Gli stranieri di Claire Fontaine

Gli stranieri di Claire Fontaine

Ecco l’opera che ha dato il titolo alla Biennale di Venezia. È firmata da un collettivo che lavora in un loft nel centro storico di Palermo. Il nome è ispirato all’urinale di Duchamp

di Gabriele Miccichè

Un loft nel centro storico di Palermo? Sembra difficile, ma non lo è se non si trasformano spazi industriali, ma un magazzino di uno dei più bei luoghi storici della città: il Palazzo Ajutamicristo di via Garibaldi, luogo affascinante della movida palermitana che conduce a piazza Rivoluzione dove campeggia una delle tre statue dedicate al Genio di Palermo.

Qui ha trasferito – da Parigi – lo studio uno degli artisti più interessanti dell’attuale panorama internazionale, Claire Fontaine. Si tratta in realtà un collettivo, formato da due artisti, James Thornhill e Fulvia Carnevale, nato nel 2004 a Parigi. Cito dall’enciclopedia Treccani/Arte: “Lo pseudonimo evoca la sonorità francese; infatti un noto brand di cancelleria del paese porta lo stesso nome. Inoltre, viene citato il celebre Urinale (Fontaine) di Marcel Duchamp, risalente al 1917” . Li incontro in questo intrigante spazio palermitano.

Un po’ di storia allora. «James ha sempre voluto essere un artista fin da piccolo. Ha studiato ad Amburgo e all’accademia di Glasgow, ha a lungo lavorato in modo site specific sulla città, sui rapporti di forza indotti dalle trasformazioni urbane. Fulvia ha una formazione filosofica e militante, ha studiato a Padova e Parigi, ha iniziato a lavorare in collaborazione con artisti nel 2002. L’arte contemporanea costituisce uno degli ultimi spazi di libertà rimasti in cui possiamo proteggere i semi della speranza che possa far crescere più libertà moltiplicando la gioia in un futuro meno buio del nostro presente».

L ’arte contemporanea è uno degli ultimi spazi di libertà

Quando vi siete sentiti realizzati in questo progetto? «Realizzati forse non è il temine giusto perché gli artisti lavorano sempre, non hanno mai l’impressione di aver prodotto il capolavoro della loro vita e di potersi riposare. La soddisfazione o piuttosto il sollievo vengono dalla risposta del pubblico, dal mondo professionale, dalle persone che si sentono toccate dalle opere, queste cose noi fortunatamente le abbiamo ottenute molto presto nel percorso di Claire Fontaine, forse anche perché abbiamo iniziato questo lavoro insieme quando eravamo già in qualche modo non più così giovani».

Il vostro incontro. A Parigi? «Quando ci siamo incontrati nel 2003 abbiamo subito iniziato a parlare del bisogno di uno spazio in cui esprimersi e pensare più liberamente di quanto possa accadere quando si lavora utilizzando il proprio nome. Claire Fontaine è realmente nata come uno spazio di “desoggettivazione”, una possibilità di abbandonare una coerenza con la propria identità che ci imprigiona dentro dei rapporti di forza che ci opprimono».

Quando avete realizzato i vostri primi successi e la sensazione di essere diventati una figura importante nell’arte contemporanea? «Le nostre prime mostre personali sono state nel 2005 a Berlino, a Meerrettish, in uno spazio gestito da un artista, Josef Strau, e a New York lo stesso anno in un altro spazio gestito da artisti, Reena Spaulings, creato dall’omonimo collettivo. Era un momento in cui le comunità artistiche esistevano a livello internazionale ed erano curiose e avide di novità. Oggi la trasformazione in industria del mondo dell’arte contemporanea è ormai completa, ma all’epoca c’era spazio per ispirarsi gli uni con gli altri, discutere e anche litigare. Ci si stimava a vicenda e si parlava una lingua simile, si esisteva su un piano di realtà comunicante che magari ciascuno abitava in modi completamente diversi.

Abbiamo avuto la nostra prima retrospettiva in un museo dopo cinque anni dall’inizio del nostro percorso, nel 2010 al Moca a Miami curata da Ruba Katrib, allora giovanissima: Economies fu una mostra molto sperimentale e varia, avevamo creato anche una programmazione cinematografica al suo interno che fu molto frequentata dal pubblico». Nel 2012 la personale al Museion di Bolzano. Ma Claire Fontaine si dedica, in maniera importante, anche alla scrittura. «Nel 2013 è uscita per Koenig la nostra prima monografia, Foreigners Everywhere in italiano, inglese, francese e tedesco.

Nel 2020 è uscita la seconda, Newsfloor, in inglese. Abbiamo sempre scritto parallelamente al nostro lavoro visivo e nel 2017 abbiamo pubblicato la nostra prima antologia in italiano, Lo sciopero umano e l’arte di creare la libertà, che da allora è stata tradotta in inglese, francese e portoghese. Quest’anno, nel 2024, oltre a partecipare e a dare il titolo alla Biennale di Venezia, abbiamo salutato la pubblicazione del primo saggio critico sul nostro lavoro di Anita Chari intitolato Claire Fontaine, A user’s manual. Queste sono alcune delle tappe del nostro percorso, ma ce ne sono tante altre più oscure, ma forse ugualmente importanti, alcune mostre memorabili e diverse biennali (Istanbul, Shanghai, Auckland, Lione, Sidney, Yerevan, Mardin)».

“Oggi la trasformazione dell’arte in industria è completa”

Quella dei collettivi d’arte è un fenomeno non nuovo che si sta però affermando prepotentemente negli ultimi anni. Un caso importante è rappresentato dai Ruangrupa, un collettivo di Jakarta (Indonesia), che ha curato l’ultima controversa edizione di Documenta Kassel.

Su quali basi teoriche avete basato il vostro sodalizio? Qual è la vostra “teoria” dell’arte e dell’essere artisti? Avete figure di riferimento tra i movimenti e gli artisti vostri coetanei o predecessori? «Abbiamo creato i concetti di artista ready-made e sciopero umano per definire tecniche e orizzonti dalla nostra pratica, sono concetti che condensano forme e strategie della desoggettivazione, critiche dello sfruttamento e della cattura delle nostre forze vitali da parte della società. La nostra concezione è quella della pratica della libertà, il fine non è liberarsi completamente un giorno ipotetico quando tutte le condizioni saranno riunite, ma esplorare tutte le possibilità che abbiamo a disposizione per utilizzare e accrescere la libertà che abbiamo già. Abbiamo un pantheon molto affollato che citiamo senza sosta, le femministe italiane, Carla Lonzi, Marcel Duchamp, Bruce Nauman, Cadie Noland, Michel Foucault e tante altre referenze per noi vitali».

Nel loro Pantheon c’è la femminista Carla Lonzi, oggi ingiustamente trascurata

Carla Lonzi (1931-1982), scrittrice, editrice e militante, può essere considerata la guida del femminismo italiano affermatosi negli anni Settanta. Una figura davvero importante, oggi ingiustamente trascurata. Il concetto di “artista ready-made” è, credo, fondamentale per la comprensione dei loro lavori. Gli artisti utilizzano materiali diversissimi: neon, video, scultura, pittura e testo, ma anche mattoni, stoffa, carta, monete.

La trasformazione che Claire Fontaine fa del ready-made duchampiano è veramente interessante. Non si trova più per strada, tra i cascami di una società industriale e consumista. Adesso si trova tra le pieghe dell’arte moderna. Un’arte che ha perduto completamente, negli ultimi cinquant’anni, qualsiasi linearità.

E allora il neon rimanda ai lavori dei maestri Lucio Fontana, che lo usa già dal 1951, Joseph Kosuth, Dan Flavin. È ormai diventato una tecnica dell’arte, un pennello, una tavolozza. È usato da moltissimi artisti. Loro lo evolvono con scritte incassate – che rimandano alla pubblicità – come nell’intervento del 2019 alla Sciaranuova, cantina dei produttori di vino Planeta, alle pendici dell’Etna, in cui viene citata una frase di Sciascia tratta dal suo libro sul fisico Ettore Majorana (che era nato a Catania), o come per l’allestimento per una sfilata di Dior nel 2020.

Ma le citazioni – e i riferimenti, e i rimbalzi – non finiscono qui. C’è molto Warhol; nei mattoni rivestiti da copertine di libri c’è Sophie Call; nei capolavori iconici dell’arte imbrattati ci sono i Chapman Brothers (ma le tele su cui lavorano non sono originali). E poi le scritte (Agnetti) e i veri e propri riferimenti a Duchamp. E molta Arte Povera, soprattutto Alighiero Boetti. L’importanza si concentra quindi sempre più sul contenuto: politico, sferzante, ironico. La forma si raccatta da dove piace.

Un lavoro importante? «Si è aperta da poco Manifesta 15 a Barcellona, dove abbiamo un’opera che inneggia al femminismo, When Women Strike the World Stops, forse questa spirale di guerra e di sterminio potrebbe essere arrestata solo da uno sciopero delle donne, lasciamo aperta la domanda».
Che è una domanda importante.

Un loft nel centro storico di Palermo? Sembra difficile, ma non lo è se non si trasformano spazi industriali, ma un magazzino di uno dei più bei luoghi storici della città: il Palazzo Ajutamicristo di via Garibaldi, luogo affascinante della movida palermitana che conduce a piazza Rivoluzione dove campeggia una delle tre statue dedicate al […]

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