Una fotografia del 1964. Riprende due giovani, Aldo Mondino, artista, e Gian Enzo Sperone, davanti alla galleria di quest’ultimo a Torino. Sono eleganti, vestiti di chiaro, belli. Due giovani dorati, si direbbe. Giro la mia impressione, a Sperone. «Sono nato in una famiglia sottoproletaria a Carignano in provincia di Torino. Mio padre aveva lasciato la scuola alla terza elementare per andare a 12 anni a lavorare in una segheria. Mia madre è arrivata alla quinta elementare, però era più interiorizzata di lui e di me e mi ha corretto i compiti sino alla prima media. Da lei mi arriva quello stato d’ansia che si poteva trasformare repentinamente in febbre e che è stata la mia salvezza e la mia dannazione».
Inevitabile una svolta. «Cercavo naturalmente una via di fuga dal contesto della provincia torinese, piatto come la sua campagna, dove si parlava troppo dialetto e si leggeva poco e male. I Pavese, i Soldati, i Massimo Mila, i Primo Levi non erano la mia parrocchia, quella in cui invece servivo la messa tra una (finta) crisi mistica e un’altra. Indaffarato dunque, sin da ragazzo e forse predestinato ai distacchi e agli addii, e sempre in cerca del prodigio, come alcuni enfants dell’epoca, ho da subito sognato di essere un altro e altrove. Quello che ero non mi piaceva per niente».
Così il giovane Sperone incontra l’arte. «È un fatto: mi sono specializzato nell’arte della rottura delle regole e dei canoni che, penso adesso, andrebbero piuttosto migliorati e non distrutti, e ho fatto mio il tema di “diventare quello che si è, costi quello che costi”». Voleva diventare poeta. Dopo il liceo classico si iscrive all’università, Lettere. Tra i suoi docenti Umberto Eco con un corso su Joyce. «Quando nel 1956 o 1957 è apparsa la prima traduzione italiana di Foglie d’Erba di Whitman e il sottotitolo “Canto me stesso” le mie aspirazioni letterarie si sono dissolte e ho capito che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, per celebrare un abbraccio contro natura tra Walt Whitman e George Orwell, un altro dei miei miti dell’epoca».
Per vivere comincia a lavorare per la Olivetti. Poi per caso e necessità entra nel mondo dell’arte. Dirige per un periodo la galleria Il Punto e vi espone Roy Lichtenstein. È il 1963. Soltanto l’anno successivo la Pop Art avrebbe fatto sfracelli con la partecipazione alla Biennale. Diventa così enfant terrible e prodige. Poi l’incontro con Leo Castelli. «L’incontro fatale avviene nel 1962, con lui e la sua prima moglie rumena, ebrea come lui, Ileana Sonnabend; e poi con Arturo Schwarz trotskista della prima ora, nato ad Alessandria d’Egitto ed ebreo anche lui: esegeta insuperato di Marcel Duchamp. Il mio primo grande collezionista era un insegnante universitario di ingegno fine, Corrado Levi, ebreo anch’egli. È vero che c’è un ebreo in ogni crocevia della storia (soprattutto della mia). L’altro ebreo decisivo per la mia vita è stato il pittore Aldo Mondino, che a quattro anni nascosto in un armadio sfuggì alle retate nazifasciste del 1943; autore di quadri su linoleum e di calembour illuminanti, gli devo parecchio».
Per vivere lavora alla Olivetti, poi nel 1963 espone Roy Lichtenstein ed è la svolta
A questo punto la sua è probabilmente diventata la prima galleria italiana e presto una delle più prestigiose del mondo. Apre a Roma, Milano, New York. La sua attenzione è concentrata anche sul Minimalismo, il Concettuale, la Land Art: Dan Flavin, Bruce Naumann, On Kawara, Kosuth, Judd, Richard Long. E non gli sfugge il fenomeno della Transavanguardia quando si affaccia sulla scena agli inizi degli Ottanta. Anche di quest’ultimo movimento, forse l’ultimo coerente nella storia dell’arte recente, Sperone è in un certo senso un’anima. Tutti gli artisti che oggi sono fiore all’occhiello dei più importanti musei di arte contemporanea sono passati dalla sua galleria.
“Quanto ho dilapidato… Quando morirò a piangere più forte saranno gli antiquari”
Dell’arte ha un’idea precisa. «Nutro un fastidio crescente verso chi, pensando di fare un favore all’umanità ha contrabbandato l’idea che l’arte sia libertà e lo sia per tutti, così che ognuno è artista, alla faccia di tutti coloro che vivendo esperienze originali e spesso scellerate hanno costruito un universo mirabile, distruggendo la loro vita. L’arte non è e non può essere democratica, è soprattutto per pochi, non ama le scorciatoie e deve costare cara perché è un distillato di epifanie rare e soprattutto di sofferenze di cui è piena la storia: da Lascaux ai pittori dell’espressionismo, cioè l’ultima corrente moderna dell’esuberanza espressiva, è un film da rivedere continuamente. Il sale dell’arte dà sapore e brucia sulle ferite, è sole e sale, e non per tutti».
Ma il vero prodigio dell’enfant prodige è la sua collezione privata d’arte, distribuita oggi nelle sue tre abitazioni tra Italia e Svizzera, e recentemente esposta in una sontuosa mostra al Mart di Rovereto. Quando ha cominciato, quando si è sdoppiato il suo ruolo? «Il mio è un caso da studiare in laboratorio. Quando visito un museo mi viene un attacco di ansia. Guardo con sofferenza tutte quelle opere attaccate alla parete, divise da un limite invalicabile, o dietro robuste teche di vetro. Sento il bisogno di poterle toccare, di vederle nel mio museo». Quando è cominciata la “patologia”? «Subito, prima di tutto. Da ragazzo, andando all’asilo attraversavo un cortile di ippocastani pieno di giganteschi coleotteri, i maggiolini, di cui collezionavo i gusci. Poi sono passato alla raccolta di sputi internazionali: i francobolli…».
Poi ha cominciato sul serio. «Mi viene in mente la canzone di Murolo, la conosce?, Vaco truvanno ’na casciaforte. Quanto ho dilapidato. Quando non ci sarò più, a piangere più forte saranno gli antiquari. Ho comprato da tutti, mai affezionarsi». Il risultato è oggi accessibile grazie ai cataloghi pubblicati in occasione della mostra di Rovereto. Perché da un gallerista del suo calibro ci si aspetta un certo tipo di collezione, di predilezione. Niente di più sbagliato. La febbre, la dannazione di Sperone, la sua voracità è insaziabile. Ci sono, certo, i tanti pezzi dei “suoi” artisti – «Ma non tutti quelli che avrei voluto tenere», si rammarica, «alcuni pezzi a cui ero legato li ho dovuti vendere. Anche per comprare la nuova sede di New York». Uno stupendo edificio di 8 piani costruito per la Sperone Westwater (il cognome della sua socia americana, Angela) a Soho e progettata dall’archistar Norman Foster. «Trentacinque milioni di dollari nel 2008, quando tutti sapevano dell’imminente crisi tranne me, a quanto pare».
“Collezionavo di tutto: gusci, coleotteri, sputi internazionali cioè francobolli…“
La collezione accosta arte greco-romana (il pezzo più antico è del V secolo a.C.), i fondo oro trecenteschi, Michele Ridolfo del Ghirlandaio, Giacomo Ceruti, Nuvolone, van Somer, Sofonisba Anguissola, Mengs, Cairo, Fetti, Batoni e Induno, Hayez. E poi Léger, Miró, de Chirico, Arp, An Kawara, Funi, Spazzapan. Incisioni rare di Dürer, Rembrandt, Marcantonio Colonna e miniature indiane. Fino al bellissimo suo ritratto di David Bowes e tanti artisti da ogni parte del mondo più o meno conosciuti.
La raccolta di uno straordinario, raffinato connoisseur. O di un folle. Ma il colpo di genio, il colpo d’ala del prodige è l’impaginazione. Quasi trent’anni fa Sperone ha organizzato una mostra in cui accostava pittori senesi del Tre, Quattrocento con i “fondi oro” di Lucio Fontana. Oggi in tanti azzardano accostamenti di questo tipo, non sempre con il rigore e il gusto di Sperone. Gli accostamenti sono quindi parte integrante della sua collezione: pop e neoclassico, surrealismo e Seicento. Visitare le sue collezioni è un viaggio in una mente diversa, libera, i cui frammenti si trovano in una sintesi superiore. È lui stesso a dirlo. «Posso dire che l’arte mi ha salvato la vita. È un antidepressivo potente, decisivo. Troppo costoso però».
Una fotografia del 1964. Riprende due giovani, Aldo Mondino, artista, e Gian Enzo Sperone, davanti alla galleria di quest’ultimo a Torino. Sono eleganti, vestiti di chiaro, belli. Due giovani dorati, si direbbe. Giro la mia impressione, a Sperone. «Sono nato in una famiglia sottoproletaria a Carignano in provincia di Torino. Mio padre aveva lasciato la […]