è tutto pronto. “Troiano doveva avvisarci di quando Trotta fosse stato a tavola. Lui ci aveva già detto che avrebbe preso da mangiare, da asporto, e ci avrebbe mandato il messaggio”. I killer partono dalla masseria dove il gruppo ha il suo covo attorno alle 12.30 e attendono il via libera in località Petto, a una manciata di minuti di scooter dal locale. Hanno in mano una 9×21 e una calibro 38: “Noi avevamo a disposizione due armi semiautomatiche, ma Bonsanto voleva una pistola a tamburo per scongiurare pericoli di inceppamento”.

Al segnale concordato, entrano in azione: arrivano in via Cesare Battisti, fanno irruzione dalla porta posteriore, svuotano i caricatori addosso a Trotta e fuggono. Dura tutto pochi istanti. È una giornata di fine luglio, Vieste è già invasa dai turisti, ma a qualche centinaio di metri dal mare si consuma uno dei delitti più spietati di questa faida. La vittima stramazza sul tavolo davanti agli occhi di moglie e figlia. Nel frattempo Raduano è seduto in un bel locale nel porto turistico del paese e vuole farsi notare: “Mi sono preoccupato di procurarmi un alibi e quindi sono andato a mangiare in un ristorante munito di telecamere e dove i carabinieri prendevano da mangiare per la caserma. Ho temporeggiato al ristorante Il Capriccio fino a quando non ho appreso dell’omicidio tramite i social. Erano circa le 14.20 e sono andato via”.

senza fiato

Undici mesi più tardi e diversi morti dopo, Raduano torna in azione personalmente. Deve vendicare in prima persona un agguato subito. Il 21 marzo 2018, ancora la primavera che ritorna, il boss di Vieste viene colpito mentre rincasa. A fare fuoco sono i cugini Claudio e Giovanni Iannoli, condannati per il tentato omicidio. Quella notte però non sono soli. Con loro c’è Gianmarco Pecorelli, un ragazzo di 22 anni. Raduano decide di lavare con il sangue quell’affronto e imbraccia un fucile. Tre mesi dopo la sera in cui solo il buio e le armi inceppate gli hanno permesso di sopravvivere, il boss ammazza il ventiduenne. Pecorelli è su uno scooter insieme a un’altra persona quando viene speronato dall’auto con a bordo Raduano. I due vengono inseguiti e colpiti, cadono nei prati e provano a nascondersi tra la vegetazione. “Lo trovammo là, che era ancora vivo”, racconta il boss. Ha ferite all’addome e al collo, è già agonizzante, ma Raduano ha un conto aperto: “Prima di finirlo, mi sono fatto dire chi erano i componenti e lui mi ha confessato, diciamo con un po’ di difficoltà perché era sparato e quindi non aveva fiato abbastanza, però mi confermò che fu lui, Claudio Iannoli e Giovanni Iannoli”. Poi, boom, il colpo di grazia alla testa.

È andata così decine di volte tra la baia di Mattinata, Vieste, Monte Sant’Angelo. “Un’area dove controlliamo centinaia di ettari”, ha recentemente confessato il boss spiegando come gli affari della mafia garganica spazino dalle rapine ai portavalori in sinergia con le bande di Cerignola, passando per le mucche, la torrefazione, il settore ittico, la droga e le estorsioni ovviamente, e finiscano dentro le concessionarie di auto e nella gestione dei parcheggi. Ha svelato come alcuni gruppi abbiano interessi fuori regione, anche in Lombardia, dove hanno investito nel mattone e le figure apicali dispongono di appartamenti utili a cambiare aria quando c’è odore di blitz.

Una mafia «raffinata», la chiama il procuratore capo di Bari Roberto Rossi: «Usa la violenza in maniera strutturale, anche quando è sotto i riflettori, ma allo stesso tempo è riuscita a diventare referente in Italia per i clan albanesi che esportano la droga. Oltretutto, sa come investire in attività pulite e coltiva interessi e legami anche in Francia e Spagna. Sono una mafia bifronte», spiega a Fq MillenniuM. E anche se c’è ancora molto da lavorare e da scoprire, Rossi ha una consapevolezza: «Fino a qualche anno fa si pensava fosse una mafia invincibile. Oggi siamo certi che non sia più così grazie al lavoro instancabile della Squadra Stato: la sinergia delle prefetture con le interdittive, degli investigatori con i loro accertamenti sul campo e della magistratura, con enormi sacrifici a causa delle scoperture in organico, è riuscita a smembrare diversi clan».

fine dell’impunità?

Nei mafiosi si è fatta strada «l’idea della sconfitta», dice il procuratore di Bari, ed è stata la chiave per rompere l’omertà che durava decenni. Gli oltre 300 omicidi compiuti dal 1980 a oggi, fino a qualche anno fa, avevano un tasso di impunità vicino all’80 per cento, poi di recente sono arrivati i pentimenti. Oltre a Raduano, si contano altri sei membri del clan ex Romito che stanno “cantando” e altri sette nella Società Foggiana, dove la decisione di collaborare del killer Patrizio Villani sta aprendo uno squarcio su alcuni delitti irrisolti e la “girata” dei fratelli Francavilla rischia di far tremare diversi ambienti della città.

Giuseppe Francavilla, una delle figure più carismatiche della batteria che porta il nome di famiglia ed è alleata con i Sinesi, sta infatti raccontando anche dei legami con l’imprenditoria foggiana. «Il pentimento del pesce piccolo è figlio della necessità di salvare se stessi – ragiona Rossi – Mentre il pentimento dei boss matura quando si comprende la sconfitta». Stritolate da sentenze su sentenze che hanno inflitto centinaia di anni di carcere a decine di affiliati, le mafie garganica e foggiana sono quasi in ginocchio. Così come si è ritrovato Raduano la sera del primo febbraio ad Aléria, in quel ristorante di lusso, dove era arrivato su un’auto di grossa cilindrata. In forma, barba curata, un documento falso a coprirne l’identità, non ha opposto resistenza agli uomini del Ros che gli stavano addosso da giorni. Ad aiutarli ci sarebbe stata anche la soffiata di un pentito: c’est la vie, dicono lì dove si nascondeva facendosi arrivare fiumi di denaro dai suoi sodali.

Nei minuti successivi è crollato tutto: ha chiesto di poter telefonare alla moglie e al figlio, quindi ha subito confidato alla polizia giudiziaria di voler parlare con i magistrati. “Mi chiamo Marco Raduano, ho 41 anni e ho deciso di collaborare”, ha ripetuto lo scorso 20 marzo ristretto al 41 bis nel carcere de L’Aquila. L’epitaffio sulla carriera mafiosa dell’inafferrabile Pallone.

Carcere de L’Aquila , 20 marzo di quest’anno. Sono passati 47 giorni dalla fine della sua latitanza, terminata nel ristorante U Spurtinu di Aléria, vicino a Bastia, in Corsica, dopo quasi un anno da fuggiasco tra l’isola francese e la Sardegna. Lì aveva fatto perdere le sue tracce calandosi con le lenzuola dalle mura di […]

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