Nordio, Santanchè, Lollobrigida & C:  banane e Meloni
Inchieste

Nordio, Santanchè, Lollobrigida & C: banane e Meloni

La presidente del consiglio garantiva che con lei l’Italia non sarebbe stata più una “repubblica delle banane”. Ma qualcosa deve esserle sfuggito di mano fra scandali, familismo e leggi salva-notabili

di Giuseppe Pipitone

È finita la Repubblica delle Banane!”. Giorgia Meloni lo ripete due volte, interrompendosi solo per una piccola pausa che serve a catturare l’attenzione. Siamo a Potenza, è aprile inoltrato, ma fa ancora freddo visto che la presidente è stretta in un piumino bianco. È il comizio di chiusura della campagna elettorale per le elezioni regionali in Basilicata, ma all’improvviso Meloni fa un annuncio fuori programma: “È finita la Repubblica delle Banane, dove i prevaricatori e i delinquenti la fanno sempre franca e la brava gente deve avere paura”. Parte un applauso, che però è timido, poco convinto. Il pubblico sembra perplesso: con chi ce l’ha Giorgia? Perché è venuta a parlare di banane proprio lì? E poi: siamo sicuri che sia davvero finita questa Repubblica delle banane?

Nessuno lo ammetterà, ma quando quella sera si è parlato del famoso frutto giallo, più di qualcuno ha subito pensato a Silvio Berlusconi. Emblema di una stagione scandalosa e controversa, eccessiva e irripetibile, accecante e allo stesso tempo oscura, l’uomo di Arcore è il simbolo della Banana republic all’italiana. “Dobbiamo salvare la Repubblica delle banane”, è la frase che gli sceneggiatori della serie 1992 fanno pronunciare al suo storico braccio destro, Marcello Dell’Utri: c’era da preparare l’operazione Botticelli, cioè la fondazione di Forza Italia per dare l’assalto al potere. Come tutte le cose organizzate da Dell’Utri, anche quella riesce drammaticamente bene: in trent’anni di berlusconismo l’Italia si è avvicinata al modello Guatemala, la Repubblica delle banane per antonomasia, dove le compagnie americane organizzavano colpi di Stato insieme alla Cia, issando al potere dittatori compiacenti con la scusa dell’anticomunismo. Tutto pur di mettere le mani sulle piantagioni di banane. “L’unico frutto dell’amor”, cantava Michael Chacón alla fine degli anni Novanta. “L’Italia è il Paese che amo”, è l’incipit della Seconda Repubblica.

Non che nel nostro Paese si sia davvero arrivati ai livelli del Guatemala, per carità. Alcune caratteristiche trasmesse dal berlusconismo alla politica italiana, però, sono certamente più simili a quelle di uno micro Stato latino-americano che a un Paese del G7: i conflitti d’interesse, le leggi ad personam, i rapporti opachi con la mafia, il bunga bunga, le battute volgari sul sesso, quelle infelici su Mussolini (“Mandava la gente a fare vacanza al confino”), il “kapò” dato al tedesco Martin Schulz in pieno Parlamento europeo. E poi: una pletora di fedelissimi impresentabili, il braccio destro (Dell’Utri) condannato per concorso alla mafia, quello sinistro (Cesare Previti) per aver corrotto i giudici, la frode fiscale. L’elenco sarebbe sterminato, ma forse ormai è anacronistico: Berlusconi è morto da più di un anno, finito il “banana” si suppone sia finita anche la sua Repubblica. Così almeno ha assicurato Meloni a Potenza. Ma siamo sicuri che sia così? Davvero si è conclusa quell’epoca in cui – per citare Giorgia – “i prevaricatori e i delinquenti la fanno sempre franca e la brava gente deve avere paura”?

È lecito dubitarne. E non solo perché al “banana” hanno deciso d’intitolare addirittura un aeroporto (e che aeroporto!), senza che nessuno abbia alzato la voce. A suggerire che forse l’Italia sia ancora in piena epoca delle banane è soprattutto la scelta del ministro Carlo Nordio, che ha voluto dedicare la sua riforma della giustizia proprio a Berlusconi. Ex magistrato, appassionato di Winston Churchill (“Sconfisse Hitler alla mia stessa età”) e di prosecco (“Se mi vietassero di bere potrei dimettermi”), il guardasigilli ha provocato imbarazzo quando ha sostenuto che i mafiosi non parlano al telefono, quindi è praticamente superfluo intercettarli. Affermazione certamente grave, ma mai quanto quella di Pietro Lunardi, ministro berlusconiano delle Infrastrutture che teorizzava la convivenza con le mafie perché “ci sono sempre state e sempre ci saranno”.

Certo quelli erano i tempi in cui si depenalizzava il falso in bilancio, si tagliava la prescrizione per salvare Previti, si studiavano lodi e scudi per proteggere il “banana” dai processi, si tentava senza successo di separare le carriere della magistratura. Un obiettivo, quest’ultimo, realizzato recentemente solo dall’attuale governo. In questo senso, si può dire che Nordio sembra aver studiato all’università di Arcore, prendendo ripetizioni da custodi del diritto berlusconiano come Alfredo Biondi, Angelino Alfano, Niccolò Ghedini. In meno di due anni ha abolito tout court un crimine previsto dalle convenzioni internazionali come l’abuso d’ufficio, ha reso più difficile l’arresto delle persone accusate di reati contro la pubblica amministrazione (bisognerà avvisarle cinque giorni prima), ha vietato ai pubblici ministeri di fare ricorso contro alcune sentenze di proscioglimento. Norme che hanno un unico comune denominatore: indeboliscono le indagini su quei reati che sono tipici dei colletti bianchi, cioè i politici, gli alti funzionari, i grandi manager. Dalle leggi ad personam si è passati alle leggi ad personas, al plurale, purché si tratti di persone potenti.

Harvard? no, Arcore. Il ministro della Giustizia imbriglia le indagini sui potenti. Ecco le leggi ad personas

ma i migliori erano migliori?

Ma non solo. Con Nordio al ministero, infatti, sono state varate pure un paio di strette che riguardano la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche e delle ordinanze di custodia cautelare. Provvedimenti in assoluta continuità col bavaglio imposto alle fonti giudiziarie dall’ex ministra Marta Cartabia. Sarà che quello era il governo di Mario Draghi – detto “dei migliori” e dunque bisognava fidarsi a scatola chiusa – ma nessuno ha avuto nulla da ridire: non i giornalisti e neanche la cosiddetta società civile. Ai tempi del bavaglio del “banana”, invece, le pagine dei quotidiani si riempivano di post-it gialli, mentre nelle piazze si moltiplicavano i girotondi. Certo quella era l’epoca delle epurazioni, degli editti bulgari e del duopolio televisivo con una sola persona al (tele) comando. Oggi la fondatissima accusa di aver trasformato la Rai in Telemeloni perde un po’ vigore se pensiamo che è stata una riforma voluta da Matteo Renzi e dal Pd a mettere la tv pubblica in mano a Palazzo Chigi.

Ovviamente utilizzare viale Mazzini come ufficio stampa del governo non è obbligatorio per legge, ma d’altra parte la presunta egemonia culturale della sinistra non si combatte certo da sola. E poi in Rai la libertà di espressione esiste ancora, come sa bene Gennaro Sangiuliano: raccontano che il ministro della Cultura ha dovuto protestare coi vertici della prima rete perché la comica Virginia Raffaele continuava a imitare la sua consulente Beatrice Venezi, senza che nessuno si prendesse la briga di chiuderle il programma. Per fortuna che almeno l’intervento del ministro al festival di Taormina era stato montato a dovere, con i fischi del pubblico sostituti da applausi. Purtroppo, però, sui social era già finito il dibattito in cui Sangiuliano ha confuso l’epoca di Cristoforo Colombo con quella di Galileo Galilei. E dire che il ministro si vanta continuamente di possedere una biblioteca con 15 mila volumi: evidentemente non è ancora riuscito a leggerli tutti.

Peggiore, molto peggiore, è la condotta di Vittorio Sgarbi, ormai ex sottosegretario alla Cultura, travolto dall’inchiesta del Fatto sulla scomparsa del quadro di Rutilio Manetti: più dell’indagine dei pm per furto di beni culturali, a influire sulle sue dimissioni è stato probabilmente il tentativo di “tirare fuori l’uccello” davanti alle telecamere di Report. Una tentazione, quella di slacciarsi i pantaloni, che Sgarbi condivide con Roberto Vannacci: “Non ho problemi a farlo per dimostrare di essere uomo”, ha spiegato in diretta tv il generale, fan della Decima Mas, portato da Matteo Salvini all’Europarlamento. Si è dovuta dimettere da sottosegretaria all’Università a causa di una condanna definitiva per peculato, invece, Augusta Montaruli: da consigliera della Regione Piemonte ha speso 25 mila euro di soldi pubblici per articoli Hermès, Swarovski, Borbonese, pranzi, cene e persino un libro che s’intitola Sexploration (sottotitolo: “Giochi proibiti per coppie, istruzioni per l’uso”).

Premiare il merito, soprattutto se ha il cognome giusto. il figlio di La Russa va al comitato Milano-Cortina, quello di Tajani è approdato in Figc

balneari di governo

Ancora al suo posto al tavolo del governo è invece Daniela Santanché, sulla quale pende una doppia richiesta di rinvio a giudizio per falso in bilancio e truffa all’Inps. Già titolare del celebre Twiga, uno degli stabilimenti balneari più famosi d’Italia, tra i successi della ministra del Turismo si annovera la campagna pubblicitaria Open to meraviglia: un disastro costato nove milioni, tra immagini prese da cataloghi gratuiti in rete, traduzioni tragicomiche in tedesco e perfino video promozionali ambientati in Slovenia.

Solo uno degli inciampi di questo governo post Repubblica delle banane, dove ogni 2 agosto Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura alla Camera, ripete che le sentenze definitive sulla strage di Bologna sono un “teorema politico per colpire la destra”. Molto più innocue, invece, le sparate quasi quotidiane di Francesco Lollobrigida, cognato d’Italia (almeno fino all’annuncio agostano della compagna Arianna Meloni sulla separazione ), gaffeur di talento piazzato alla guida del ministero dell’Agricoltura, anzi, della Sovranità alimentare. La sostituzione etnica, le guerre evitate grazie a “cene ben organizzate”, i poveri che “mangiano meglio dei ricchi”, la siccità che “per fortuna” colpisce soprattutto il Sud, il treno in ritardo che fa una fermata non prevista solo per farlo arrivare in orario: a volte sembra quasi che Lollobrigida lo faccia apposta.

Chissà, magari gliel’hanno ordinato a casa: più lui la spara grossa, più spicca l’approccio istituzionale della (ex?) cognata. Ma pure quello di Arianna, plenipotenziaria di Fdi, donna forte che risolve problemi, incassa lamentele, suggerisce nomine. Accusata di aver trasformato Fratelli d’Italia in Sorella d’Italia, la presidente si è difesa così: “Arianna? Potevo metterla in una partecipata di Stato, l’ho messa a lavorare nel partito mio”. In Guatemala avranno preso appunti.

Certo all’accusa di familismo Meloni può sempre replicare ricordando che nei ranghi dell’opposizione siedono due coppie di coniugi (Dario Franceschini e Michela Di Biase del Pd, Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti in Sinistra italiana) e una di conviventi (Riccardo Ricciardi e Gilda Sportiello del M5s). Ciò che altrove è un’eccezione, però, sembra quasi la regola nei ranghi della maggioranza. Dove tutti sembrano avere figli, cugini, compagne da piazzare.

Ignazio La Russa, il presidente del Senato convinto che in via Rasella i partigiani uccisero “una banda musicale di semi-pensionati” e non invece un battaglione della polizia nazista, ha tre figli: Geronimo Antonino, Lorenzo Kocis e Leonardo Apache. Se il più giovane impensierisce papà a causa di un’accusa di stupro, il figlio maggiore porta in alto il cognome di famiglia: il ministro Sangiuliano lo ha nominato nel consiglio del Piccolo teatro di Milano, mentre il sindaco Giuseppe Sala lo ha voluto nel consiglio d’aministrazione della Metro 4.

L’eredità politica dei La Russa, invece, potrebbe toccare al secondogenito, eletto tre anni fa nel consiglio municipale del capoluogo lombardo e fino al febbraio scorso coordinatore delle Cerimonie della Fondazione Milano Cortina. “Non ho mai capito di cosa si occupasse, lo vedevo raramente al lavoro”, ha messo a verbale l’ex responsabile delle Risorse umane, interrogata dai pm di Milano, che indagano sulla gestione dell’evento olimpico.

Me l’ha detto mio (ex?) cognato: dacci oggi la nostra gaffe quotidiana (e una fermata non prevista)

dio e patria possono attendere

Alla Fondazione lavora anche Livia Draghi, nipote di Mario, indicata come vicina a Giovanni Malagò, presidente del Coni. Quello della Figc, Gabriele Gravina, aveva invece dato un impiego a Marta Giorgetti, figlia di Giancarlo, numero due della Lega e ministro dell’Economia, ma pure a Filippo Tajani, secondogenito di Antonio, ministro degli Esteri e leader di Forza Italia. Dio, patria e famiglia? Soprattutto famiglia. A proposito: da quando è arrivata Meloni, a Palazzo Chigi è andata a lavorare anche Silvia Cavallari, figlia di Eugenia Roccella, che della Famiglia fa addirittura la ministra.

Edmondo Cirielli, vice di Tajani alla Farnesina e leader di Fdi in Campania, ha una compagna che si chiama Maria Rosaria Campitiello, ha 39 anni e fa la ginecologa: di recente è stata nominata al vertice del Dipartimento delle emergenze sanitarie. A sceglierla è stata il ministro della Salute Orazio Schillaci, che per il quotidiano Il Foglio potrebbe essere cugino di secondo grado di Lollobrigida: parentela non confermata. Al contrario di quella che lega Rocco Bellantone, presidente dell’Istituto superiore della Sanità, a Giovanbattista Fazzolari, fedelissimo della pemier, che lo ha voluto sottosegretario alla presidenza del consiglio. Appassionato di armi (tiro sportivo) e di Fantacalcio (nel 2009 vinse l’auto messa in palio dalla Gazzetta dello Sport), profeta del melonismo, in molti lo descrivono come il Gianni Letta di Fdi.

Le sue mosse, però, si fanno spesso segnalare per qualche sbavatura di troppo. Ci sarebbe Fazzolari dietro l’attacco di Meloni all’Europa e ai giornali, con tanto di clamoroso errore sui dossier: la premier ha scambiato la relazione sullo Stato di diritto della Commissione europea con il report sulla libertà di stampa del consorzio Media Freedom Rapid Response. Sempre il potente sottosegretario sarebbe pure l’autore di quello che in Fdi hanno ribattezzato “codice Fazzolari”: nelle ospitate tv in vista delle europee bisognava dare la precedenza alle belle donne, ai parlamentari più giovani e ai dirigenti senza evidenti difetti fisici, come le voluminose pance in primo piano. Altro che la fine della Repubblica delle banane: se il “banana” fosse ancora in vita bisognerebbe pagargli i diritti.

È finita la Repubblica delle Banane!”. Giorgia Meloni lo ripete due volte, interrompendosi solo per una piccola pausa che serve a catturare l’attenzione. Siamo a Potenza, è aprile inoltrato, ma fa ancora freddo visto che la presidente è stretta in un piumino bianco. È il comizio di chiusura della campagna elettorale per le elezioni regionali […]

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