L'editoriale colto
di Gabriel García Márquez, a cura di Paolo Soraci

Quel treno pieno di cadaveri tra Macondo e le nostre golose merende esotiche

È inutile cercare, quando a dire tutto, a raccontare tutto col piglio di un Omero tropicale e la tenuta del nato già classico, c’è un autore come García Márquez. E potendo pescare direttamente dal suo capolavoro. Lui, Cent’anni di solitudine lo scrive nel 1967, a meno di quarant’anni dalla strage dei bananieri di La Cienaga. A sparare, quel giorno del 1928, è l’esercito colombiano, ma a ordinare la mattanza è direttamente la United Fruit, monopolista della coltivazione e del commercio della frutta. “Repubblica delle banane” definiva lo scrittore O. Henry, nel 1904, i paesi governati da oligarchie inette, corrotte e violente, dipendenti dall’esportazione di un solo prodotto. Ma dietro ai gorilla di quei governi così corrotti e inetti ci stanno, da sempre, i nostri fine pasto ricchi di frutti fuori stagione, le zuccheriere da cui addolciamo i nostri caffè, i caffè e tè medesimi, e oggi le insalate biodinamiche, dietetiche e possibilmente antiossidanti (di che orrori grondano i nostri avocado e le nostre bacche di goji?), per non parlare dei metalli rari che ci permettono di parlare con amici e parenti mentre ci facciamo travolgere sulle strisce pedonali del primo mondo.

da Cent’anni di solitudine, Mondadori 2017, traduzione di Ilide Carmignani

Quando José Arcadio Secondo si svegliò era disteso supino nel buio. Si accorse che stava viaggiando su un treno interminabile e silenzioso, e che aveva i capelli appiccicati dal sangue secco e che gli dolevano tutte le ossa. Provò una tremenda stanchezza. Con una voglia di dormire per ore e ore, al sicuro dal terrore e dall’orrore, si accomodò sul lato che gli faceva meno male, e soltanto allora scoprì d’essere sdraiato sui morti. Non c’era uno spazio libero nel vagone, tranne il corridoio centrale. Dovevano essere trascorse parecchie ore dal massacro, perché i cadaveri avevano la temperatura del gesso in autunno, e la sua stessa consistenza di schiuma pietrificata, e coloro che li avevano messi nel vagone avevano avuto il tempo di stivarli nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane. Cercando di sfuggire all’incubo, José Arcadio Secondo si trascinò di vagone in vagone, nella direzione verso la quale avanzava il treno, e nei lampi di luce che divampavano tra le assi di legno quando passavano per i villaggi addormentati vedeva i morti uomini, i morti donne, i morti bambini, destinati a essere gettati in mare come le banane di scarto.

Riconobbe soltanto una donna che vendeva rinfreschi in piazza e il colonnello Gavilán, che teneva ancora stretto nella mano il cinturone con la fibbia d’argento col quale aveva cercato di aprirsi la strada attraverso il panico. Quando arrivò nel primo vagone fece un salto nel buio, e rimase disteso nella cunetta finché il treno non fu passato del tutto. Era il treno più lungo che aveva mai visto, con quasi duecento carri merci, e una locomotiva a ogni estremo e una terza nel centro. Non aveva nessuna luce, nemmeno i fanali verdi e rossi di posizione, e scivolava a una velocità notturna e furtiva. Sopra il tetto si vedevano le masse scure dei soldati con le mitragliatrici piazzate. Dopo mezzanotte scrosciò un acquazzone torrenziale. José Arcadio Secondo ignorava dove era saltato, ma sapeva che camminando in senso contrario a quello del treno sarebbe arrivato a Macondo.

È inutile cercare, quando a dire tutto, a raccontare tutto col piglio di un Omero tropicale e la tenuta del nato già classico, c’è un autore come García Márquez. E potendo pescare direttamente dal suo capolavoro. Lui, Cent’anni di solitudine lo scrive nel 1967, a meno di quarant’anni dalla strage dei bananieri di La Cienaga. […]

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