Olimpiadi nomadi in Kazakistan: cavalieri e teste di capra sulla via della seta
Reportage

Olimpiadi nomadi in Kazakistan: cavalieri e teste di capra sulla via della seta

I giochi tradizionali dell’Asia Centrale sono diventati un evento globale: tra polo “Kokpar”, tiro con l’arco, aquile e lotta si sfidano anche il cowboy, l’ex ambasciatore e la judoka italiana

di Michela A.G. Iaccarino & Tommaso Rodano

I cavalli si confondono nella nube di polvere, una mandria impazzita che galoppa verso la sagoma di un capretto senza testa. Quella è “la palla” da conquistare per fare punto. I cavalieri sferzano ai fianchi gli equini con frustate ossessive fino a che dalla massa di uomini e animali si stacca un solo fantino: ha la maglia azzurra del Kazakistan, è il numero 9. Si sporge dalla sella, afferra prima degli altri la capra, ma viene circondato, braccato e poi sbalzato dalla carica di un avversario kirghiso. Si torna alla mischia che dura infiniti minuti in cui tutti provano a conquistare la carcassa, bianca e decapitata, ma nessuno riesce a portarla via con sé. Un muso, contro un altro muso, contro gli zoccoli di un altro cavallo finché qualcuno non cade in una nuvola di polvere e rabbia.

I fantini riescono a comandare i cavalli in simbiosi totale e come una creatura sola si lanciano verso il fuoco dell’azione. È una specie di polo brutale, un cruento rugby equestre. Si chiama “Kokpar”, è uno degli sport nazionali del Kazakistan, il più seguito di questi World Nomad Games, le “Olimpiadi” dei giochi tradizionali dell’Asia Centrale. L’hanno tramandato per secoli i pastori che abitavano le immense steppe dove un tempo c’era la Via della Seta. In Kirghizistan si gioca una variante denominata “Kok Boru”, in Afghanistan invece il nome è “Buzkashi”; persino i talebani, che l’avevano messo al bando durante la prima dittatura, si sono arresi alla sua popolarità e hanno accettato che tornasse legale.

“Per colpa vostra, di voi occidentali, la palla di testa di capra l’abbiamo dovuta fare in gomma”

In queste Olimpiadi asiatiche però nel “Kokpar” si usa una riproduzione della capra: un pupazzo di gomma che pesa circa trenta chili; solo nelle partite tradizionali si gioca col cadavere di una bestia vera, sacrificata e decapitata prima del gioco. «Per colpa vostra dobbiamo usarne una finta», spiega con un sorriso ironico un vecchio organizzatore russo mentre urla alla sua squadra a pochi metri dalla linea divisoria. Ha gli occhi a mandorla, viene dalle steppe siberiane. «Per colpa di chi?» chiediamo. «Di voi occidentali. Dobbiamo usare una capra finta, altrimenti l’Occidente ha detto che avrebbe vietato alle squadre internazionali di partecipare».

Le Olimpiadi dei pastori infatti da fenomeno locale si stanno trasformando in una manifestazione globale: stavolta hanno partecipato circa 2500 atleti di 89 paesi diversi. Non si sentono affatto occidentali, i ragazzi biondi, alti e ungheresi che se ne vanno trascinando gli stivali neri per l’ippodromo e vantano comuni tradizioni ancestrali con i nomadi del Kazakistan. Sono i fratelli Magyar, gestiscono una fattoria chilometri fuori da Budapest, hanno lottato nel “Kokpar” contro i turchi, «ma erano kirghisi travestiti da turchi, troppo forti per noi». Al “Kok Borusono arrivati perfino gli americani: nella squadra a stelle e strisce c’è Wyatt Mortenson, un cowboy del New Mexico che di mestiere fa lo stuntman e ha lavorato in alcune produzioni hollywoodiane (la più famosa è la serie tv Yellowstone). «Non ho ancora mai giocato in vita mia a questo sport», ride sotto i baffi neri, «ma chi se ne frega, è un’esperienza fantastica». Nella partita del girone gli Usa sono stati maltrattati dalla squadra di casa: è finita 12 a 4. «Ma vuoi mettere la soddisfazione di segnare quattro punti ai kazaki?».

Sotto gli zoccoli dei pastori una terra ricca di petrolio e gas

La finale è uno spettacolo. Si alternano violenza e lealtà, botte da orbi e momenti di inspiegabile bellezza. I cavalli sembrano nati per giocare, di certo sono stati allenati a lungo: non si sottraggono allo scontro, al contrario, lo cercano, rischiano la pelle, si esaltano nella competizione. L’ippodromo Kazanat è pieno, non passa uno spillo, la gente si è assiepata anche sotto le gradinate, al livello della pista, contenuta da un cordone di polizia. È un derby tra le due squadre più forti, Kazakistan e Kirghisistan. Il primo tempo si chiude sul 3 a 1 per gli ospiti, nella ripresa il Kazakistan completa la rimonta, va sul 4 a 3, ma si fa raggiungere clamorosamente quando mancano 28 secondi alla fine.

Si decide tutto nel tempo supplementare: chi segna per primo vince. E succede all’improvviso, dopo pochi minuti, quando la capra sbuca da una massa informe di musi, braccia umane, fruste, zampe e zoccoli che scalciano, avvicinandosi alla porta del Kirghizistan. Il numero 11 in maglia blu riesce a depositare la carcassa di gomma nel cerchio della porta avversaria. La gradinata ruggisce, salta in piedi, si mescola in un delirio collettivo: il Kazakistan ha vinto.

È la festa di Astana, città futuristica di grattacieli nuovissimi e monumentali, quasi tutti firmati da archistar occidentali. Le auto sfrecciano in strade a otto corsie che fino al 1997 non esistevano, proprio come tutto il resto qui intorno. Era solo steppa e cespugli, ma gli zoccoli dei cavalli dei pastori nomadi battevano su una terra che si è rivelata gravida di petrolio e gas. La capitale, che fino al 1997 era poco più di un villaggio, si è sviluppata in appena 20 anni seguendo l’ego ipertrofico di Nursultan Nazarbaev, autocrate e padre della patria sin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (solo nel 2019, dopo 29 anni consecutivi in carica, ha ceduto il testimone al delfino Qasym-Jomart Toqaev). L’eredità degli antichi popoli asiatici è una parata magnifica e piena di colori in una gigantesca città di plastica, monumento del turbocapitalismo.

Cavalli ancora, cavalli ovunque: è l’animale sacro per i nomadi dell’Asia centrale. Dalla sella si tira anche con l’arco: per la gara di “Zhamby Atu” sono arrivati arcieri da ogni angolo del mondo. Uomini e donne competono insieme, gli uni contro le altre. Si applaude l’amazzone polacca Magdalena, sostenuta a squarciagola da un gruppo di connazionali in tribuna. Ma in questo sport delle steppe remote a sorpresa vincono i francesi: portano a casa oro e bronzo. Poi c’è il “Kusbegilik”, la caccia con l’aquila. Ogni partecipante ha il suo rituale: il mongolo bacia il rapace, il georgiano invece gli sussurra all’orecchio. La russa Irina ha le piume sul cappello per assomigliare al suo volatile.

In mezzo agli atleti dai tratti orientali svetta un ragazzo altissimo, occhi azzurri e barba brizzolata sotto il cappello da cowboy, camicia rossa a quadri nera da tagliaboschi. «Mi chiamo Alan Hamson», dice, «sono l’ex ambasciatore canadese in Kazakistan, and I am here just for fun, sono qui solo per divertirmi». Sotto il tendone della yurta c’è una star a cui tutti vogliono strappare una foto: è la mongola Aisholpan, la prima cacciatrice di aquile donna nella storia di questo sport. A 13 anni ha debuttato sugli schermi mondiali in The eagle huntress (in Italia il film si chiama La principessa e l’aquila). In tribuna compare pure una bandiera spagnola e due signore strillano “España!” come tarantolate, sono arrivate da Malaga e Valencia. Questi pazzi, splendidi nomad games sono un piccolo villaggio globale. Una fiammella di storia e di tradizione in un Paese che cambia alla velocità della luce.

C’è anche l’Italia nelle Olimpiadi della steppa. L’unica medaglia tricolore è un oro, l’ha vinto la judoka friulana Betty Vuk. Trionfa a sorpresa in uno degli sport nazionali del Paese, la lotta kazaka. «Non l’avevo mai praticata prima, è diversa dal judo. Per me è stato un allenamento utilissimo, ho imparato tecniche nuove» racconta Betty, che alla carriera sul tatami alterna gli studi in scienze criminologiche. Fin quaggiù è arrivata perché «una mia amica sportiva mi ha raccontato di questa manifestazione, io non ne sapevo niente. Per fortuna l’ha fatto, è stata un’idea magnifica».

Bandiera russa. Qui può sventolare e gli atleti di mosca battono tutti nel tiro alla fune

Nulla, nemmeno la medaglia più preziosa – dice – è paragonabile a quello che ha imparato da questo viaggio. Finora aveva combattuto solo in Europa, nel bagaglio che riporta a casa ci sono le memorie di «un Paese incredibile» e di «una cultura nuova», «l’entusiasmo del pubblico», il loro sostegno e i loro applausi. Quando in finale ha battuto l’atleta kazaka, sostenuta da tutto il Palazzo del Ghiaccio, c’è stato un silenzio tombale, poi sono iniziati gli applausi. Alla fine erano tutti in piedi per lei, una fila di persone voleva farsi una foto con l’azzurra.

Sono le uniche Olimpiadi in cui può sventolare anche la bandiera russa, e suonare l’inno. “Russia, Russia, Russia” c’è scritto sulle spalle erculee degli atleti di Mosca che battono tutti nel tiro alla fune. Da noi è un gioco, qui uno sport con una carica agonistica tremenda. I russi conquistano l’oro stracciando il Kazakistan in finale: lo fa prima la squadra femminile, poi quella maschile. Le urla della lotta salgono fin sopra il soffitto, gli sguardi sono smorfie deformate da uno sforzo massacrante che dura un lunghissimo minuto. Un gigantesco kazako piange come un bimbo mentre scompare negli spogliatoi, ma quando le squadre risalgono per la premiazione, il podio diventa un unico abbraccio. Uno splendido Gioco.

I cavalli si confondono nella nube di polvere, una mandria impazzita che galoppa verso la sagoma di un capretto senza testa. Quella è “la palla” da conquistare per fare punto. I cavalieri sferzano ai fianchi gli equini con frustate ossessive fino a che dalla massa di uomini e animali si stacca un solo fantino: ha […]

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