L’Italia è una Repubblica delle banane? Sfottò, scivolate e scivoloni
Inchieste

L’Italia è una Repubblica delle banane? Sfottò, scivolate e scivoloni

B., la Lega e “Optì pobà”: quando la politica (e non solo) del nostro Paese precipita molto in basso

di Fabrizio d'Esposito

Era di maggio dieci anni fa, e Roberto Calderoli prima di infilarsi una mini banana in bocca ci tenne a specificare: “L’ho presa piccola perché a me le banane non piacciono. Però faccio lo sforzo”. Indi lo scontato pistolotto anti-migranti: “Tutti hanno il diritto di mangiarsi la banana, ma a due condizioni. La prima: la banana te la devi comprare e pagare, non prenderla con la paghetta che ti danno quando arrivi in Italia. La seconda: ciascuno è pregato di mangiarsi la banana a casa sua, perché qualcuno ha il difetto di buttare per terra le bucce e se ce ne sono troppe, di bucce, va a finire che qualcuno si fa male”.

L’attuale ministro per gli Affari regionali e le autonomie impugnava la mini banana sul palco del raduno leghista di Pontida, l’edizione numero ventotto del 4 maggio del Quattordici. Una settimana prima c’era stato un video di sette secondi che aveva fatto il giro dell’orbe terracqueo. Un video del brasiliano Dani Alves, all’epoca difensore del Barcellona. Il 27 aprile, trentacinquesima giornata della Liga spagnola, i blaugrana di Messi giocavano in trasferta contro il Villareal e al trentesimo del secondo tempo Dani Alves stava per battere un calcio d’angolo. All’improvviso si fermò. Un tifoso autoctono aveva buttato in campo una banana. Dani Alves la raccolse, la sbucciò e ne mangiò un pezzo, pulendosi poi la mano sui pantaloncini. Grazie ai social, quei sette secondi divennero un manifesto contro il razzismo, al punto che finanche Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, si fece fotografare mentre mordeva sorridente una banana.

Foto: getty images

una metafora dell’italietta

Il rapporto tra l’esuberante Calderoli e la banana è antico e consolidato. Del resto l’esotico frutto curvo è l’atavica metafora dell’Italietta che annaspa tra mille mali e disgrazie, sin dalla Prima Repubblica democristiana (delle banane). Nell’estate del ’13, per dire, era la metà di luglio, Calderoli sproloquiava a Treviglio, in provincia di Bergamo, a una festa della Lega. Per ampliare il suo repertorio xenofobo si soffermò sulla figura di Cécile Kyenge, congolese del Katanga e poi naturalizzata italiana. Kienge era la ministra per l’Integrazione del governo di Enrico Letta e Calderoli osservò: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”.

Lo scandalo fu internazionale, non solo italiano, epperò quindici giorni dopo un manipolo neofascista di Forza Nuova fece irruzione alla festa dell’Unità di Cervia, a venti chilometri da Ravenna, e lanciò della banane contro Kyenge, che era sul palco. Lei rispose con ironia: “Con la gente che muore di fame e la fame, sprecare cibo così è triste”. Il colonnello leghista, peraltro vicepresidente del Senato per quattro volte, in seguito venne condannato in primo grado per diffamazione aggravata dall’odio razziale, ma proprio quest’anno il procedimento si è estinto per prescrizione.

Pontida, frutta e verdura

Nel greve pantheon della Lega, la banana è un frutto contundente agitato su più fronti. Detto che “Roma ladrona” era la capitale della Prima Repubblica, “che era una Repubblica delle banane” (Federico Bricolo, 23 settembre 2002) fra tangenti e misteri, c’è quindi la banana icona fallica per schernire gli omosessuali. A iniziare la campagna anti-gay fu il solito Calderoli, in pratica il ruspante anticipatore del vannaccismo odierno, quando nel 2006 paventò “il rischio” di una Padania “ricettacolo di culattoni” con la ferale conseguenza di diventare “un popolo di ricchioni”. Un suo discepolo in materia fu il piemontese Gianluca Buonanno, morto in un incidente stradale nel 2016. Da deputato leghista, Buonanno esibì un finocchio nell’aula di Montecitorio, e da sindaco di Borgosesia, in provincia di Vercelli, promise che non avrebbe mai celebrato un’unione tra omosessuali, definiti “sodomiti”: “Non è possibile, che potrei offrirgli? Una banana, un’insalata di finocchi?”.

silvio, “Chi” non ci è mai scivolato?

Ovviamente a incarnare toto corde la banana nel suo doppio simbolismo di sesso e corruzione caraibica è stato Silvio Berlusconi (1936-2023). Con il Cavaliere già piduista e portatore di un immane conflitto d’interessi la banana si fece uomo e Altan lo eternò nelle sue vignette chiamandolo il Cavalier Silvio Banana. Inchieste, processi e condanne a parte, la sovrapposizione tra il Banana premier e la banana repubblicana ha raggiunto l’acme, pardon l’orgasmo in numerose occasioni. In ordine sparso: le leggi ad personam; il Parlamento precettato per votare Ruby come “nipote di Mubarak”; gli scandali a luci rosse; i suoi fedelissimi in galera per mafia (Dell’Utri) e corruzione giudiziaria (Previti); i giornali di destra usati per colpire gli avversari interni; l’editto bulgaro in Rai; la marcia azzurra sul tribunale di Milano.

B. detestava i giudici, paragonati persino ai terroristi, e nel 2004 un magistrato di nome Modestino Villani, oggi presidente del Tribunale di Torino, vergò Primi spunti per la redazione di un manuale di sopravvivenza per il magistrato al tempo delle banane. Il catalogo del bananismo berlusconiano è sterminato e c’è da aggiungere il vaticinio che lo scrittore Antonio Tabucchi (1943-2012) fece nel 2002 su Les Inrockuptibles, settimanale francese: “C’è una cosa su cui Berlusconi e i suoi potrebbero scivolare: il ridicolo. Un giorno, forse, una buccia di banana li farà cadere brutalmente, un po’ come Mussolini”. B. cadde meno di due lustri dopo, nel 2011, per mano dello spread e non ritornò mai più a Palazzo Chigi da premier.

Il suo crepuscolo politico fu segnato pure da una banana marcia, suprema nemesi del tempo che passa. Era il 2018 e l’ex Cavaliere fintamente monogamo conviveva con la napoletana Francesca Pascale. Il settimanale Chi, il pink-magazine di Famiglia diretto da Alfonso Signorini, lo andò a intervistare a Villa Maria, nella brianzola Casatenovo, frazione Rogoredo, e la supermarchetta fu adornata da una grande foto di un cesto di frutta. In primo piano, una banana diventata ormai nera. In ogni caso, a Berlusconi le banane piacevano molto. Da Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, andava sovente a Campo de’ Fiori per fare la spesa di frutta e verdura e controllava i prezzi, in particolare delle banane.

© foto: Frezza/Lafata/Lapresse

una de-bananizzazione impossibile

Nel Ventennio breve del berlusconismo c’è stata una fase in cui i poteri forti al completo tentarono di avviare un processo di de-bananizzazione di B. premier, in nome dell’orgoglio nazionale e dei loro affari. Accadde nella primavera del 2001, alla vigilia del previsto trionfo elettorale della Casa delle libertà alle Politiche del 13 maggio. Alla fine di aprile il settimanale inglese The Economist uscì con una copertina poi diventata famosa: “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy”. “Perché Silvio Berlusconi è inadatto a guidare l’Italia”. A difendere il tycoon disceso in politica nel 1994 fu addirittura Gianni Agnelli (1921-2003), carismatico duce della Fiat nonché senatore a vita.

Sostenne l’Avvocato: “Mi è dispiaciuto che si siano, non dico permessi, ma caratterizzati nel dare giudizi su quello che può essere un potenziale, un possibile presidente del Consiglio, rivolgendosi al nostro elettorato come se fosse l’elettorato di una repubblica delle banane”. Berlusconi divenne premier l’11 giugno e nel suo governo, il secondo nella storia repubblicana, mise agli Esteri un uomo Fiat, Renato Ruggiero (1930-2013), già ambasciatore e ministro in quota socialista di vari esecutivi a guida democristiana. Ma Ruggiero durò solo sei mesi. Si dimise all’inizio del 2002, a gennaio, stremato dagli attacchi anti-europeisti della Lega di Umberto Bossi. La luna di miele tra B. e Agnelli terminò e quel punto l’Avvocato rivisitò il suo giudizio anti-banana: “Altro che banane, siamo una repubblica di fichi d’India”.

I comunisti mangiano banane

Fra risse e transumanze parlamentari, prassi consociativa e familismo, anche il centrosinistra governista della Seconda Repubblica ha avuto le sue bucce di banana su cui scivolare. L’immagine più nitida, dalla prospettiva estetica del bananismo, la offrì l’ex comunista Anna Finocchiaro, magistrata e più volte ministra. Nel 2012 venne fotografata mentre faceva acquisti all’Ikea coi suoi tre agenti di scorta: uno di loro spingeva il carrello. Un anno dopo, Finocchiaro, all’epoca presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, fu protagonista di un remake più esotico. Stavolta in un supermercato romano, come annotò L’Espresso. La scorta portò le buste della spesa e lei si difese così: “Le banane me le sono scelte da sola”.

Un lustro prima, poi, nel luglio del 2007, il Giornale berlusconiano appellò il Campidoglio come “Comune delle banane”. Sindaco della Capitale era Walter Veltroni e la sua giunta aveva fatto un accordo quinquennale con Fairtrade, marchio del commercio equo e solidale, per rifornire le mense scolastiche. Il contratto prevedeva 672 tonnellate di banane all’anno per una spesa totale di 11,3 milioni di euro. Ma il pignolo quotidiano di destra scoprì che così le banane costavano 3,36 euro al chilo, a fronte di una media nazionale che vedeva altre amministrazioni comunali pagarle 2,05 euro, sempre acquistate da aziende del commercio equo e solidale.

Buccia di covid

Un’importante categoria del bananismo è quella dei raddrizzatori di banane. Quando nel 2020, in piena emergenza Covid, il governo Conte annunciò un bando per 60mila assistenti civici volontari da impiegare nelle città, il governatore della Campania Vincenzo De Luca s’interrogò pubblicamente: “Ci domandiamo cosa diavolo debbano fare. Ci hanno detto che non faranno praticamente nulla, ma solo moral suasion. Mi preparo dunque a vedere in azione 60 mila raddrizzatori di banane”.

Ma la banana da raddrizzare può anche significare un’involuzione repubblicana del nostro Paese. Qui sovviene il solito Calderoli. Era il 2007 e gli eredi Savoia, Vittorio Emanuele (1937-2024) e suo figlio Emanuele Filiberto, per l’esilio patito chiesero 260 milioni di euro di danni morali oltre alla restituzione dei beni confiscati. Calderoli si arrabbiò tantissimo: “Mandiamoli via come i rom, che tornino in esilio. Queste sono cose simbolo di un Paese delle banane. Anzi, di raddrizzatori di banane. Paghiamo i danni a chi ci ha danneggiato”.

“Negri”, “Negroidi” e poltrone

Sembra incredibile, ma nella Seconda Repubblica delle banane anche il famigerato Claudio Scajola, il berlusconiano della casa al Colosseo acquistata a sua insaputa, si è distinto tra gli indignados dell’anti-bananismo. Da ministro dello Sviluppo economico capitò all’aeroporto di Fiumicino nel novembre del 2008 e rimase scandalizzato dal fatto che ci piovesse dentro: “Questo è proprio il Paese delle banane”. Più in linea con la destra bananista, invece, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. La solita questione migranti, laddove la banana indica un razzismo ancestrale. Disse Brugnaro: “Dobbiamo educare i nostri figli, fare la differenza con gente che vive sugli alberi delle banane” (8 novembre 2015).

Il problema è che in Italia il bananismo contro i “negri” o i “negroidi” resta sempre impunito. Scivola addosso anziché far scivolare chi lo brandisce. Eclatante il caso del ragioniere brianzolo Carlo Tavecchio (1943-2023), che si candidò alla guida della Federcalcio nel 2014. Nel suo discorso di presentazione indicò i giocatori di colore come uno dei mali del calcio italiano: “L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Da Giovanni Malagò, presidente del Coni, ad Andrea Abodi, allora capo della Lega di Serie B e oggi ministro per lo Sport, nessuno protestò e Tavecchio venne eletto con oltre il 60%.

Ultima fermata papeete

Cinque mesi fa, nella campagna elettorale delle Regionali, la premier Giorgia Meloni ha proclamato finita la Repubblica italiana delle banane. Poteva essere più prudente, forse. Se non altro per ragioni di scaramanzia. In merito giova ricordare che la tahitiana Papeete è l’antica capitale del “turismo da banane”. Georges Simenon ci scrisse un romanzo: Turista da banane, come gli autoctoni chiamano con disprezzo gli occidentali che inseguono il sogno tropicale, tra sbronze e meretrici, per dimenticare la vita che si sono lasciati alle spalle. Nella nostra Repubblica delle banane, Papeete è una spiaggia romagnola che ricorda qualcuno, oggi inquieto alleato della Sorella d’Italia. O no?

Era di maggio dieci anni fa, e Roberto Calderoli prima di infilarsi una mini banana in bocca ci tenne a specificare: “L’ho presa piccola perché a me le banane non piacciono. Però faccio lo sforzo”. Indi lo scontato pistolotto anti-migranti: “Tutti hanno il diritto di mangiarsi la banana, ma a due condizioni. La prima: la […]

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