Il confino delle Tremiti, la Cayenna dei gay. Nel 1939 l’ordinanza del regime fascista
Reportage

Il confino delle Tremiti, la Cayenna dei gay. Nel 1939 l’ordinanza del regime fascista

Nell'isola di San Domino arrivarono soprattutto gli "arrusi" da Catania. Con tanto di esami "clinici" per "attestare la devianza". Ma con gli abitanti si venne a creare una certa promiscuità... Oggi gli isolani tendono a dimenticare (e a tenersi i turisti d’élite)

di Federica Tourn | foto di Federico Tisa

“Sono stato pederasta per il passato, in paese qualcuno mi chiama Ninetta”. Così dichiarava l’11 aprile del 1939 Antonino P. di Paternò, 28 anni, di professione sarto, alla commissione provinciale che lo mandava al confino. A condannarlo per la sua omosessualità, definita dall’allora questore di Catania Alfonso Molina «una grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza», era il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che nell’Italia fascista dava alla polizia il potere di sanzionare con un provvedimento amministrativo (dalla diffida fino al confino, appunto, per un massimo di cinque anni) chiunque fosse ritenuto responsabile di “reati contro la morale”.

Il sarto di Paternò non è l’unico a cadere nella rete del solerte questore: nel 1939 ben 45 omosessuali catanesi finiranno in esilio alle Tremiti, un puntino sulla carta geografica davanti al promontorio del Gargano. Il giro di vite inizia a gennaio 1939. Subito dopo l’arresto, gli omosessuali sono costretti a sottoporsi a un esame clinico che ne accerti la devianza: il sistema, messo a punto dal medico francese Ambroise Tardieu nel 1857, prescrive l’utilizzo di uno strumento che determini l’ano “infundibiliforme”, considerato segno certo di omosessualità passiva (al contrario, gli “attivi” sarebbero caratterizzati dal “membro canino”).

Evidentemente priva di ogni evidenza scientifica, oltre che molto violenta, la visita è considerata determinante per la diagnosi di “pederastia”, come spiegano Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio nel libro La città e l’isola. Come controprova, due noti arrusi, come vengono chiamati gli omosessuali “passivi” nella rigida distinzione di ruoli sessuali della Catania degli anni ’30, vengono liberati proprio perché risultano “negativi” al metodo Tardieu. Gli altri finiscono tutti in carcere, finché Molina non decide che per loro c’è qualcosa di più definitivo: San Domino.

Su queste coste ostili sono finiti reclusi la nipote dell’imperatore Augusto accusata d’adulterio, ma anche antifascisti, ebrei, mafiosi. E pure l’assassino di Matteotti

La colonia penale dei Borboni

Le due isole abitate dell’arcipelago delle Tremiti, San Domino e San Nicola (le altre tre, Capraia, Pianosa e Cretaccio, sono poco più che scogli affioranti dal mare) erano state destinate a colonia penale già a metà del 1700 dai Borboni. Su queste coste inospitali, per secoli presidiate soltanto dai monaci (prima i benedettini intorno all’800, poi i cistercensi, infine i canonici lateranensi, cacciati da Ferdinando IV di Napoli proprio per destinare le isole alla detenzione degli indesiderabili), sono passati nei secoli antifascisti, ebrei, mafiosi, detenuti comuni e criminali illustri come l’assassino di Matteotti Amerigo Dumini, e persino 1300 libici, prigionieri della guerra italo-turca del 1911.

Nell’anno 9 la nipote dell’imperatore Augusto Giulia Minore, madrina di tutti gli esiliati, era stata relegata qui incinta e con l’accusa di adulterio, e qui era morta di consunzione – cioè, in sostanza, di noia. Primordiale e selvaggia, sormontata dalle mura di un castello del XIII secolo dall’aspetto kafkiano, San Nicola ha sicuramente terrorizzato all’arrivo il giovane sarto e gli altri arrusi oggetto della persecuzione del regime. Nella prima metà del Novecento, chi sbarcava alle Tremiti prima dell’avvento del turismo doveva ancora avere l’impressione di trovarsi di fronte a una fortezza inaccessibile, quasi come il Conte di Montecristo davanti all’isola di If. «San Nicola di Tremiti è proprio un vecchio roccioso nido di corsari», scriveva infatti Jaurés Busoni, antifascista livornese condannato al confino nel 1926.

Orecchio “elissoidale”, sangue “pallido”: così, con lente razzista dell’autorità fascista, ce li descrivono i documenti dell’Archivio di Stato

Gli “errori di gioventù e le suppliche al Duce

Gli omosessuali catanesi, fino a quel momento sostanzialmente tollerati dalle autorità, sono disorientati dall’ordinanza che li condanna al confino. I documenti conservati all’Archivio di Stato di Roma ce li restituiscono sotto la lente razzista dell’autorità fascista che, con la precisione di un entomologo, li cataloga minuziosamente. La cartella biografica della Pubblica Sicurezza (Direzione Affari generali e riservati) nel suo determinismo lombrosiano ci informa per esempio che Salvatore F., classe 1902, di professione macellaio, ha testa “curva” e fronte “sfuggente”, orecchio destro “elissoidale”, nonché “sangue pallido” – qualsiasi cosa significhi. C’è chi nega sdegnato “l’accusa infamante”, chi ammette ma minimizza, tutti implorano clemenza.

Il sarto di Paternò invoca le attenuanti del “pervertimento giovanile”: “Da ragazzo inesperto mi concessi al coito anale – si legge nella supplica – ma giunto a età di comprensione e decoro, sia da me stesso, come per il decoro e la sorveglianza della famiglia, smisi”. In qualche caso, intervengono i genitori: la madre di Emanuele B. si rivolge direttamente a Benito Mussolini e a “donna Rachela” perché mettano fine all’esilio del figlio, che ha «adempiuto agl’obblighi militari» e soprattutto è un buon fascista, regolarmente iscritto al partito.

Se la risposta ai ricorsi è in genere negativa, a volte gli arrusi riescono a farsi dare un permesso per tornare a casa, soprattutto in occasione di lutti o malattie in famiglia. Orazio L., detto “il francese”, appena ventenne, nel maggio del 1940 riesce a ottenere una licenza per sostenere l’esame di licenza ginnasiale. Degli studi classici risente la lettera accorata che il ragazzo manda dal confino al ministro degli Interni: “Quattro lunghi mesi di prigione – si lamenta – pene, vergogne, e di più grave, una manata di fango sul viso di quattro sorelle, di tre fratelli e dei miei onestissimi genitori”. E tutto questo, prosegue, perché una volta sola a quindici anni, uscito dal collegio, “un disgraziato mi costrinse a fare ciò che ora avrei aborrito?”.

Promette di intraprendere la carriera ecclesiastica e dedicare la vita a riparare “lo scandalo e il disonore”, ma il prefetto di Catania Cesare Vittorelli non si lascia intenerire e respinge la richiesta di clemenza con una raccomandata lapidaria. “Egli era uno dei più attivi e dei più pericolosi pederasti di questa Città – taglia corto Vittorelli – Lavorava raramente e trascorreva le giornate negli esercizi pubblici e nelle sale da ballo, dove adescava i giovani inesperti”. Orazio L. il 2 giugno 1940 otterrà comunque una licenza di dieci giorni per dare l’esame e non farà più ritorno sull’isola.

I tremitesi oggi non parlano volentieri degli “arrusi”: il passato stride con l’immagine vacanziera dell’isola. E gli skipper indicano più volentieri la casa di Lucio Dalla invece dei casermoni che ospitavano i deportati

“Anche in paese c’era chi andava dai femminielli”

I tremitesi oggi non parlano volentieri degli arrusi: i testimoni di quel periodo sono ormai tutti morti e questa pagina oscura della storia locale (e dell’Italia) cozza con l’immagine sgargiante delle Tremiti come destinazione estiva d’élite. Gli skipper che ammassano i turisti nelle barche per fare il giro delle coste preferiscono indicare la casa di Lucio Dalla o le grotte delle foche monache che ricordare il periodo in cui qui deportavano gli omosessuali. Eppure a San Domino sono ancora ben visibili i casermoni che li ospitavano, ora diventati abitazioni civili, e la prigione, in parte crollata, dove venivano rinchiusi e torturati quando trasgredivano le regole.

Gli arrusi condividevano di fatto la sorte degli altri coatti, costretti ad arrangiarsi fra piccoli contrabbandi e lavori umili, alla mercè dell’umore del direttore della colonia. Anche i locali, obbligati da secoli alla coabitazione con i deportati, da un lato li subivano e dall’altro ne approfittavano, sviluppando quel carattere aspro che da queste parti è ormai un luogo comune. «Gli omosessuali cucivano, improvvisano spettacoli teatrali e si facevano portare appena possibile a San Nicola, dove c’erano gli altri deportati, i “maschi-maschi”», racconta Gabriele Carta, ufficiale di stato civile in pensione. Le relazioni sentimentali e i favori sessuali non si limitavano ai detenuti ma a volte coinvolgevano gli stessi carcerieri, esiliati di fatto anche loro, e le poche famiglie del luogo, che nell’isolamento erano nate e cresciute. «Anche in paese c’era chi andava a farsi fare le marchette dai femminielli», conferma Carta.

Ma dal dicembre del ’39 nessun omosessuale viene più destinato qui, ora le prigioni servono per i detenuti politici: è scoppiata la guerra

Non è chiaro se l’intenzione del governo fascista fosse quella di concentrare tutti gli omosessuali alle Tremiti, per separarli definitivamente non solo dalla società dei “normali”, ma anche dagli altri confinati: questo folle progetto, se pure è stato concepito, non venne mai realizzato. È un fatto che dal dicembre 1939 nessun arruso viene più destinato alle Tremiti. Alla fine di maggio del 1940 i 65 omosessuali presenti in quel momento a San Domino si vedono commutare il confino in semplice ammonizione: la guerra è iniziata e i casermoni devono essere svuotati in attesa dei prigionieri politici, ben più pericolosi di Ninetta, del Francese e dei loro compagni. Nonostante le sofferenze patite, al momento di partire non mancano le lacrime: c’è chi lascia qualcuno, chi forse già rimpiange la libertà, per quanto condizionata dalle rigide condizioni della colonia, di poter essere sé stesso senza dover fingere né nascondersi.

Oggi San Domino, 208 ettari, conta un centinaio di residenti, San Nicola appena 18. A settembre ha riaperto la scuola primaria, chiusa dal 2012, ma chi ha bambini deve comunque prevedere di trasferirsi “in continente” per far terminare gli studi ai figli. «Una vita faticosa – ammette Michela, impiegata comunale – per anni mio marito ed io abbiamo vissuto separati, io a Termoli con i ragazzi e lui a San Nicola a gestire il bar». D’altro canto, c’è chi subisce il fascino della natura ridotta all’essenziale e decide di trasferirsi alla Tremiti, come Tiziana, un tempo avvocata e oggi ristoratrice. Anche Gabriele Carta, sardo di origine, è un tremitese di adozione. È un appassionato custode delle storie di queste isole che, sotto lo sguardo ligneo della madonnina nera di San Nicola, si sono stratificate nel tempo come le rocce.

Sotterranei, Gladio e Gheddafi: l’isola fatta di misteri

Nei suoi racconti, le memorie dimenticate dei coatti e degli arrusi si saldano a quelle dei frati dell’Abbazia di Santa Maria a Mare, con i suoi cunicoli sotterranei che si dice abbiano custodito scheletri e armi di Gladio, o quelle dei libici, morti di tifo o forse uccisi a sangue freddo. I sopravvissuti all’epidemia furono solo 13 e Gheddafi, che voleva annettere le Tremiti sostenuto dal sindaco dell’epoca Giuseppe Calabrese, nel 2008 convinse un rappresentante per famiglia a sottoporsi al test del dna per dimostrare che gli isolani avevano sangue libico. Una cronaca ai limiti del fantastico, ma qui al largo dell’Adriatico la storia si fonde con la letteratura, a partire dai leggendari amici di Diomede, trasformati da Afrodite in uccelli marini che gridano notte e giorno, fino alla non meno misteriosa bomba esplosa al faro di San Domino la notte del 7 novembre 1987.

Dopo la guerra, nessuno ha più visto i ragazzi del 1939. «Quando lavoravo in comune mi telefonavano, chiedevano notizie della gente di qui, qualcuno diceva che voleva ritornare», ricorda Carta. Alla fine però, nessuno è tornato. A San Domino, il compito di fare memoria degli arrusi è affidato oggi a una piccola targa, affissa nel 2013, che assicura ottimisticamente che “le Isole Tremiti non dimenticano” . Un’altra targa ricorda Pinuccio Calabrese, morto all’improvviso la scorsa primavera. Campeggia sopra una sedia arrugginita nel déhor del bar di famiglia, avvertendo l’incauto passante di non azzardarsi ad occuparla, «perché qui si è seduto un grande sindaco e un grande uomo». I turisti, ignari delle storie complicate di queste isole, guardano distratti e passano oltre, in cerca di souvenir della statua sommersa di padre Pio, che dal 1998 nei giorni di bonaccia guarda impassibile San Nicola dal fondo del mare.

“Sono stato pederasta per il passato, in paese qualcuno mi chiama Ninetta”. Così dichiarava l’11 aprile del 1939 Antonino P. di Paternò, 28 anni, di professione sarto, alla commissione provinciale che lo mandava al confino. A condannarlo per la sua omosessualità, definita dall’allora questore di Catania Alfonso Molina «una grave aberrazione sessuale che offende la […]

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