Campagne di fake news e  colpi di stato. Così gli Usa e la United Fruit spazzavano il cortile di casa
Inchieste

Campagne di fake news e colpi di stato. Così gli Usa e la United Fruit spazzavano il cortile di casa

Nel 1904 uno scrittore-avventuriero inventa l’espressione “Repubblica delle banane”. In America Latina segnerà un’epoca. Raccontata dai grandi scrittori, da Galeano a Vargas Llosa

di Gabriella Saba

C’è stato un tempo in cui l’immagine animata della banana con la testa umana, il gonnellino a ruota da cui sbucavano sottili gambe di ragazza era così diffusa e popolare da far parte della vita della gente: entrava via tv nelle case degli americani per insegnare loro le virtù della banana e il modo in cui mangiarla e conservarla. Il fatto è che Miss Chiquita, il nome con cui la battezzarono in quel secondo dopoguerra, simboleggiava la banana che all’epoca era però soltanto quella della United Fruit, la compagnia statunitense monopolista nella produzione di quel frutto in America Centrale ed esportato in tutto il mondo. Questo da quando la Ufco (United Fruit Company) era nata, nel 1899, dalla fusione della Boston Fruit Company del nordamericano Andrew W. Preston con la Tropical Trading and Transport Company di Minor Keith, l’antesignano del commercio di banane. Nel 1986 il fumettista Oscar Grillo, ideatore della \, diede la svolta all’immagine del brand trasformandola in una signorina con un viso esotico come quello delle donne delle terre in cui quei frutti venivano prodotti: uno stereotipo, che conquistò la gente.

La Guerra fredda arriva ai Tropici

Ma cosa c’entra tutto questo con il soprannome di “repubbliche delle banane” che dai primi del Novecento i Paesi produttori si portano attaccati come una disgrazia? Quel nome nasce insieme al business, per diventare un’espressione di uso planetario a mano a mano che la banana da prodotto raro diventava un cibo usuale nelle tavole di Stati Uniti ed Europa. A muovere le fila del mercato era appunto la United Fruit, detta “El Pulpo”, il polipo, per come spinse i suoi tentacoli negli assetti dei Paesi e per il modo in cui riuscì a condizionarne le politiche arrivando a ribaltare i governi che ne ostacolavano le pratiche.

Per inciso, la United Fruit era tutta Usa: Minor Keith era di New York e il suo vero business in Centroamerica non era la frutta ma le ferrovie: costruì la prima del Costa Rica, dove non ne esistevano, e poi la utilizzò per trasportare le banane di cui quella terra era ricca. Anche Sam Zamurrey, che negli anni Cinquanta fu a capo della compagnia, era di New York, mentre erano di Washington i due fratelli John Foster e Alan Dulles, avvocati della United Fruit prima di diventare rispettivamente segretario di Stato del governo repubblicano di Dwight Eisenhower e direttore della Cia.

In ogni caso la United Fruit si trasformò presto in uno Stato nello Stato, o meglio negli Stati. Già negli anni Trenta le sue dimensioni erano impressionanti: più di un milione di ettari e 2.400 chilometri di ferrovie, oltre a novanta navi a vapore conosciute come la Grande Flotta Bianca. E anche se l’espressione republicas bananeras non era ancora popolare, aveva già il significato dispregiativo che le aveva dato il pregiudicato Sydney Porter, scrittore meglio noto come O. Henry, in un celebre racconto, L’Ammiraglio, che pubblicò nel 1904, qualche anno dopo il ritorno dall’Honduras, dove si era rifugiato per sfuggire al carcere negli Stati Uniti e in cui aveva assistito agli esordi del business bananero pieni di imbrogli e corruzione. Di un luogo immaginario, l’Anchuria, probabilmente ispirato all’Honduras, O. Henry scriveva: “A quei tempi avevamo trattati con quasi tutti i Paesi stranieri, eccetto il Belgio e questa repubblica delle banane, Anchuria”.

Ci volle però qualche altro decennio perché quel termine venisse usato nel senso di repubblica instabile, un posto tipico da Terzo Mondo in cui i governi cadevano come birilli per volontà di grandi potenze come gli Stati Uniti e al loro posto nascevano dittature da macchietta. Un esempio? Il Guatemala. Il golpe del 1954 che depose il presidente socialista Jacobo Árbenz, considerato dalla United Fruit e dunque dal governo Usa un nemico da rimuovere dopo che aveva attuato una riforma agraria che consegnava ai contadini le terre inutilizzate, comprese molte della compagnia.

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa ha scritto il romanzo Tempi duri su quel golpe e i suoi protagonisti, le cui storie romanzate sono inserite in un’accurata ricostruzione in cui racconta aspetti sconosciuti. Come la storia che per far fuori Árbenz scomodarono perfino un pubblicitario newyorkese, Edward Barneys, talmente abile che la sua campagna per convincere gli americani che in Guatemala era arrivato il comunismo e dunque i russi ebbe un successo manipolatorio clamoroso. Tanto che perfino giornali progressisti come il New York Times cominciarono a descrivere il povero Árbenz, un sincero democratico ammiratore degli Usa, come un nemico da abbattere. E lo abbatterono sobillando l’esercito e convincendone una parte a ribellarsi al presidente, e armando forze di liberazione che conquistarono Città del Guatemala.

In Guatemala il presidente Árbenz fu deposto e spacciato per comunista

La riforma agraria non s’ha da fare

Se c’è un esempio che riassume bene il significato di republica bananera è proprio quel colpo di Stato che terminò con l’esilio di Árbenz e l’insediamento del colonnello Carlos Castillo Armas che, su ordine degli Stati Uniti, cancellò le riforme del suo predecessore e riportò il Paese alle condizioni originarie in cui la giustizia sociale era un’eresia comunista. Eppure, la decadenza della United Fruit, carica di debiti, cominciò proprio in quegli anni. Nel 1975 il presidente Eli Black si suicidò buttandosi dal 44esimo piano del proprio ufficio a Manhattan e soltanto nel 1990 la Ufco risorse dalle proprie ceneri diventando Chiquita Brands International.

Oggi è la più importante distributrice di banane negli Stati Uniti anche se non è più la monopolista di un tempo, visto che negli anni sono nate altre aziende bananiere, non solo in Centroamerica, ma in Paesi come Colombia e soprattutto Ecuador: al momento il più grande esportatore al mondo, 6,9 milioni di tonnellate ogni anno che rappresentano il 34 per cento del commercio mondiale. È una republica bananera l’Ecuador, al di là del fatto che esporti banane? Lo sono il Guatemala e la Colombia, rispettivamente a settant’anni dal famoso golpe e a quasi cento dalla masacre de las bananeras in cui le forze militari assassinarono un numero mai accertato tra cento e duemila lavoratori dei 25 mila che erano entrati in sciopero nel novembre del 1928? Su quell’eccidio Gabriel García Márquez scrisse pagine famose del capolavoro Cent’anni di solitudine e lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano dedica gran parte del suo celebre Le vene aperte dell’America Latina proprio a quella United Fruit che condizionò i destini di tanti Paesi.

Nel suo Las republicas bananeras, l’ex firma del Guardian descrive la compagnia come la prima delle multinazionali moderne, mentre altri storici ne ricordano gli aspetti positivi come la modernizzazione: aprì scuole e ospedali per la cura di malaria e dengue, anche se a utilizzarli era la sola compagnia. I salari della United Fruit erano più alti della media, ma le condizioni del lavoro erano molto incerte.

Alcuni dei sindacalisti uccisi dall’esercito nel 1928 in Colombia su probabile pressione della United Fruit. L’episodio è raccontato in “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Gabriel García Márquez

2024: Chiquita è condannata in Florida per 8 omicidi

Ridimensionata la funzione della United Fruit e l’influenza degli Stati Uniti sull’America Latina che per molto tempo gli americani hanno considerato il proprio cortile di casa, si può parlare ancora di republicas bananeras? Per l’ambasciatore delle Nazioni Unite Stefano Gatto, di stanza ad Haiti dopo quattro anni in Guatemala, «si intende con quel termine un Paese che produca a condizioni di particolare competitività un prodotto che interessa il Nord del mondo, soprattutto caffé e banane». Alla domanda se il Guatemala lo sia ancora risponde che il Paese è uno dei più importanti produttori di banane al mondo, con una èlite molto conservatrice a condizionare i governi. «Gli imprenditori decidono tutto. Un ministro che si permetta di prendere una decisione contraria ai loro interessi è destinato a dimettersi dopo qualche minuto».

Gatto racconta che si stupiva molto nel leggere i giornali quando arrivò nel Paese. «Sembrava che gli autori degli articoli fossero convinti di vivere ancora in piena Guerra fredda». Ed è su quell’idea che prosperano ancora le bananeras: dove le tutele garantite ai lavoratori dagli accordi internazionali vengono quasi sempre disattese e gli attivisti sindacali sono visti come comunisti e perversi. Le ritorsioni vanno dal licenziamento all’omicidio. Dal 2004 al 2018 sono stati assassinati nel Paese 101 sindacalisti. «La polizia sdogana le indagini liquidando quei crimini come questioni di corna». Ma la qualifica di comunisti non riguarda solo i sindacati. «Per gli imprenditori più conservatori, la maggioranza, lo sono anche i diplomatici, perché sono conviniti che cerchino di interferire nei loro affari con pretese di leggi garantiste». E fa l’esempio della sua ex assistente che a Città del Guatemala non trova un appartamento perché nel condominio in cui vorrebbe vivere gira un regolamento che vieta di affittare al personale diplomatico perché “anti-guatemalteco”.

E oggi spuntano i legami con narcotrafficanti e politici

Un episodio come lo sciopero colombiano del 1928 può dare all’espressione un senso eroico? «Bisognerebbe ripensare alla parola “eroico”, risponde scettico a chi scrive lo scrittore e giornalista argentino Martín Caparrós. «Che ammazzino centinaia di persone e la situazione dopo quasi un secolo sia quasi la stessa non mi sembra un gran risultato». Nel suo ultimo libro Ñamerica, pubblicato in Italia da Einaudi, lo scrittore racconta il continente latinoamericano con reportage sul campo e si sofferma sulla condizione dei lavoratori nelle bananeras in Ecuador: persone come Ángel López, che dopo quarant’anni è stato licenziato quando si è ferito, senza che la compagnia gli pagasse nemmeno le spese sanitarie.

Sulle tutele di lavoro e sindacali, l’Ecuador è tra i Paesi più arretrati. A utilizzare quasi metà delle terre è il quattro per cento dei grandi proprietari, con regole che di solito contraddicono leggi internazionali e principi di equità. Più del 55 per cento dei dipendenti non ha contratto, un numero spropositato dato che a lavorare direttamente per le bananeras sono 200 mila persone e due milioni quelli che ci lavorano indirettamente. «Sarebbe illegale, ma le istituzioni che devono vigilare sul rispetto delle norme come sindaci e prefetti sono legate alle bananiere», ci spiega l’antropologa Anahi Macaroff. «Prenda i controlli degli ispettori del lavoro. Avvisano con largo anticipo i proprietari sulla data e quelli per quel giorno dicono ai dipendenti privi di contratto di restare a casa».

E poi c’è la persecuzione dei sindacalisti. Le imprese si passano una lista nera dei lavoratori “problematici” e per questi ultimi è impossibile essere assunti. «Nemmeno il presidente di sinistra Rafael Correa, a cui va il merito di aver abolito l’esternalizzazione del lavoro, aveva fatto niente per i sindacati, che ha addirittura proibiti ai lavoratori statali». Ma non è tutto. «Da due anni si è registrato nel Paese uno spaventoso aumento della violenza e un conseguente salto di qualità nelle ritorsioni sui sindacalisti. Dalle minacce e dal licenziamento si è passati agli atti di intimidazione come bombe lanciate contro la porta di casa, sequestri e perfino omicidi».

E poi c’è la collusione con il narcotraffico. Le confische di carichi di coca trovati in mezzo alle banane che navigano alla volta dei porti europei sono sempre più frequenti. Le republicas bananeras rischiano di evolvere in narcostati? Fonti della polizia assicurano che la maggior parte delle bananeras che si affacciano sulla costa colombiana atlantica pagano il pizzo al Clan del Golfo: il più importante cartello della droga del Paese, scampoli di truppe paramilitari che si erano rifiutati di accettare gli accordi di pace firmati nel 2004 dall’allora presidente Álvaro Uribe. Lo scandalo più grosso è però venuto fuori alla fine nel 2023 con la divulgazione delle chat crittate e oggetto di un’indagine riguardo a un carico di coca nascosto nelle navi della potente bananera Banacol che ha finanziato, tre le altre cose, la campagna alle presidenziali del 2022 del candidato di destra Federico Gutiérrez, attuale sindaco di Medellín.

Al direttore del Centro de Investigación Drogas y Derechos Humanos, Ricardo Soberon, non piace il termine republicas bananeras per indicare il colonialismo di epoche passate, ma fa qualche distinguo. «Bisogna ammettere che in qualche caso Washington mantiene pratiche politiche e diplomatiche contrarie al diritto internazionale moderno, come le sanzioni unilaterali. E sono da considerare un’intrusione anche la penetrazione di economie estrattive illecite e il loro impatto nelle zone andine». E la trasformazione in narcostati? «Il livello di avvicinamento tra narco economia e apparato statale risponde a necessità congiunturali del mercato internazionale che fornisce la cocaina alle società che la richiedono», è la sua opinione. «Il mercato internazionale della banana è funzionale allo sviluppo del narcotraffico». Nel giugno di quest’anno, un tribunale della Florida ha condannato la Chiquita Brands per l’omicidio di otto campesinos da parte dei paramilitari delle Autodefensa Unidas de Colombia tra il 1997 e il 2004: Chiquita li pagava per avere protezione. È una storia poco onorevole su cui paradossalmente la condanna è solo degli Stati Uniti. Nessun segnale dai tribunali colombiani.

In apertura il dittatore guatemalteco Carlos Castillo Armas incontra il vicepresidente degli Stati Uniti Richard Nixon nel febbraio 1955. Foto: Getty Images

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