Una dimenticabile mattina del 1994, Silvio Berlusconi declamò per gli italiani la sua poesia preferita, Rio Bo di Aldo Palazzeschi. Davanti ai microfoni della Rai, e al cospetto di un esterrefatto intervistatore, il presidente del Consiglio fresco di nomina fece sfoggio delle sue memorie scolastiche: “Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso…”. Versi fanciulleschi che in qualche modo sembravano svelare in chi li recitava un’idea candida e innocente degli uomini e delle cose. Forse il sogno di governare un Paese perfetto e quieto, dove “c’è sempre di sopra una stella, una grande magnifica stella, che a un dipresso occhieggia con la punta del cipresso”.
E forse fu esattamente trent’anni fa che l’Italia, da Repubblica costituzionale che era cominciò a prendere confidenza con una forma di governo più somigliante a quel Dittatore dello stato libero di Bananas che un giovanissimo Woody Allen aveva portato al successo nel 1971. Con una differenza non da poco rispetto al film: che la nostra repubblica aveva scelto non con un colpo di stato ma con un voto quasi plebiscitario quella forma di dolce tirannia bananiera. Anche se poi tra pellicola e realtà l’effetto grottesco non era poi così diverso.
L’estate del premer, così come ce la raccontarono i giornali, era un acquerello leggiadro: onde azzurrine che accarezzano le candide sabbie di Porto Rotondo confinanti con prati smeraldini dove si aggira sorridente e appagato il signore e padrone. “Abbronzato, tutto di blu vestito, pronto a farsi abbracciare e baciare dai vacanzieri emozionati” (Corriere della Sera). Con Veronica, non ancora moglie ribelle ma “first lady muta, invisibile ai più, dimagrita e quindi più bella”. Il cronista è ammaliato e ce li descrive mano nella mano, mise marinara per ambedue che al baretto consumano un gelato, lui al cocco, lei al limone prima di imbarcarsi sul veliero: “Mare calmo, sole splendente, bagno per tutti”.
1994: tutti abboccarono al bucolico “Rio Bo”, la tirannia in bandana poteva iniziare
Ma eccoci nel parco, naturalmente “enorme, che permette al presidente, ai gentili ospiti e alla scorta chilometri di footing: prati curatissimi battuti anche da due coniglietti vip e due cinghiali sottratti agli stenti del Supramonte” (La Repubblica). Lui trova il tempo per teneri dialoghi con l’infanzia: “Silvio, vedendola con un cagnolino al guinzaglio, chiese: ‘Come si chiama?’. ‘Titti’, disse la bimbetta. ‘Anch’io ho un cane e volevo chiamarlo Clinton. Ti piace questo nome?’. ‘A me no’, rispose la piccola dispettosa. ‘Anche ai miei non è piaciuto e abbiamo scelto un altro nome’”.
Per la storia, “il cane di casa Berlusconi si chiama Five” (La Repubblica). Come in ogni libero Stato bananiero che si rispetti anche l’Italia conobbe il governo del bastone e della banana. Poiché mentre declamava Rio Bo il premier con la bandana assisteva ai furiosi pestaggi del G8 di Genova, alla morte del ragazzo Carlo Giuliani, colpito da un proiettile sparato da un carabiniere. Proprio come in qualche lontano regime del centro America. Solo che il nostro non era un film.
Una dimenticabile mattina del 1994, Silvio Berlusconi declamò per gli italiani la sua poesia preferita, Rio Bo di Aldo Palazzeschi. Davanti ai microfoni della Rai, e al cospetto di un esterrefatto intervistatore, il presidente del Consiglio fresco di nomina fece sfoggio delle sue memorie scolastiche: “Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo […]