“Harris, Trump: che razza di America dal cuore nero”
Interviste

“Harris, Trump: che razza di America dal cuore nero”

Marco D'Eramo: “Il sud è il vero centro di gravità: incentivi folli, corporation e zero diritti: un paese feroce. Kamala? Non è detto che vinca lei”

di Roberto Casalini

«Le città americane cambiano a un ritmo inconcepibile a un occhio europeo, ma se il paesaggio muta fulmineo, strutture mentali e riflessi sociali si mantengono con stupefacente costanza, soprattutto nei tratti che fanno di questo sud il “cuore di tenebra” dell’America, e cioè il razzismo più spietato e il bigottismo più fondamentalista». Marco D’Eramo, giornalista e scrittore, ci riceve nella sua casa di Roma, un ultimo piano da cui si scorge il Colosseo. Vicina c’è la Basilica di San Clemente al Laterano. «Risale al medioevo, ma nei livelli inferiori ospita la basilica antica e forse un tempio di Mitra. È la mia macchina del tempo». Ha raccolto per Marietti 1820 i suoi reportage di vent’anni fa nel profondo sud degli Stati Uniti che suonano attualissimi. Titolo: I terroni dell’impero”. Dice che oggi il “nuovo Sud” è egemone, facciamoci raccontare.

Intanto, come sono nati questi reportage?
Ho fatto per vent’anni il corrispondente dagli Stati Uniti per il Manifesto. Lavoravo per un giornale povero, non potevo permettermi l’appartamento a Washington o a New York. Così facevo dei viaggi, alloggiando in motel da venti-trenta dollari al giorno e incontrando un’America ai margini che gli altri non avevano voglia di raccontare.

Mantenere l’impero obiettivo comune Dem-Gop. Kamala Harris? Per i bianchi è nera, per i neri rappresenta l’élite come fu con Condoleeza Rice e Colin Powell. Non è detto che ce la faccia

Davvero ha visto un funerale sudista?
Sì, a Charleston, nel South Carolina. In una mattina di primavera, era il 2000, sono arrivate da tutti gli Stati Uniti 200 mila persone, per celebrare i funerali solenni, con gli onori militari, di otto marinai. Non erano morti in Iraq, ma a bordo di un sommergibile sudista, 140 anni prima. Otto carri addobbati a lutto e trainati da cavalli, che attraversano la città e costeggiano le antiche piantagioni schiaviste, prima di entrare nel cimitero di Magnolia, con decine di canali tv che riprendono la cerimonia. Del resto, fino al 2000 il Campidoglio del South Carolina faceva garrire la bandiera confederata. Riesce a immaginare una cosa simile in Italia, con i funerali postumi di un manipolo di soldati di Franceschiello?

Razzismo ancora imperante, lei dice. Eppure nel 2008 un nero, Barack Obama, viene eletto presidente.
Obama è stato l’alibi perfetto per il risorgente razzismo, dopo le conquiste strappate dal movimento per i diritti civili negli anni Sessanta. “Come potete dire che siamo razzisti se abbiamo eletto un presidente nero?” è stato il sottotesto delle violenze contro i neri, che si sono moltiplicate a dismisura nei suoi due mandati, per culminare poi con le efferatezze commesse sotto la presidenza Trump, che hanno dato vita alle proteste del Black Lives Matter. Del resto in questa democrazia che ci viene raccontata perfetta, tra il 1882 e il 1930, sono stati linciati più di duemila neri.

Ci hanno abbagliato, con la loro narrazione?
Ha mai sentito parlare di sogno tedesco, di sogno inglese? E invece siamo stati sommersi di racconti sul sogno americano. Che poi sarebbe una casetta di legno in un suburb con davanti un praticello striminzito.

E oggi?
Oggi impera un razzismo educato: uguali ma separati. Si lavora magari assieme, ma fuori dall’ufficio e dalla fabbrica ognuno a casa sua. Vale anche negli ambienti liberal: tra i miei amici di sinistra a New York è così, dopo le riunioni i bianchi stanno con i bianchi, i neri con i neri. I matrimoni misti sono rarissimi: erano un reato fino al 1964, oggi è stato calcolato che quelli tra bianchi e neri siano 700 volte meno frequenti di quelli tra bianchi e asiatici. Questo stato di cose ha alimentato anche il separatismo nero: ne sono un esempio le università black come quelle della Georgia. È la logica del vantaggio nello svantaggio: non studierò ad Harvard, non insegnerò ad Harvard, ma almeno qui sono a casa mia.

Lei sostiene che il sud, l’America profonda, è diventata il nuovo centro di gravità permanente dell’America.
“Nel 1865 il sud perse la guerra civile, ma un secolo e mezzo dopo ha vinto la pace” ha detto Michael Moore, ed è vero. Il New South è diventato il nuovo epicentro economico del Paese contrapposto alla Rust Belt del nord, dell’est e del Midwest, la “cintura arrugginita” degli stati che si vanno deindustrializzando. Ha attratto le corporation americane, europee e giapponesi con una politica di incentivi folli, zero diritti sindacali, ferie non pagate, permessi di maternità non riconosciuti e paghe basse. Volkswagen, Bmw, Mercedes, Peugeot, Toyota e molti altri hanno trovato qui un paradiso di illimitata libertà padronale che si cerca, finora senza grande successo, di esportare anche al nord.

Mi incuriosisce il sistema degli incentivi, in un’economia liberista in cui la mano pubblica è più che mai restia a intervenire. Può fare un esempio?
Il più clamoroso è quello dell’Alabama, che ha rischiato la bancarotta per gli incentivi alla Mercedes. Nel 1993 la casa automobilistica tedesca decide di impiantare una fabbrica dalle parti di Tuscaloosa. L’Alabama offre 77,5 milioni di dollari in infrastrutture, 92,2 milioni per acquistare il sito ed equipaggiarlo, e circa 5 milioni di dollari annui per la formazione del personale, più altro, per un totale di 253 milioni di dollari, che nel 1996 per la levitazione dei costi diventano circa 300. Per una fabbrica che impiegherà 1.500 dipendenti sono 200 mila dollari per ogni posto di lavoro creato, sette volte quello che aveva ottenuto la General Motors in Tennessee, quattro volte quel che la Toyota aveva estorto al Kentucky, tre volte quello che il South Carolina aveva regalato alla Bmw. Il risultato di questa feroce concorrenza fra stati nel finanziare le corporation ha portato, in Alabama, a un taglio feroce della spesa (gli incentivi alla Mercedes erano un decimo del bilancio statale) con licenziamenti massicci, stop ai libri di testo sovvenzionati, blocco dei lavori pubblici, leggi carcerarie liberalizzate per rendere più facile la libertà provvisoria, in modo da non dover provvedere al mantenimento e alla sorveglianza di 5.000 detenuti.

I repubblicani hanno lanciato, già ai tempi di Reagan, una ‘southern strategy’, cercando di estenderla al resto del Paese. In che cosa consiste?
Nel localismo fiscale: le imposte devono essere spese dove sono incassate. E siccome nel sud i quartieri ricchi sono soprattutto bianchi e quelli poveri soprattutto neri, il localismo fiscale (che da noi ha preso il nome di autonomia differenziata) esige che i bianchi non paghino per i neri. Lo si è visto con l’uragano Katrina a New Orleans nel 2005: dove la mancata ricostruzione e il tentativo di espellere gli afroamericani dalla città hanno visto coniugarsi la ferocia contro i poveri con un tentativo di “sostituzione etnica” per fortuna non riuscito. Perché i neri poveri votano democratico e i repubblicani volevano impadronirsi della Louisiana.

Impera un razzismo educato: uguali ma separati. Si lavora assieme, ma i bianchi stanno coi bianchi e i neri con i neri. Obama è stato l’alibi perfetto

Accanto al razzismo c’è l’integralismo. Com’è il dio d’America?
Sul vecchio ceppo puritano e calvinista, che esalta l’individualismo e la corsa al successo, per cui la povertà, quando non è undeserving, dovuta a malattie o handicap fisici, è tara morale, si è innestata una religiosità fai-da-te diffusa e pervasiva. Su un giornale locale di Chattanooga, Tennessee, ho trovato quattro pagine dedicate agli eventi religiosi della settimana. In oltre 500 chiese o tempi, spesso semplici appartamenti o garage. Una chiesa quacchera e 65 metodiste, due buddhiste, una anglicana e 236 battiste. Con sermoni fantasiosi come “Non essere un Joe qualunque”, “Mamma è morta, papà è un imbroglione e mio fratello mi odia” o “Va bene se pecco solo un po’?”. Chiese per lo più di destra, con l’eccezione dei battisti neri del sud che hanno dato un contributo fondamentale alla causa dei diritti civili. Noi che ci lamentiamo per la secolare invadenza cattolica, dobbiamo ricordare che negli Stati Uniti la religione è la porta stretta per fare politica.

Gentilezza e crudeltà negli Stati Uniti convivono…
L’America è un paese di persone più generose di noi – “May I help you?” è la forma di saluto più diffusa – che praticano molto più di noi il volontariato e che, assieme, fanno una società più feroce della nostra. Non c’è pietà per il povero che non è ammalato: nella cultura corrente ha scelto di essere povero, è pigro, vizioso, nullafacente. A me viene in mente un curioso cortocircuito con lo “Yes, we can” di Obama. “We can” è, per così dire, il logo degli homeless che a New York raccolgono le lattine e le rivendono a due centesimi l’una per sfamarsi.

Quella tra ricchi e poveri, tra nord e sud, tra città e campagna, è la frattura più vistosa della contemporaneità.
Negli Stati Uniti ancora più accentuata. A tal punto che è oggi la crepa più minacciosa, e tutta interna, che mette a rischio la saldezza dell’impero, assai più del confronto con la Cina e con la Russia.

Gli Stati Uniti si avviano alle presidenziali in una situazione di profonda incertezza…
Non credo al “declinismo”, è come la fine del romanzo: se ne parla sempre e non avviene mai. Le innovazioni tecnologiche e gli scienziati sono qui, i flussi di capitali sono governati qui. L’America è come l’impero romano: ha vinto tutte le guerre anche quando ha perso tutte le battaglie. Mantenere l’impero è l’obiettivo comune dei democratici e dei repubblicani, e la presidenza Biden ha continuato in molti campi la politica di Trump. Quanto a Trump, se non si guarda soltanto al folklore, è telecomandato dall’establishment conservatore della Heritage Foundation, che già sostenne Reagan e i Bush. E Kamala Harris ha tante ragioni di piacere quante ne ha di spiacere: è donna, tra i democratici siede a destra e questo non piace ai progressisti, per i bianchi è nera, per i neri è indiana (e tra indiani e black non corre buon sangue) e giamaicana, cioè appartenente all’élite nera che già espresse Condoleeza Rice e Colin Powell. Insomma, non è detto che ce la faccia. Dell’America, comunque, sentiremo ancora parlare.

Marco D’Eramo. Figlio della scrittrice Luce D’Eramo, è nato a Roma nel 1947, dove vive. Dopo la laurea in fisica teorica, si specializza in sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études a Parigi. Ha lavorato come giornalista per “Paese Sera”, “Mondoperaio” e “il Manifesto”, oggi collabora con “Micromega”, “New Left Review” e “Die Tageszeitung”. Tra i suoi libri: “Il maiale e il grattacielo. Chicago, una storia del nostro futuro” (1995), “Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente” (1999), “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo” (2017) e “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi” (2020).

«Le città americane cambiano a un ritmo inconcepibile a un occhio europeo, ma se il paesaggio muta fulmineo, strutture mentali e riflessi sociali si mantengono con stupefacente costanza, soprattutto nei tratti che fanno di questo sud il “cuore di tenebra” dell’America, e cioè il razzismo più spietato e il bigottismo più fondamentalista». Marco D’Eramo, giornalista […]

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