Europa-costa rica-europa,  il triangolo delle banane
Reportage

Europa-costa rica-europa, il triangolo delle banane

L’Unione europea vieta pesticidi potenzialmente cancerogeni, ma le big company li esportano nei Paesi produttori

di Sara Manisera |foto di Marco Valle

Se non fosse verde, sembrerebbe una fabbrica chimica a cielo aperto abitata da cloni. Un’interminabile distesa di bananeti, della stessa varietà genetica – la Cavendish – con foglie larghe e odorose, si estende a perdita d’occhio, senza possibilità di distinguere dove finisce una finca e ne inizia un’altra. A interrompere questo paesaggio uniforme, una strada polverosa taglia in due la piantagione. Come un’arteria dell’apparato circolatorio, questa si ramifica in altrettante viuzze strette e tortuose, ciascuna sormontata da un’impalcatura di ferro a cui sono appesi pesanti caschi di banane, trainati a piedi da uomini da soma, imbracati con una cintura a un gancio metallico. Così appare nel 2024 una moderna piantagione della Costa Rica.

È una giornata limpida e umida di inizio marzo. Il movimento quotidiano di questa industria globale è scandito dal rombo ingombrante degli aerei agricoli e degli elicotteri. All’alba e al tramonto, dall’aeroporto di Bataan, decine di velivoli leggeri decollano con i serbatoi, carichi di agrochimici, pronti per essere irrorati sulle piante, come una pioggerellina viscosa. Siamo a Matina, capoluogo della provincia di Limón, sulla costa caraibica della Costa Rica, una delle principali regioni dove si concentra la coltivazione di banane esportate in tutto il mondo.

Pesticidi rilevati nel sangue di Lidieth e suo figlio:
‘Analisi iniziate mentre ero incinta, effetti terribili’

La giornata dei lavoratori coincide con quella degli aerei agricoli. I primi a cominciare il turno sono gli “erbicida” o “spray-boomer”. Quando il cielo albeggia, uomini smunti vestiti con tute bianche, escono di soppiatto dalle loro baracche in lamiera, con addosso una pompa a zaino, colma di un mix di erbicidi che sarà cosparso attorno ai rizomi per eliminare le erbe infestanti. È uno dei numerosi trattamenti applicati quotidianamente a mano dagli operai. Tra di loro, c’è Gérman Jiménez, 51 anni, costaricense e abitante della piantagione che appartiene alla finca Banana Dosmildos del gruppo Acon, considerata la più grande azienda nazionale produttrice di banano e ananas del Costa Rica.

Quando lo incontriamo, ha da poco finito il turno, iniziato alle 4.30. Si ritiene uno dei più fortunati perché lavora solo sette ore e guadagna 18 mila colones, circa 32 euro al giorno. Ha quattro figli minorenni, e vive in una casupola colorata in legno e lamiera, senza acqua potabile, né elettricità. È un uomo schivo, gli occhi gonfi e stanchi, ma non si lamenta né del lavoro, né del salario. È lui che ha chiesto di essere assegnato ai chimici, così vengono definiti, perché riceve una paga migliore rispetto ad altre mansioni. Tuttavia, ci tiene a sottolineare, in questi anni ha scritto diverse lettere di richiamo all’azienda per cui lavora, perché «gli aerei passano sempre sopra le nostre teste e ci bagnano di pesticidi». Mentre Jiménez si cambia gli abiti da lavoro, la moglie e la cognata, circondate da uno stuolo di bambini, cucinano platano fritto. Alcuni vicini curiosi si affacciano a conoscere i forestieri di passaggio. A guardarla da vicino, la vita nelle piantagioni è un microcosmo di contrasti stridenti, fatta di baracche in lamiera coperte da foglie di banane, recipienti sospesi che raccolgono acqua piovana, chiese pentecostali, negozietti con ogni tipo di mercanzia, piccole officine per riparare moto e biciclette. Al tempo stesso, la piantagione assume la forma di una catena di montaggio a cielo aperto, dove ogni pianta e operaio sono minuscoli ingranaggi inseriti in un meccanismo incessante e ripetitivo che li connette dal campo al mercato globale.

L’epidemiologa De Joode: ‘Se la Costa Rica si dovesse lamentare, le multinazionali dei pesticidi o della frutta andrebbero altrove’

I lavoratori come Jiménez sono incaricati di spruzzare gli agrochimici su ogni albero, poi ci sono quelli che ricoprono i caschi con sacchi di plastica blu impregnati di clorpirifos e altri insetticidi, per evitare che i frutti siano mangiati da parassiti, insetti e uccelli. Si muovono veloci, da pianta a pianta, con una scaletta in legno sulle spalle. La appoggiano sul fusto, salgono rapidi, coprono il casco e proseguono. Un’altra squadra è responsabile di tagliare le foglie, altri rimuovono i figli e poi c’è chi ripianta i baby-cloni per produrre nuove piante. A chiudere la filiera del campo sono i lavoratori agganciati a una carrucola, tramite una cintura stretta attorno all’addome. Il loro compito è quello di correre nella piantagione, trainando, come buoi, i caschi di banane pesanti anche 80 chili, ancora verdi e acerbi, fino all’impacchettatrice, la zona per la lavorazione, l’imballaggio e il trattamento del prodotto destinato all’esportazione. Qui la frutta è prima lavata con l’acido citrico o con un disinfettante per uccidere la cocciniglia, poi tagliata con un movimento ripetitivo, selezionata in base al calibro, messa in una camera di fumigazione per frenare la maturazione della corona e impacchettata per essere caricata sui container e spedita nei supermercati di tutto il mondo.

Qual è il beneficio per la comunità? Nessuno. Vedi, non abbiamo neanche una strada, la ricchezza va tutta fuori

costi umani e costi ambientali

Nel libro Le vene aperte dell’America Latina, Eduardo Galeano scrive: “Le banane che noi consumiamo nei paesi ricchi sono vendute a peso d’oro, ma il loro prezzo non include il costo umano e ambientale. Le piantagioni sono costruite sul sangue e sul sudore dei lavoratori, i quali sono trattati come merce e non come esseri umani”. Era il 1971 e cinquant’anni dopo poco è cambiato. Anzi. Oggi la banana è diventata una commodity globale, consumata da oltre 400 milioni di persone e venduta a un prezzo medio di un euro al chilo.

La Costa Rica è il terzo paese esportatore, dopo Ecuador e Filippine. Oltre il 50% della produzione – nel 2023 è stata di 2 milioni di tonnellate – è distribuito in Europa, in particolare in Paesi Bassi, Regno Unito, Italia e Germania, dalle principali aziende come Dole Food Company, Chiquita International e gruppo Acon. Per massimizzare la resa per ettaro e produrre frutta, senza difetti estetici, in grande quantità e a basso costo, le banane sono coltivate in monocultura, gestita da grandi aziende, attraverso pratiche agricole intensive. Questo include l’uso massiccio di fertilizzanti chimici e pesticidi, altamente tossici per la salute e in gran parte proibiti in Europa, che però continuano a essere esportati in Costa Rica dalle principali multinazionali dell’agrochimica, come Bayer, Basf e Syngenta. Gli impatti di questo modello di produzione, tuttavia, ricadono interamente sull’ambiente e sulle comunità locali.

Dole risponde ai reporter: ‘Ci impegnamo a indagare’.
In Germania Oxfam ha fatto un reclamo contro i supermercati Lidl e Aldi

Ne sa qualcosa Lidieth Gomez, madre single e una delle 451 donne che fa parte del programma di ricerca dell’Istituto centroamericano di studi delle sostanze tossiche dell’Università nazionale in Costa Rica (Iret-Una), uno studio epidemiologico sull’esposizione ai pesticidi, noto come programma Infantes y Salud Ambiental, Isa, che ha coinvolto da oltre 14 anni donne incinta e bambini. Il focus dello studio, realizzato attraverso l’analisi di urine, capelli e sangue, sono gli effetti dei pesticidi e di altri contaminanti ambientali, come piombo e manganese, sulla tiroide delle donne incinta e sullo sviluppo cerebrale dei feti.

Anche Lidieth, come Jimenéz e la sua famiglia, vive a Matina, in una palafitta di legno spoglia, appoggiata su terra battuta, ai margini della Finca Limofruit Sa, sempre del gruppo Acon. «Ero incinta del mio primo figlio quando hanno iniziato questo studio. Ho accettato immediatamente di farne parte perché, anche se lavoro come donna delle pulizie, so che questi chimici non fanno bene. Ogni volta che gli aerei passano, gli occhi iniziano a bruciarti e ti prudono le braccia. L’odore è terribile, spesso ti viene la nausea. Dicono che questi chimici servono per esportare la frutta, ma a noi fanno la doccia di pesticidi ogni mattina e sera».

Gèrman lavora in un bananeto, tuta bianca e spargi erbicidi in spalla: ‘Ogni mattina aerei pieni di agrochimici volano sulle nostre teste’

cancerogeni e neurotossici

Tra i pesticidi studiati e ritrovati nel sangue di donne e bambini, inclusa Lidieth e suo figlio Daniel, oggi quattordicenne, ci sono il Chlorothalonil e il Mancozeb, due fungicidi ampiamente usati nelle coltivazioni di banane, associati a potenziali effetti cancerogeni, gli organofosfati, come il Clorpirifos, noti per i loro effetti neurotossici soprattutto sui bambini, e i neonicotinoidi, un tipo di insetticida, con impatti negativi sullo sviluppo neurologico.

Alcuni di questi agrochimici come il Mancozeb, il Clorpirifos, il Chlorothalonil, l’Etoprofos, il Diquat, tra il 2018 e il 2021 sono stati vietati in Europa, ma continuano a essere prodotti ed esportati in altri Paesi per coltivare frutta standardizzata. “Standardizzata” significa esteticamente piacevole e tutta uguale come la vuole il mercato, la sola che le grandi aziende come Dole Food Company, Chiquita International e il gruppo Acon comprano, esportano e vendono in tutto il mondo, inclusi nei principali supermercati europei.

«Non è giusto che nei Paesi più poveri si comprometta la salute della maggior parte delle persone, dell’ecosistema acquatico, dei microrganismi e dei suoli per permettere a pochi di continuare il loro business», dice Fernando Ramirez Muñoz, ricercatore dell’Istituto di studi sulle sostanze tossiche, in Costa Rica. Secondo Ramirez Muñoz, si tratta di un vero e proprio “colonialismo chimico”: «Il chlorpyrifos o il mancozeb sono stati vietati nell’Unione europea grazie a fatti, studi scientifici e ricerche comprovate, ma sembra che questi fatti non si applichino ai Paesi a basso reddito».

Per Berendina Van Wendel De Joode, epidemiologa ambientale e coordinatrice del programma Isa sulle donne e i bambini, c’è un’evidente responsabilità del sistema agroindustriale e un doppio standard. «Da decenni lavoriamo sui pesticidi e abbiamo ormai prodotto tantissima informazione scientifica. Ma i bambini e più in generale i cittadini della Costa Rica non hanno lo stesso valore di quelli europei. Se la Costa Rica si dovesse lamentare, le multinazionali dei pesticidi o della frutta si sposterebbero altrove».

bambini e maestre in ospedale

A pagare il prezzo di questo sistema che permette a poche aziende di moltiplicare i profitti sono i lavoratori e le persone che vivono accanto alle grandi distese di banana o ananas, spesso bambini. Il 23 giugno 2023, gli alunni e le insegnanti della scuola elementare Ida La Victoria iniziano a sentire un miasma nauseante, a metà tra l’odore di carburante e un composto chimico. La scuola si trova nel cantone di Río Cuarto, nella provincia di Alajuela, circondata da vaste distese di piantagioni di ananas e banane. «Me lo ricordo bene quel giorno, è stato terribile. Abbiamo applicato il protocollo e fatto uscire i bambini, ma l’aria fuori era peggiore di quella all’interno. Dopo una manciata di minuti, quasi tutti i bambini hanno iniziato a iperventilare», spiega Rosalyn Sibaja Gomez, la preside. Dai documenti dell’Iret e del ministero della Salute, che abbiamo ottenuto e visionato, risulta che gran parte degli agrochimici ritrovati nella scuola sono vietati in Europa. Tra questi compaiono l’ametrina, il diazinon, il clorpirifos, l’oxifluorfen, il terbufos, il cadusafos.

Dopo poche settimane, il 4 agosto 2023, l’episodio si ripete, nella stessa scuola, ma con sostanze sparse da un’altra azienda. In totale sono 38 i bambini e le insegnanti intossicati e trasportati in ospedale il 23 giugno e il 4 agosto. Dopo le denunce e i sopralluoghi del ministero della Salute, poco è cambiato. «L’azienda Agro Industrial RyB ha installato una fila di alberi e adesso spruzzano i pesticidi di notte o il fine settimana». Abbiamo provato a raggiungere più volte l’Agro Industrial RyB e il Gruppo Orsero, uno dei principali distributori di banane in Italia, ma non hanno risposto alle nostre richieste di intervista.

La scuola di Río Cuarto non è un caso isolato. A febbraio e marzo 2024, abbiamo visitato altri quattro centri educativi dove sono avvenuti gravi episodi di intossicazione e di applicazione di pesticidi altamente tossici. Uno di questi è la scuola Alfreda Miranda García, a Estela Quesada de Santa Isabel de Río Cuarto, un’altra zona sacrificata alla produzione di ananas e banane. Al nostro arrivo, l’aria è acre e pungente, i campi sono bruciacchiati e ciò che resta sul terreno sembrano moncherini di ananas consumati dall’incendio. «Usano il paraquat per seccare e bruciare le piante, così fanno più veloce», spiega Héctor Dávila, lavoratore nelle piantagioni di ananas, iscritto al sindacato dei lavoratori Sintraac. «In teoria bisognerebbe togliere le piante con un macchinario, ma questo processo è molto più lento e necessita di più lavoratori. Invece così risparmiano».

La proprietà, la Agroindustrial Piñas Del Bosque Finca La Virgen, si estende per 600 ettari e appartiene al gruppo Dole Food Company. Alle richieste di chiarimento, Dole fa sapere che “la Virgen è un’azienda agricola biologica che non utilizza sostanze chimiche di sintesi”, e aggiunge: “Dole ha smesso di usare il paraquat in tutte le sue aziende agricole di ananas da febbraio 2008”. La visita sul campo, tuttavia, indica il contrario. Secondo le testimonianze e le prove raccolte dagli abitanti della zona e dalla direttrice della scuola elementare, l’utilizzo del paraquat sarebbe ricorrente. «Non è la prima volta, lo fanno sempre di pomeriggio o la notte, ma il giorno dopo la puzza è insopportabile. I bambini non possono stare né in classe, né fuori. Sono passati tre giorni ma l’odore è ancora persistente. Abbiamo segnalato più volte il problema alle autorità locali, ma la verità è che siamo Davide contro Golia», dice Mariza García Miranza, direttrice della scuola elementare.

colonialismo ancora vivo

Accanto a lei è riunito un gruppo di genitori e abitanti della zona, tra cui Maciot Robles Padilla, 41 anni, tre figli e un marito assunto dalla multinazionale statunitense. «Non ho paura di parlare, sono molto preoccupata. Tutti noi siamo ammalati, con asma, tosse e allergie. Ci vedono come un frutto da spremere. Qual è il beneficio per la comunità? Nessuno. Vedi, non abbiamo neanche una strada. La ricchezza va tutta fuori e quello che rimane qui è solo distruzione e persone che si ammalano».

Le radici di questa imponente industria affondano in un passato di sfruttamento e conquista. L’eredità della dominazione coloniale è visibile ancora oggi, in particolar modo nei confronti di chi lavora nelle piantagioni. Durante l’inchiesta in Costa Rica, abbiamo raccolto più di quaranta testimonianze di lavoratori impiegati nelle piantagioni controllate da Chiquita International, Dole Food Company e gruppo Acon. Le dichiarazioni delle persone intervistate e dei sindacati confermano una violazione sistematica dei diritti umani e del lavoro. «Le persone che mangiano banane in Europa non sanno che dietro la vostra frutta ci sono le nostre lacrime. Siamo maltrattate verbalmente, discriminate e guadagnamo pochissimo», racconta Yaney Elizondo Gutiérrez, 39 anni, selezionatrice di Chiquita nella Finca Canfin. «Quattro anni fa sono rimasta incinta, mi hanno lasciato a casa senza motivo. Ho fatto ricorso grazie al sindacato e sono stata reintegrata. Mi hanno messo in una postazione più faticosa e dopo pochi mesi ho perso il bambino. Per far valere la mia voce, ho perso tutto». Elizondo Gutiérrez è diventata la prima rappresentante di Sitrap, sindacato dei lavoratori delle piantagioni agricole con circa 2.500 affiliati, dentro la finca Canfin di Chiquita.

Altri lavoratori lamentano le stesse pratiche vessatorie. «Chi osa sindacalizzarsi, viene trattato come un delinquente», dice Hector Arrieta, 46 anni, da vent’anni seminatore manuale, prima per Chiquita ora per il gruppo Acon. Si occupa della preparazione del terreno e della semina delle ananas, un lavoro faticoso e usurante, fatto sotto il sole ed esposto a pesticidi. La paga è a cottimo e oscilla tra le 18 e le 23 mila colones al giorno (30-32 euro). «Noi siamo uno strumento, un ingranaggio del mercato. Dopo una vita di sacrifici dentro le piantagioni, non posso neanche permettermi di pagare gli studi di mia figlia», dice cedendo al pianto.

Benché il Costa Rica sia considerato un Paese a reddito medio basso, il costo della vita si aggira intorno ai 3000 euro per una famiglia di quattro persone, escluso l’affitto. I lavoratori delle piantagioni di banana e ananas guadagnano tra i 700 e gli 800 euro e spesso devono far fronte a cure mediche e conseguenze permanenti sulla salute. Didier Leiton Valverde conosce da vicino quali siano gli effetti dei pesticidi e della fatica nei campi. Per anni ha lavorato nelle piantagioni a contatto con il Nemagon, un pesticida altamente tossico, usato dalle principali aziende, come Standard Fruit Company (Dole), Del Monte e United Fruit (Chiquita) per far crescere i loro raccolti più velocemente. Bandito negli Stati Uniti nel 1979, è stato usato per decenni in America Centrale, Caraibi e Asia, uccidendo e rendendo sterili migliaia di persone. Incluso Didier Leiton, oggi segretario generale di Sitrap. «La Costa Rica si vende come un Paese verde e felice, con i vulcani, le spiagge e i parchi, ma questa immagine è falsa. Sotto la superficie, c’è un’altra Costa Rica, fatta di violazioni dei diritti umani, monoculture e salari da fame. Non vogliamo che le multinazionali della frutta smettano di comprare banane dal Costa Rica. Chiediamo il rispetto dei diritti umani dei lavoratori», spiega Leiton.

Abbiamo provato a contattare tutte le aziende della frutta. Solo Dole International ha risposto alle richieste di chiarimento facendo sapere che “Dole si impegna ad adottare pratiche di lavoro eque e a rispettare le leggi locali in materia di lavoro. Prendiamo molto sul serio qualsiasi accusa di pratiche discriminatorie o moleste e ci impegniamo a indagare e a rispondere a tali richieste”. Intanto a novembre 2023, grazie a una legge tedesca sulle violazioni dei diritti lungo le catene di approvvigionamento, Sitrap, insieme a Oxfam Germania, ha presentato un reclamo nei confronti dei supermercati Aldi e Lidl. Questo è avvenuto a seguito di una serie di prove e segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani e del lavoro, raccolte dal sindacato in varie piantagioni di banane.

“Questa economia uccide la vita”

La strada nazionale 32 che collega Matina a Moín, nota come il terminal dei container, è occupata in tutte le sue parti da camion, carichi di casse di ananas e banane. Viaggiano per centinaia di chilometri, trasportando la merce dalle piantagioni al porto di Limón, che sarà poi caricata su immense navi commerciali. Fondato nel 1854, la sua creazione è attribuita all’iniziativa della United Fruit Company (oggi Chiquita International) e a imprenditori statunitensi che, in cambio della costruzione, ottennero diverse concessioni territoriali, sottraendo così le terre ancestrali alle comunità indigene. Tra queste vi è la comunità Ngöbe, divisa lungo la linea del confine, tracciata arbitrariamente tra i moderni Stati di Panama e Costa Rica.

Ancora oggi le popolazioni Ngöbe sono separate da confini immaginari, private di diritti fondamentali, e continuano a essere braccia per l’industria bananiera nelle piantagioni limitrofe, controllate da Chiquita, Del Monte e Dole. A pochi metri dal fiume Sixaola, incontriamo Federico Aerogu, 62 anni, leader della comunità, da anni impegnato in coraggiose battaglie per la difesa dei diritti dei lavoratori indigeni. «Per queste aziende sembra che la legge non esista. Con il nostro sudore e fatica, stiamo servendo una multinazionale che continua a fare miliardi. E mentre noi ci ammaliamo per i prodotti chimici che usano, loro dicono che è normale. Ma noi indigeni sappiamo che questa economia sta distruggendo la vita e la terra».

La pensa come lui un’altra leader indigena della comunità Bribri e dell’associazione delle donne indigene di Talamanca (Acomuita). Nella sua azienda agricola, immersa in una foresta fitta e rigogliosa, a una decina di chilometri dal Puerto Viejo de Talamanca, altra porta di ingresso dei colonizzatori spagnoli, Marina Lopez produce banane, caffè, cacao e altri prodotti, venduti tramite i circuiti del commercio solidale o direttamente a piccoli gruppi di turisti che lei stessa accompagna, insieme a suo figlio, nella foresta a conoscere piante ed erbe medicinali. «Tutto qui è biologico. I nostri antenati non hanno mai lavorato con gli agrochimici e anch’io ho scelto di non farlo. Avrei potuto produrre di più, ma ciò significava uccidere altre forme di vita. Le borse blu di plastica piene di pesticidi usate nelle piantagioni intensive finiscono nei fiumi e nel suolo, quindi nel nostro cibo. Io non penso che questo sia sviluppo. Penso che il vero sviluppo sia la tutela della biodiversità. Avere banane e cacao, caffè e bosco. Gli antenati ci hanno lasciato la madre terra e la sua biodiversità per sfamarci, ma se tutto diventa monocultura e cloni, e distacchiamo dalla natura, moriremo presto di fame».

Se non fosse verde, sembrerebbe una fabbrica chimica a cielo aperto abitata da cloni. Un’interminabile distesa di bananeti, della stessa varietà genetica – la Cavendish – con foglie larghe e odorose, si estende a perdita d’occhio, senza possibilità di distinguere dove finisce una finca e ne inizia un’altra. A interrompere questo paesaggio uniforme, una strada […]

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