Donato Carrisi: “Sfuggente, improvviso, qui: il male accanto”
Interviste

Donato Carrisi: “Sfuggente, improvviso, qui: il male accanto”

"Vittime e carnefici sono uguali: non lo riconoscono fino all’ultimo”. Parla lo scrittore italiano che fa più paura (anche all'estero)

di Fabrizio d'Esposito

Le vie del Male non sono solo infinite, ma anche tortuose e imprevedibili. Chi legge un libro o guarda un film di Donato Carrisi ne riemerge stordito, se non scioccato, e sgomento per la capacità dell’uomo di odiare, torturare e ammazzare. Ché quello di Carrisi è il Male gratuito di un unico assassino, non di una dittatura o di un clan mafioso. Cinquantenne pugliese – è originario di Martina Franca, provincia di Taranto – Carrisi è per antonomasia lo scrittore italiano che fa più paura, anche all’estero. Da tre dei suoi thriller (i libri di Carrisi vantano tre serie e storie singole) ha realizzato egli stesso altrettanti film: La ragazza nella nebbia, L’uomo del labirinto, Io sono l’abisso. Esploratore dell’inferno che può racchiudere la mente umana, Carrisi in questa lunga conversazione fa l’anatomia del Male.

Il Male si scrive sempre con la maiuscola?
Io lo scriverei sempre con la maiuscola, perché è una componente fondamentale dell’essere umano. Il Male ha sempre bisogno di un accento e di una sottolineatura, perché la sua caratteristica principale è che è sfuggente. Si insinua in maniera subdola nelle nostre vite o cova in segreto dentro di noi. A volte è invisibile, si muove intorno a noi ma non riusciamo a individuarlo fin quando non si manifesta e non si scatena. Altre volte ce l’abbiamo davanti agli occhi e non sappiamo riconoscerlo, assume sembianze familiari e non riusciamo a percepire il pericolo nascosto. Basta pensare alle vittime rimaste inconsapevoli fino all’ultimo o ai carnefici che prima non sospettavano nemmeno di essere carnefici.

Il patriarcato come “luogo” del Male? La cultura è sempre la soluzione, ma il processo deve partire dal basso: le élite ideologizzate invece vogliono una polizia del pensiero

L’omicidio è l’acme del Male: lei è un magistrale studioso dei labirinti della mente. Con il successo conseguito da scrittore e regista qual è la sua idea di Male perfetto?
Non sono d’accordo sul fatto che l’omicidio sia l’apice del Male, l’omicidio si consuma in fretta e la morte della vittima sazia la malvagità. Penso invece che l’odio sia l’acme del Male. L’odio è vivo e pulsante, si può diluire nel tempo come un veleno che consuma noi e gli altri. Si può perseguitare una persona per anni solo con un pensiero d’odio. E ci si può lasciare ossessionare da esso, senza scampo. E poi esiste l’idea che il Male sia perfetto, ma all’opposto il Male è imperfetto, altrimenti riusciremmo a individuarlo in qualsiasi momento, invece è proprio l’imperfezione che rende il Male quasi invisibile. Il Male si accumula come polvere sulle cose, non dobbiamo mai lasciare che accada.

E il Bene che cos’è? La fede insegna che il Male è funzionale al Bene, ma questa è teologia, filosofia: difficile spiegare il finalismo ai parenti delle vittime di un serial killer o di un maschio violento. O no?

La principale differenza fra Bene e Male è che quest’ultimo può essere sempre dimostrato empiricamente. Come si fa a provare, per esempio, che l’elemosina concessa al mendicante all’angolo di strada non è soltanto un modo per accarezzare il nostro orgoglio, per sentirci buoni, per sentirci migliori di ciò che siamo? Noi non possiamo dimostrare che le buone azioni siano dettate dal Bene e non soltanto dalla vanità o dall’orgoglio. Invece il Male lascia dietro di sé una serie di prove concrete: la scena di un crimine per esempio. Eppure il Bene è presente, lo avvertiamo nelle nostre vite e in quelle altrui e lo pratichiamo, altrimenti saremmo assolutamente malvagi. Bene e Male sono categorie che si adattano agli esseri dotati di intelletto, il Male è uno dei prezzi da pagare per l’intelligenza che ci è stata donata.

Lei ha il talento di far respirare il Male a chi legge un suo libro o vede un suo film. Questa cupezza agisce più sulla paura e sull’angoscia che sulla violenza e sulla rabbia: perché?
La violenza non è necessaria, ritengo che sia equiparabile alla pornografia. Quando racconto o mostro il Male la violenza è già accaduta, non mi interessa altro. Alcuni dei miei personaggi si portano appresso un bagaglio di rabbia, ma in fondo è ciò che accade a molti di noi nella società del benessere: viviamo meglio dei nostri antenati e questa è l’epoca migliore in assoluto della Storia, però siamo incredibilmente rabbiosi e non si capisce perché. Quando scopriremo l’origine o meglio la radice di questa rabbia, secondo me faremo anche una scoperta sociale clamorosa, perché ci rivelerà qualcosa di noi stessi che ci terrorizzerà. E forse allora inizierà un nuovo cambiamento.

Lei che scende e guarda nel buio e negli abissi, ci può dire che l’Inferno è in terra?
Quando mi calo nei panni di persone che si ritrovano improvvisamente immerse in una realtà fatta di malvagità e sono vittime innocenti di qualcosa di clamoroso, quello che mi rimane più impresso, e che mi riesce più difficile da raccontare, è il loro sgomento, il loro scoprirsi impreparati. Non so quindi dove sia l’Inferno, l’unica cosa che so è che è facile incontrarlo, ci si spalancano le sue porte davanti all’improvviso, ma non siamo mai abbastanza pronti a questa rivelazione.

David di Donatello. Donato Carrisi premiato come miglior regista per “La ragazza nella nebbia” nel 2018. foto getty images

L’uomo è un assassino sin dai tempi di Caino e oggi abbiamo varie categorie del Male, dal raptus sanguinario dell’uomo comune (basta persino un colpo di clacson per scatenare la follia) alla pianificazione di un omicidio, di un rapimento per torturare e uccidere. La mente va sempre curata, a prescindere? Oppure non c’è scampo, soprattutto per chi ha avuto choc e traumi?
Siamo sempre il frutto di un passato, che non è necessariamente solo il nostro, può essere anche il passato di qualcun altro: dei nostri genitori o di un mentore, anche negativo. Gli assassini, di cui tanto si parla in questa epoca strana e per i quali bisogna trovare sempre comunque un’etichetta, quella di mostro, sono prima di tutto delle vittime. Il Male non nasce dal nulla, non è un sentimento spontaneo, è sempre radicato in qualcosa. Abbiamo però smesso di interrogarci, noi vogliamo soltanto il mostro da sbattere in prima pagina e che ci faccia sentire buoni, quando invece potremmo tranquillamente essere al suo posto se le piccole cose della nostra vita ordinaria e pacifica deragliassero improvvisamente. Lo si intuisce anche dai social, dove non esistono regole e dove ognuno deve autoregolare la propria condotta: ogni giorno vengono perpetrate barbarie sul web ai danni di persone innocenti da parte di individui che nella vita reale sono assolutamente innocue. Quanto odio, quanta rabbia, quanti insulti e quanta violenza si scatenano lì dove non ci sono regole e dove vige un principio di libertà primordiale e violenta che non ha alcun senso. Allora mi domando: se anche il mondo reale perdesse i propri codici e le proprie leggi, cosa impedirebbe all’odio che cresce in internet di dilagare?

In una sua vecchia intervista proprio al Fatto ho letto che la sua cucina è tappezzata di articoli di giornale, così mangia e legge di morti ammazzati. Nel viaggio narrativo dalla realtà al romanzo cosa conserva? Senza dimenticare che Il Cacciatore del buio ambientato a Roma evocava il Mostro di Firenze.
Io prendo sempre spunto dalla realtà per arrivare al romanzo. Non scrivo fantasy o fantascienza per cui attingo e mi sporco le mani con la realtà. È necessario raccontare determinate cose, altrimenti le storie non avrebbero senso. È chiaro che alcune parti dei miei racconti sono difficili anche per me. Lo scrittore deve tenere lontano dalla pagina la propria etica, la propria morale e i propri principi, altrimenti non rende un buon servizio al lettore.

“L’uomo del labirinto”. Toni Servillo è Genko, un detective privato. Tra gli attori c’è Dustin Hoffman. foto getty images

A vedere le classifiche di vendita di libri, si potrebbe dire che l’Italia è una “Repubblica fondata sul delitto”. Certo è un fenomeno che riguarda anche altri Paesi, ma da noi il tasso di omicidi irrisolti (via Poma, forse Emanuela Orlandi) o che generano ancora dubbi (il citato Mostro di Firenze, il delitto di Erba) porta a rifugiarsi nella fiction letteraria. Almeno nei gialli, nei thriller, nei noir, il colpevole c’è sempre.
È risolutivo: chi si occupa di noir, di thriller, di gialli fornisce una soluzione al lettore, il che può essere anche consolatorio. Anche se nei miei libri non sempre avviene, non sempre il Bene vince e penso che questo piaccia molto ai lettori. Il mio rapporto con i lettori è un rapporto di assoluta onestà: tendo a non indorare la pillola, a non consolarli totalmente e non voglio rendere loro la lettura semplice. Alla fine dei miei romanzi e dei miei film c’è sempre una porta che si chiude e una porta che rimane leggermente aperta. Da quello spiraglio può ancora entrare qualsiasi cosa…

Perché un singolo caso desta l’attenzione morbosa del pubblico più di un massacro di massa in guerra o dei migranti che muoiono a centinaia nel Mediterraneo? Il Male ha bisogno di essere unico e non molteplice, se riesco a rendere il concetto
Dietro a un cadavere c’è sempre una storia, mentre decine di cadaveri fanno una statistica. Se raccontassimo le storie di quei morti probabilmente troveremmo un canale di empatia, ma a volte sembriamo più interessati semplicemente a parlare di numeri. Oltre a questo, il singolo caso ha più possibilità di essere risolto perché si individua più facilmente un colpevole dietro all’omicidio di un individuo. Quando ci sono cento morti nel Mediterraneo siamo tutti colpevoli, ma è più difficile per noi calarci in quei panni e ammettere che quelle morti dipendono anche dal nostro stile di vita e dai nostri privilegi. Forse non abbiamo fatto niente perché accadesse, ma sicuramente non facciamo nulla per evitarlo.

Il Male varia a seconda del luogo, tra città e montagna, penso al suo L’educazione delle farfalle?
Preferisco sempre raccontare il Male in un ambiente che abbia una forte identità e che viva come un personaggio vero e proprio. A volte utilizzo l’espediente del “non luogo” ma ciò non significa che voglia decontestualizzare la storia. Sono un creatore di labirinti, perciò il luogo può anche essere un’illusione.

Ultima domanda, politica, se vuole rispondere: il contesto sociale, familiare, religioso quanto conta? Mi spiego: il patriarcato un tempo era la regola.
In alcuni ambienti il sistema patriarcale è stato superato da una precisa presa di coscienza, in altri continua a esistere in maniera brutale e quasi medioevale. C’è una parte della società che sta evolvendo positivamente e che è consapevole di determinate problematiche, ma purtroppo c’è anche un’altra parte che è completamente arretrata. La soluzione è sempre la Cultura. Ma i processi culturali devono partire dal basso, invece oggi si tende a imporli dall’alto. Sono le élite ideologizzate a decidere cosa si debba dire o pensare, senza alcun contraddittorio. Penso agli ayatollah del politicamente corretto, alla polizia del pensiero che non ammette scostamenti dall’ortodossia, pena la fatwa. Inoltre i rinnovamenti culturali richiedono tempo. Non è detto che una conquista sociale debba avvenire per forza nell’arco di un’unica generazione. Ma molti non si rassegnano a questo. Invocano rivoluzioni che, come si sa, finiscono sempre e inevitabilmente nel sangue.

Le vie del Male non sono solo infinite, ma anche tortuose e imprevedibili. Chi legge un libro o guarda un film di Donato Carrisi ne riemerge stordito, se non scioccato, e sgomento per la capacità dell’uomo di odiare, torturare e ammazzare. Ché quello di Carrisi è il Male gratuito di un unico assassino, non di […]

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