L’arida campagna siriana ai piedi delle alture del Golan è una sterminata distesa di terriccio marrone ricoperta da macerie dello stesso colore e da case distrutte e abbandonate. Il silenzio è assoluto, in giro non c’è un’anima. All’orizzonte si vede alzarsi il Golan: alte montagne spoglie sulle cui cime svettano le antenne di numerose basi militari israeliane che da lì osservano la Siria. Di colpo il silenzio viene squarciato da una forte esplosione. «Sono gli ebrei», dice un soldato siriano appostato tra le macerie mentre guarda verso l’alto, mostrando come queste tensioni assumano un carattere religioso, oltre che nazionale. «Da lassù bombardano ogni giorno le posizioni dell’Iran e dei suoi alleati».
Il Golan è un immenso altopiano di 1860 chilometri quadrati stretto tra Siria, Israele, Libano e Giordania. De iure appartiene alla Siria, gran parte di esso è però occupato da Israele che nel 1967 lo strappò con le armi al controllo di Damasco. Da allora è diventato una piattaforma militare vitale per lo Stato ebraico: da lì, a partire dal 2011, i suoi soldati hanno osservato dall’alto i combattimenti della guerra civile siriana, fornendo in alcune fasi armi e aiuti logistici a gruppi armati che lottavano contro il governo di Bashar Assad; da lì, ormai da anni, decollano regolarmente centinaia di missili che colpiscono i soldati iraniani e i gruppi armati a loro leali presenti in Siria. A partire dal 7 ottobre 2023 Israele ha esteso questi bombardamenti anche ad altri territori: principalmente al Libano, dove ogni giorno prende di mira Hezbollah, il movimento politico-militare legato all’Iran che a sua volta spara verso i territori israeliani.
Oggi il Golan è la base da dove lo Stato ebraico combatte una guerra statica ma sanguinosa che coinvolge tutto il Medio Oriente, bombardando i soldati iraniani, i leader dei movimenti armati leali a Teheran e le loro truppe sparse per tutta la regione. La Siria ne è l’epicentro. Le macerie ai piedi dell’altopiano sono ciò che resta di Quneitra, cittadina rasa al suolo da Israele nel 1974 e da allora mai più ricostruita né ripopolata. Gli unici movimenti sono quelli di pochi soldati siriani che, appostati tra le distruzioni, guardano verso le alture. Dal basso ci si sente osservati, vulnerabili. Nell’aria riecheggiano di tanto in tanto le esplosioni ed i droni israeliani ronzano nel cielo. I militari non sembrano però preoccupati. «Qui non sparano», commenta uno di loro. «Gli iraniani e gli Hezbollah sono qualche chilometro più indietro. Sono loro a essere nel mirino».
Ai piedi delle alture macerie di case distrutte, in cima le basi di Tel Aviv. Poi un boato. “Sono gli israeliani – dice un soldato siriano – da lassù bombardano le posizioni dell’Iran e dei suoi alleati”
soldi e armi da teheran
Negli ultimi decenni l’Iran si è profilato come l’attore regionale più determinato a combattere Israele. Alleato della Siria, il suo governo finanzia, arma e addestra in giro per il mondo movimenti politico-militari sciiti, la branca dell’Islam a cui Teheran si ispira: Hezbollah in Libano, gli Houthi nello Yemen, Kateab Hezbollah in Iraq, Fatemiyoun in Afghanistan, Zainebiyoun in Pakistan. Durante la guerra civile siriana molti battaglioni di questi gruppi si sono stabiliti in Siria, dove gli sciiti sono una minoranza religiosa pari all’1% della popolazione e dove già erano presenti gruppi armati autoctoni leali a Teheran. Qui, sotto la supervisione dei militari iraniani giunti in loco, hanno combattuto contro le formazioni armate e talvolta terroristiche ostili al governo di Damasco.
Dal Golan verso Damasco si incontrano basi con bandiere russe. Vicino alla capitale invece gli iraniani stanno facendo investimenti nell’edilizia
Terminata la guerra (dal 2020 gli scontri armati sono molto calati e circoscritti a zone limitate), parecchi combattenti sciiti sono rimasti nel Paese radicandosi in diverse regioni, alcune delle quali a ridosso di Israele. Temendo che possano aprire un nuovo fronte, lo Stato ebraico li prende di mira regolarmente. Si tratta generalmente di raid chirurgici che colpiscono obiettivi precisi: alte gerarchie militari e religiose iraniane, depositi di armi e missili, truppe. Molto clamore ha fatto l’abbattimento del consolato iraniano a Damasco avvenuto lo scorso primo aprile. Di esso resta oggi un immenso cumulo di macerie impolverate.
Per incontrare i combattetti sciiti bisogna lasciarsi alle spalle il Golan e imboccare la strada che conduce verso est, in direzione della capitale siriana. Lungo il percorso si incrociano basi militari su cui sventolano grosse bandiere della Russia, l’altro grande alleato del governo siriano. I suoi soldati sono oggi ben presenti lungo il confine con i territori israeliani, quelli sciiti sono invece arretrati di qualche chilometro per non essere facili vittime dei razzi sparati dalle alture e per evitare di attirare bombardamenti troppo massicci sulla Siria. Avvicinandosi alla capitale si supera un ultimo posto di blocco dell’esercito siriano e si accede a un largo viale costeggiato da grandi poster raffiguranti i leader politici e religiosi sciiti: il capo di Hezbollah Hasan Nasrallah, le guide supreme dell’Iran Ruhollah Khomeini e Ali Khamanei, il recentemente defunto presidente iraniano Ebrahim Raisi, il condottiero militare Qasem Soleimani. Qua e là sventolano bandiere dell’Iran. Tutto intorno si ergono massicci palazzoni, alcuni trasandati, altri nuovi o in fase di costruzione.
«Gli iraniani stanno investendo molto nell’edilizia da queste parti», racconta Ali, 37 anni, un combattente sciita siriano che qui vive, «comprano terre e costruiscono soprattutto case, infrastrutture e grandi alberghi per ospitare i soldati e i pellegrini. Che spesso sono la stessa cosa». Questo stradone è una delle arterie di una striscia di terra che parte dalla cittadina di Bab Bila per arrivare alle porte dell’aeroporto di Damasco e che è sotto la forte influenza iraniana. Essa è infatti controllata da Al Asadeka, una sorta di grande coalizione di diversi gruppi armati sciiti di tutto il mondo alleati del governo siriano e capeggiati dall’Iran: siriani, libanesi, iracheni, afghani, pakistani.
Per la strada si incontrano gruppi di ragazzi con divise diverse da quelle delle truppe regolari: vestiti completamente di nero, indossano patch e nastri gialli o verdi che recitano versetti religiosi, sulle spalle portano dei kalashnikov. Alcuni hanno gli occhi a mandorla e la pelle olivastra, provengono dall’Asia centrale. Oltre a loro si vedono anche tanti bambini e folti gruppi di donne sciite con il capo coperto, vestite interamente di nero. «Il 90% non è siriana», commenta Ali. «Sono mogli dei combattenti oppure sono qui in pellegrinaggio».
Durante la guerra civile siriana, Damasco ha siglato un patto perché Teheran schierasse truppe fedeli intorno alla moschea: questo ha attirato gli sciiti da tutto il Paese
qui giace la nipote di maometto
Le ragioni che spingono così tanti sciiti a concentrarsi in questa fascia di terra sono militari, sociali e religiose. Al centro della striscia c’è l’imponente moschea di Sayyddah Zaynab, che ospita i resti di Zaynab, la nipote di Maometto venerata dagli sciiti alla stregua di una santa. Con l’inizio della guerra civile siriana, migliaia di loro hanno iniziato a stabilirsi da tutta la Siria nelle zone adiacenti alla sua tomba, dove hanno trovato assistenza e protezione dalle persecuzioni di alcuni gruppi armati antigovernativi, tra cui l’Isis, determinati a cancellare la presenza delle minoranze religiose nel Paese.
Ali ricorda bene i primi giorni del conflitto. È originario di Dara’a, regione a ridosso di Giordania e Israele che nel 2011 venne travolta da grandi manifestazioni anti-Assad. «Inizialmente noi sciiti non ci schierammo, ma le proteste vennero via via egemonizzate da gruppi estremistici che invocavano lo sterminio delle minoranze», racconta. «Alcuni loro gruppi iniziarono ad assaltare le nostre comunità, sequestrando o uccidendo parecchi di noi. L’esercito siriano era troppo debole e non riusciva a proteggerci». Fu in quella fase che iniziarono ad arrivare i combattenti sciiti dall’estero, che si posero come forze di difesa dei propri correligionari siriani. I primi furono gli Hezbollah libanesi che rapidamente crearono un proprio distaccamento in Siria, chiamato “Hezbollah siriano”, a cui Ali si aggregò.
«Ci portarono in Libano dove ricevemmo un addestramento militare. Poi tornammo a Dara’a a combattere». Per anni Ali ha combattuto nella sua terra natale contro i gruppi anti-Assad che, racconta, ricevevano soldi e aiuti dalla vicina Giordania e avevano tra le loro file tanti stranieri. Nel corso del tempo iniziò a essere a sua volta affiancato da combattenti iraniani, iracheni e afghani, tutti controllati da Teheran. Tuttavia, nel 2015 la sua città cadde in mano al nemico e lui riparò a Sayddah Zaynab. «Il governo siriano aveva fatto un accordo con l’Iran a cui veniva permesso di dislocare le truppe a lui fedeli intorno alla moschea e di investire massicciamente nei territori adiacenti. Ciò ha attirato gli sciiti da tutto il Paese che qui trovano sostegno e protezione».
Il governo degli ayatollah sta ponendo le basi per una presenza perpetua in Siria, così da essere in prima linea se si aprisse un nuovo fronte di guerra aperta contro lo Stato ebraico
Questo accordo non è mai stato rescisso. Chi si stabilisce in queste zone entra tutt’oggi a fare parte in un sistema di welfare che garantisce alloggi, sussidi, istruzione e maggiori probabilità di trovare lavoro. I soldati sciiti, inoltre, ricevono stipendi dall’Iran che possono essere fino a dieci volte superiore di quelli dei soldati regolari. Così gran parte della popolazione sciita siriana si è progressivamente concentrata in questa striscia, dove oggi convive con i combattenti stranieri rimasti nel Paese, con le migliaia di pellegrini che da tutto il mondo vengono a venerare Zaynab e con le guide politiche e religiose iraniane che qui si sono installate e che considerano Israele il proprio grande nemico. Perciò, negli ultimi mesi, questo territorio è stato ripetutamente colpito dai missili dello Stato ebraico.
una catastrofe umanitaria è già abbastanza
Nonostante i bombardamenti israeliani sulla Siria e su tutto il Medio Oriente, l’Iran e le truppe a lui fedeli non hanno mai sparato contro lo Stato ebraico dal territorio siriano, come invece avviene dal vicino Libano. Ciò è dovuto a ragioni sia umanitarie che geopolitiche: dal punto di vista umanitario i siriani sono affamati da anni di guerra civile (mai definitivamente conclusa), calamità naturali e crisi economica, quest’ultima legata all’effetto delle sanzioni occidentali contro il Paese. Secondo Unicef, il 90% della popolazione è ridotta in povertà, quasi la metà dei centri sanitari non è funzionante, 5,9 milioni di persone necessitano di supporto nutrizionale, 13,6 milioni sono in bisogno d’acqua e servizi igienici. Trascinare la Siria in un nuovo grande conflitto diretto sarebbe letale per troppi, oltre che impopolare.
In questo contesto gli aiuti di Teheran sono una boccata d’ossigeno e di sopravvivenza per tanti siriani. Senza sparare, gli iraniani si stanno così radicando profondamente nel tessuto militare e sociale del Paese, concentrando il proprio welfare principalmente intorno a Sayddah Zaynab e impiantando invece la propria presenza militare a macchia di leopardo in numerose zone del Paese: da Damasco ad Aleppo, passando per i deserti al confine con l’Iraq alla contesa regione di Idlib. Qui, lungo la linea di contatto con i territori controllati dai gruppi anti-Assad, non è raro vedere trincee su cui sventolano i vessilli iraniani.
Teheran sta quindi ponendo le basi per una propria presenza perpetua nel Paese. Qualora lo ordinasse, i combattenti sciiti in Siria sarebbero in prima linea nell’aprire un nuovo fronte contro lo Stato ebraico. Finora ciò non è però avvenuto per ragioni geopolitiche: negli ultimi anni alcuni Paesi arabi alleati dell’Occidente come Arabia Saudita, Emirati e Giordania, hanno riattivato i propri legami politici con Damasco (precedentemente tagliati con lo scoppio della guerra civile del 2011, quando sostennero e armarono le opposizioni). Interessati a ripristinare i commerci con la Siria, i loro governi stanno provando a convincere quelli occidentali a rimuovere le sanzioni economiche, allentando così la morsa che affama la popolazione. Un piano, questo, che naufragherebbe se l’Iran trascinasse la Siria in una guerra frontale contro Israele, il principale alleato dell’Occidente nella regione. Le truppe leali a Teheran evitano quindi di attaccare, continuando però ad essere colpire dai bombardamenti dello Stato ebraico. Molti dei quali partono dal Golan.
Sulle vette
Addentrandosi tra le macerie di Quneitra si arriva costeggiare una lunga parete di filo spinato che segna la fine dei territori in mano alla Siria. Dietro di essa il terriccio marrone lascia spazio a verdi terreni coltivati e a lunghe file di pale eoliche che da qui riforniscono di energia lo Stato ebraico. Intorno ronzano i droni israeliani pilotati, con tutta probabilità, dalle basi sulle vette dietro di loro. Dei 1860 chilometri quadrati del Golan, 600 sono ancora in mano alla Siria. Per risalirli si percorrono strade deserte e tortuose che, costeggiate dalle trincee, si arrampicano sui monti.
Arrivati in cima, ci si imbatte di nuovo nel filo spinato dietro il quale, a poche decine di metri di distanza, inizia Majdal Shams, il primo centro in mano israeliana circondato da basi militari dello Stato ebraico. Lungo questo confine passeggia Sleiman, un uomo dalla pelle rugosa e olivastra che qui fa pascolare le capre. Appoggiato a un bastone e proteggendosi il volto dal sole con una kuffiah rossa, racconta che i pastori come lui vengono di tanto in tanto avvicinati dai soldati israeliani che chiedono informazioni sulla presenza degli iraniani. Mentre parla le esplosioni continuano a rimbombare nel cielo. Qualche giorno dopo un missile sparato probabilmente dal Libano cadrà su Majdal Shams, uccidendo 12 bambini. Israele risponderà con l’ennesima campagna di bombardamenti e omicidi mirati per tutta la regione che non si è ancora fermata. Continuando così questa guerra statica che rischia in ogni momento di degenerare in un’escalation.
L’arida campagna siriana ai piedi delle alture del Golan è una sterminata distesa di terriccio marrone ricoperta da macerie dello stesso colore e da case distrutte e abbandonate. Il silenzio è assoluto, in giro non c’è un’anima. All’orizzonte si vede alzarsi il Golan: alte montagne spoglie sulle cui cime svettano le antenne di numerose basi […]