La Bruges che visito in occasione della Triennale dell’Architettura è assai diversa dalla Bruges la morta, lo splendido racconto decadente-simbolista che ha ispirato l’Hitchcock di Vertigo (in Italia La donna che visse due volte) o scrittori del calibro di Sebald. Niente di malinconico, cupo, nostalgico, niente città scelta per l’elaborazione di un tragico lutto. In giornate di una luminosa estate la città fiamminga è splendida, gaia, piena di turisti, ma anche di giovani, studenti, abitanti che godono la realtà di un miracolo architettonico e conservativo che ci riporta all’epoca del raffinato regno di Borgogna.
La città, da alcuni anni sito Unesco, si arricchisce fino all’inizio di settembre dei lavori di 12 architetti provenienti da tutto il mondo per una Triennale giunta alla sua quarta edizione. Tra i progetti, tutti assai intriganti e singolarmente creativi, sono rimasto affascinato da quello realizzato dall’olandese Studio Ossidiana, che ha sede a Rotterdam ed è però formato da due giovanissimi architetti italiani, Giovanni Bellotti e Alessandra Covini.
Quando li incontro la prima domanda è il perché della scelta del nome del loro studio. L’ossidiana è “roccia eruttiva, effusiva costituita quasi esclusivamente da una pasta vetrosa”, spiega la Treccani. Di origine vulcanica, si trova in Europa soltanto in Islanda o in Sicilia. Voi siete cresciuti nelle terre padane e lavorate in una delle zone più pianeggianti del continente. «È vero. Il nostro punto di riferimento, il nostro orizzonte naturale, è indubbiamente la pianura, una realtà alla quale dedichiamo un’attenzione particolare sia nella progettazione sia nella realizzazione dei nostri lavori. Ma la ragion d’essere del nostro studio, del nostro laboratorio permanente, è un lavoro e un’analisi costante sui materiali, sulle sue origini, sulla loro diffusione, il loro ingresso e la loro evoluzione nel panorama antropico, storico e attuale. L’ossidiana è usata dall’uomo fin dal Neolitico».
Giovanni Bellotti e Alessandra Covini lavorano in Olanda: «Qui poche gerarchie»
Giovanni è figlio di medici. «Pediatra mia madre, occupato nel campo della biochimica mio padre». Alessandra è figlia di un ingegnere elettronico – «Anche inventore» aggiunge – e di un’insegnante. Nessun architetto tra gli avi. Una passione spontanea, possiamo dire. Alessandra (classe 1988) studia a Milano e Lisbona, Giovanni (1987) a Venezia con un postgraduate al Mit di Boston, l’incontro avviene a Delft. La città, che si raggiunge dall’Aia con un tram, è celeberrima per la Veduta di Delft di Jan Vermeer, uno dei quadri più belli e influenti dell’arte europea, ma è anche un importante polo universitario.
«Ci siamo incontrati alla University of Technology, e ci siamo messi insieme nella vita e nel lavoro». Oggi lo studio ha sede a Rotterdam. Perché siete rimasti in Olanda? «Ci sono diversi motivi. Innanzitutto l’università di Delft è la scuola dove ha insegnato negli ultimi anni Aldo van Eyck (il grande architetto olandese, morto nel 1999, fondatore della scuola strutturalista, nda). L’insegnamento è ancora fortemente influenzato dalle sue teorie. Ci siamo trovati in un’atmosfera estremamente congeniale alla nostra ricerca. Poi in Olanda c’è un approccio molto meno gerarchizzato che in Italia. Se hai bisogno di incontrare il preside o accedere a livelli che in Italia sarebbe molto complicato raggiungere, qui non hai molti problemi. C’è un’enorme disponibilità ad ascoltare, a collaborare. A tutti i livelli. Poi molto importante per noi è stato vincere il Dutch Prix de Rome nel 2018. Avevamo già un piccolo studio dal 2015 e il premio ci ha consentito di sviluppare la nostra struttura e i nostri progetti». Oggi, sebbene giovanissimi, Bellotti e Covini possono vantare la presenza alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2021 e 2023, e la partecipazione alle Biennali di Istanbul, Chicago, Schenzhen. Nel 2022 hanno realizzato il padiglione olandese per la XXIII Triennale di Milano.
«Abbiamo scelto strati di materiale organico combinati con minerali diversi»
Qual è il rapporto, o il confine, tra arte e architettura? Si guardano, come a dire rispondi tu, lo faccio io? Poi, quasi all’unisono: «Il confine tra arte e architettura è difficile da stabilire. La nostra è una ricerca artistica, che comunque ha a che fare con contratti, rapporto con i clienti, diritti di proprietà. Nel nostro caso ci pare che parlare di lavoro artistico abbia una sua coerenza. Nel senso che c’è nei nostri manufatti un’indiscussa autorialità. Ma preferiamo parlare di laboratorio. Oggi il lavoro di architetti è quello tradizionale, naturalmente, ma è anche un’officina permanente. A proposito del nome che ci siamo dati, Ossidiana, parlavamo di materiali. La nostra indagine in questo senso è parte integrante del progetto. E non solo del nostro. Molti dei committenti ci chiedono di lavorare con loro nella ricerca dell’utilizzo o dello sviluppo di nuovi materiali. O di vecchi materiali da utilizzare in un modo diverso. Una delle nostre prime indagini ha riguardato il terrazzo, quello che tutti conoscono come il pavimento alla veneziana. Tradizionalmente composto di terra, cemento, materiali di risulta, abbiamo cercato di trasformarlo usando anche altri materiali che avevamo a disposizione. In Olanda per esempio, sabbia, conchiglie… Un percorso di vera e propria Geo-grafia».
È quello che hanno fatto a Bruges. Una struttura, il titolo è Earth Sea Pavillon, alta sei metri e collocata in uno dei luoghi storici più suggestivi di Bruges, il cortile della Hof Bladelin, un edificio monastico che nel XVI secolo ha ospitato la prima sede della banca della famiglia Medici nelle Fiandre.
Non c’è identità senza architettura
«Il padiglione l’abbiamo pensato come un opus incertum, nelle cui mura abbiamo inserito semi, spazi per attirare uccelli, un luogo che richiami la vita. Per crearlo abbiamo scelto strati di materiale organico che si combinassero con minerali diversi, foglie raccolte durante l’autunno, sabbia del Mare del Nord, conchiglie, muschio, carbone vegetale… Il tutto a formare un tempietto, forse anche pensando a Bramante». C’è sempre molta Italia nei progetti dei due architetti. E molta narrazione. Alcune realizzazioni fanno pensare a vere e proprie opere di land art. E c’è molto “gioco”, anche nell’uso dei colori e nella fruibilità delle opere.
«Il primo lavoro che abbiamo fatto è stato un parco giochi. Un lavoro importante è stato quello al Librino, un quartiere di Catania difficile e degradato. Abbiamo realizzato un gioco, una casa tappeto che interpreta il desiderio collettivo di ombra, protezione e leggerezza. Si tratta di un padiglione mobile e temporaneo immaginato anche come strumento pedagogico. I giochi se affrontati seriamente possono portare a diventare adulti… L’abbiamo fatto con l’associazione Thalita Kum e con l’aiuto dell’artista italo-libica Adelita Husni-Bey. Speriamo di potere intervenire ancora e che rimanga un progetto in progress».
Allora Olanda e un pizzico di Italia. «Per ora va bene così. Il nostro luogo di lavoro è Rotterdam. L’Olanda in questi ultimi anni è peggiorata. Non è più quel paradiso di tolleranza che era qualche decennio fa. Ma l’accesso alle cose, alle persone rimane quello di un paese molto vivibile. L’Olanda la capiamo e i nostri amici olandesi ci capiscono». E in Italia? «A Cremona, nella cascina di famiglia di Giovanni, stiamo portando disegni, bozzetti, modelli, i lavori di quasi dieci anni di attività. Ne vorremmo fare un laboratorio, un’installazione, una piattaforma, insomma qualcosa che ha a che fare con noi».
La Bruges che visito in occasione della Triennale dell’Architettura è assai diversa dalla Bruges la morta, lo splendido racconto decadente-simbolista che ha ispirato l’Hitchcock di Vertigo (in Italia La donna che visse due volte) o scrittori del calibro di Sebald. Niente di malinconico, cupo, nostalgico, niente città scelta per l’elaborazione di un tragico lutto. In […]