Una gloriosa giornata di settembre a Sarzana, nel mezzo del Festival della Mente, il tavolino di un bar di Piazza Matteotti. A dieci passi si diffonde Lotta Comunista. Comincia da qui l’intervista a Viet Thanh Nguyen, vietnamita, americano, rifugiato all’età di quattro anni, diventato, negli Usa!, ateo e marxista, scrittore e premio Pulitzer. L’intervista prosegue a pranzo e poi a cena e due giorni dopo in casa editrice, a Milano, quando finalmente a fare le domande sarà l’intervistatore italiano. Prima le domande le ha fatte tutte lui, lo scrittore. Chi sono questi che vendono stampa comunista per strada? E quanto pesano nella vita politica nazionale? E tu, perché sei comunista? Cosa significa essere comunista, oggi, in Italia? Viet Thanh Nguyen è curioso, avido di notizie, e pronto alla discussione. D’altra parte, basta leggere i suoi romanzi o, soprattutto, lo strepitoso “Io sono l’uomo con due facce”, il memoir, saggio, pamphlet, romanzo famigliare appena uscito da Neri Pozza.
Nato in Vietnam e ripartorito in America come scrive di sé nelle ultime pagine del suo ultimo “L’uomo a due facce”. Com’è diventato un “ingrato”, come è successo che un rifugiato figlio di rifugiati in fuga dal comunismo si sia radicalizzato diventando in America, negli Stati Uniti, addirittura marxista?
I miei genitori erano cattolici molto devoti nonché capitalisti molto devoti. E paradossalmente sono diventato un marxista ateo. Questo forse perché ho preso troppo sul serio la lezione cattolica, forse però interpretandola in modo sbagliato, vedendo in Gesù Cristo un uomo radicale, un rivoluzionario, che credeva nei valori della giustizia sociale e dell’uguaglianza ed era contrario all’ipocrisia e al potere. Sono partito da un’educazione molto conservatrice che ha fatto di me un grandissimo lettore, uno che faticava a prendere i precetti per oro colato. Li ho interpretati grazie alla mia educazione e istruzione.
Il cuore di Apocalypse Now è dalla parte giusta: è contro la guerra. Ma non riconosce mai l’umanità del popolo vietnamita
Cosa è una “minoranza modello”? E quanto ha pesato appartenere a una minoranza modello nella sua trasformazione in un “ingrato”?
Negli Stati Uniti, ma questo vale forse anche per l’Italia, le minoranze vengono percepite in modo binario, o buone o cattive. Per quanto riguarda la comunità dei rifugiati asiatici, e questo vale per gli Usa ma anche per la Francia, storicamente era percepita in modo molto negativo: noi eravamo il pericolo giallo, sia dal punto di vista politico che economico e persino igienico. Più recentemente però, le comunità asiatiche immigrate negli Stati Uniti sono diventate la minoranza modello: ora siamo percepiti come ottimi studenti, bravi vicini e lavoratori instancabili, siamo docili. E quindi è come se servissimo da modello per le altre minoranze – tipicamente i neri, i latini o gli indigeni – che a loro volta non vengono viste come positive, almeno nella percezione dominante. Quindi siamo invitati a entrare nella società americana a discapito di altre minoranze. Questo accade anche in Francia, a discapito di arabi, neri, nordafricani o musulmani. Il mio lavoro consiste nel rifiutare questo binomio tra immigrazione buona e immigrazione cattiva, e mettere in discussione anche il sentimento di gratitudine nei confronti degli Stati Uniti. Naturalmente io sono riconoscente agli Stati Uniti per avermi accolto come rifugiato e per le opportunità che ho avuto, ma una parte di me non può non pensare che non avrei avuto bisogno di essere salvato negli Stati Uniti se il nostro Paese non fosse stato invaso proprio dagli americani. Ecco una domanda che le minoranze modello non dovrebbero mai sollevare.
Tutto il libro, e in questo davvero risulta illuminante il rapporto di parallelismo tra i due romanzi, è all’insegna della contraddittorietà. Viet Thanh Nguyen, lei non è una spia come il suo protagonista, ma anche lei rivendica, o lamenta, due facce: americano e vietnamita, colonizzato e colonizzatore perché l’etnia da cui discende la sua famiglia venne insediata nel territorio di una popolazione tribale come i Montagnard, impregnato di cultura americana e nello stesso irrimediabilmente ‘Altro’… Come ci si sente ad avere così tante facce?
Il romanzo Il simpatizzante si apre con la frase “Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce”. E queste sono le caratteristiche del protagonista de Il simpatizzante, che è una spia, ma sono anche le mie, corrispondono e rispecchiano la mia esperienza di rifugiato cresciuto negli Stati Uniti. Il simpatizzante è il primo romanzo di una trilogia e il terzo romanzo, che sto iniziando a scrivere, si aprirà con la frase “Sono una spia, un dormiente, un fantasma, sono l’uomo con molte facce”, che rispecchia la trasformazione che avviene nel personaggio, ma che è avvenuta anche in me. Ho sempre pensato alla mia identità in modo binario, ad esempio come colonizzatore e come colonizzato. È stato molto importante per me riconoscermi come qualcosa in più di una semplice dualità, ma proprio questa dualità è un punto di partenza per capire come il potere ha potuto operare sulla società e su di me. Per poter superare il problema della dominazione è necessario abbracciare le molte facce che convivono in me.
Dall’infanzia alla paternità, il fil rouge, anche cronologico, è sicuramente quello biografico. Al centro della scena sono le figure di Ba e Ma, ossia suo padre e sua madre.
La relazione con i miei genitori è stata estremamente importante per me, ma è stata anche una relazione banale, cioè le questioni che ho affrontato nel rapportarmi con loro sono le stesse domande universali che si pongono tutti: chi sono i miei genitori? Che cosa significano per me? Volevano fare di me una persona che non era quella che io volevo diventare e al tempo stesso sono riusciti a trasmettermi il senso del sacrificio, della compassione. Sono valori che mi hanno formato anche come scrittore, perché da scrittore ho voluto onorare la storia della mia famiglia e anche indagare la storia che li ha formati come individui che hanno poi influenzato me. Una storia molto difficile da indagare, perché loro, intenzionalmente e non, mi hanno al tempo stesso trasmesso gli strumenti per la scrittura – l’empatia, la passione, la disciplina – che io ho usato per scrivere, onorandoli ma anche tradendoli. Non credo infatti che loro volessero che io scrivessi la loro storia e invece l’ho fatto, con questo memoir.
Mi sono sempre pensato in modo binario, colonizzatore-colonizzato. Riconoscermi oltre la dualità è il modo per superare il problema della dominazione
Qual è il suo rapporto con il Vietnam? Lei è tornato nel suo paese d’origine, ma cosa vuol dire tornare a un posto in cui non si è mai stati?
Il Vietnam ha sempre occupato un posto importante nella mia mente e nel mio cuore. Innanzitutto, perché è dove sono nato e da sempre avverto un legame psicologico e culturale con quel Paese, legame che sento ancora oggi, anche perché negli Stati Uniti vive la più grande comunità vietnamita fuori dal Vietnam, rifugiatasi negli Stati Uniti per via della guerra. Il fatto di essere vietnamita è sempre stato importante per me e a tratti conflittuale nella mia identità. Sia dal punto di vista culturale, del crescere da vietnamita negli Stati Uniti, sia dal punto di vista politico, ovvero mi ha portato a chiedermi come fosse percepito il Vietnam a livello globale e nell’immaginario degli Stati Uniti. Per il resto del mondo il Vietnam esiste essenzialmente come luogo immaginario di un’entità rivoluzionaria che si è ribellata contro il colonialismo, prima francese e poi statunitense, e questo è vero, ma è anche difficile sostenerlo in un paese anticomunista come gli Stati Uniti e anche all’interno della comunità vietnamita, a sua volta contraria al comunismo. Questo è quindi un tema non solo culturale, che riguarda la mia identità, ma anche molto politico. Nel Vietnam il comunismo è ancora ufficialmente il partito al potere, che tuttavia convive con una filosofia economica capitalista quasi altrettanto ufficiale. Dopo che Il simpatizzante ha avuto moltissimo successo nel 2016, è stato interessante constatare che il governo vietnamita ha vietato la pubblicazione di qualsiasi mio lavoro; quindi per me al momento è impensabile tornare in Vietnam.
Di “Io sono l’uomo con due facce” colpisce da subito, anche visivamente, in termini di impaginazione, la complessità strutturale, la natura molteplice sul piano dello stile come su quello dei contenuti. Autobiografia, saggio critico, pamphlet politico, romanzo famigliare, tutti questi aspetti convivono, fino ad arrivare a spezzare la riga in versi, a diventare poema. Come nasce e come è andato componendosi questo libro?
Prima, alla domanda sulle due facce, ho risposto che ho molte facce, non solo due. Il libro esprime proprio questo. Per ognuno dei miei libri devo trovare la forma adatta che corrisponde a un progetto specifico, quindi ogni libro è profondamente diverso. Qui sono dovuto venire a patti con il fatto che stavo scrivendo della mia famiglia, dei miei genitori e di me stesso, e tutto questo pur avendo una memoria imperfetta: ricordo benissimo alcune cose della vita mia e della mia famiglia, altre cose le ho cancellate, volutamente oppure no. Se avessi voluto rendere un memoir con una scrittura simile a quella del Simpatizzante, una scrittura sempre fluida e coerente, sarebbe stato necessariamente un lavoro di fiction. In fondo, chi ha una memoria e una narrazione sempre perfettamente coerenti?
Quanto è importante lo humor nella sua scrittura?
Sono cresciuto e sono stato educato in una famiglia cattolica, di conseguenza ero molto represso, il che per uno scrittore è di per sé un’ottima cosa, ma bisogna anche trovare la propria voce. E più scavavo, più scoprivo che avevo il senso dell’umorismo. Non lo sospettava nessuno prima che mi mettessi a scrivere, nemmeno io! La verità è che lo humour è uno strumento fondamentale per criticare il potere. I potenti non vogliono essere derisi, sono abituati a nascondere tutte le loro ipocrisie, assurdità e contraddizioni. Il senso dell’umorismo è quindi importante sia per la sopravvivenza sia per una critica politica, sia nel mio lavoro di narrativa che in questo libro di non fiction. La satira è sempre stata usata dai più deboli per criticare e difendersi dai potenti. È uno strumento che non richiede nient’altro che delle semplici battute di spirito e la propria immaginazione. Gli emarginati hanno sempre utilizzato questo strumento per deridere i potenti e per rendere le proprie vite più vivibili.
La “doppiezza” del titolo si fa evidente nel confronto con la cultura americana: da un lato un sincero amore, un’autentica passione per scrittori e registi, libri e film, e dall’altro la messa in discussione delle buone intenzioni ipocrite e lo svelamento del razzismo che sottende a tutta la produzione culturale americana, a partire da capolavori come, un esempio per tutti, “Apocalypse Now”…
È stato interessante essere un americano, cosa che io sono, e al tempo stesso un rifugiato, quindi un outsider, e perciò crescere nutrendomi della cultura americana, andando regolarmente alla biblioteca pubblica e divorando tutti i capolavori – e non – della letteratura occidentale, fino a rendermi conto a un certo punto che quei capolavori non erano indirizzati a me, che nessuno di quei grandi autori della letteratura inglese, americana, francese, tedesca, avevano mai pensato che un giorno un ragazzino di origini vietnamite come me avrebbe letto i loro libri. Eppure, quelle opere mi parlavano. Confrontandomi con il canone occidentale, letterario o cinematografico, capisco che relazione mi lega a esso. In fondo io sono in qualche modo lo spettatore o il lettore non-ideale. Questo discorso non riguarda solo Apocalypse Now: ci sono molte altre opere in cui mi sono riconosciuto come essere umano e al tempo stesso mi sono sentito umiliato in quanto persona asiatica: Apocalypse Now non è l’unico, ma dal punto di vista personale era molto importante perché è un film che racconta la guerra in Vietnam, per di più dal punto di vista americano. La cosa interessante è che secondo me comunque il cuore di questo film è dalla parte giusta: è chiaramente un film contro la guerra. Eppure non riesce in alcun modo a riconoscere l’umanità del popolo vietnamita. Da un certo punto di vista l’opera mi ha traumatizzato, fatto arrabbiare, ma anche entusiasmato dal punto di vista tecnico. E racconta tante verità umane, compresa la verità del razzismo: quindi è possibile essere un grande artista e al tempo stesso un razzista, un classista, un sessista. Sta qui tutta la complessità e la forza che i grandi capolavori dell’arte riescono a comunicare. Da scrittore ritengo sia importante, per fare bene il proprio lavoro, riconoscere questa complessità, riconoscere che Apocalypse Now, insieme a tutto ciò che rappresenta, mi ha motivato a scrivere in reazione al film, non perché il film fallisca nel suo intento, ma perché si tratta di un capolavoro imperfetto.
La soluzione alla colonizzazione è la decolonizzazione, ma come si decolonizza una cultura?
Questa è una domanda che mi occupa molto la mente. La decolonizzazione è un processo fisico, economico e politico ma anche culturale e psicologico che coinvolge nei suoi meccanismi sia i colonizzatori che i colonizzati. Anzi, forse per i colonizzatori può essere più difficile avviare il processo di decolonizzazione perché se ci pensiamo per i colonizzati è nel loro interesse, mentre per i colonizzatori no. Io mi rendo conto di quanto sia radicato in me il senso di colonizzazione quando vado in Francia, per esempio, un paese che ha colonizzato il Vietnam per più di ottant’anni in un contesto durissimo. Leggendo le testimonianze vietnamite sulla presenza francese in Vietnam si incontrano parole come schiavitù, per esempio. Se in Francia si solleva il tema dell’Indocina o del Vietnam questa percezione non c’è assolutamente. Sicuramente dai francesi non viene vista come una storia di schiavitù, e anche all’interno delle comunità vietnamite tutto questo sembra essere stato dimenticato. È come se persino molti vietnamiti tendessero ad associare la colonizzazione di quegli anni soprattutto agli aspetti positivi, che sicuramente c’erano, ma che sono indissolubilmente collegati a quelli negativi. Io stesso ne sono vittima, per esempio quando sento i suoni della lingua francese, che mi seducono e mi attraggono, eppure non dovrebbero! Ho lavorato moltissimo per mettere a fuoco gli effetti psicologici e culturali di questa colonizzazione a opera non soltanto dei francesi, ma anche degli Stati Uniti, e dell’Europa in generale, per tentare attraverso questa messa a fuoco di identificare quanto io abbia assorbito ideologicamente i valori dell’Occidente, da colonizzato. Tutto questo riguarda la percezione di me stesso, la mia posizione politica, i motivi per cui credo in un anticomunismo di riflesso, e ho uno sguardo di riflesso sul canone occidentale, riguarda la mia lotta e il mio modo di affrontare tutti questi temi attraverso la scrittura e attraverso la lettura. Credo sia un processo che durerà tutta la vita e che è tipico appunto del passaggio dalla colonizzazione alla decolonizzazione. In fondo, dobbiamo riconoscere che nel mondo la colonizzazione come periodo storico è durata più di cinquecento anni ed è probabile che ce ne vorranno altrettanti per decolonizzare il mondo, forse di più. Pensare che dovrò probabilmente dedicare il resto della mia vita a decolonizzarmi, e che potrebbe anche non funzionare, mi fa capire con quanta profondità la colonizzazione determina il mondo che mi circonda, nonché me stesso.
Non illudiamoci che Kamala Haris sia una radicale: distribuirà un po’ di risorse ma seguiterà a criminalizzare interi strati della popolazione
Gli Stati Uniti stanno per andare a nuove elezioni sotto il segno di forti incertezze. L’uscita di Joe Biden e la candidatura di Kamala Harris hanno riequilibrato le previsioni, ma secondo lei Harris riuscirà a tenere fino al giorno della votazione e soprattutto riuscirà a cambiare qualcosa in un’America così fortemente segnata dalla era di Donald Trump?
Sono uno spettatore ormai disincantato del teatro politico americano. Per dirne una, ero una delle poche persone nella mia bolla a non essere entusiasta di Obama quando fu eletto. Ovviamente mi piace Barack Obama come persona, e simbolicamente la sua elezione era un fatto molto importante per gli Stati Uniti e per il mondo, ma ero scettico sul fatto che potesse cambiare qualcosa di sostanziale. E infatti la linea di continuità con le amministrazioni repubblicane nell’esercizio del potere militare e politico è stata pressoché assoluta. La verità è che la gran parte degli elettori americani non si preoccupa minimamente della politica estera e della sua natura imperiale. Venendo a queste elezioni, penso che Kamala Harris abbia una reale possibilità di diventare Presidente e va da sé che la preferirei mille volte a Donald Trump, specie per quel che riguarda la politica interna. Ma allo stesso tempo non illudiamoci che Kamala Harris sia in alcun modo portatrice di una visione radicale. Con ogni probabilità sarà una versione aggiornata di Obama, il che significa che continuerà le tradizionali politiche democratiche, al massimo distribuendo un po’ di sostegni economici alle categorie più disagiate, il che mi vede ovviamente d’accordo, ma seguitando a chiudere le frontiere e a criminalizzare interi strati di popolazione, anche perché, non dimentichiamolo, Harris è stata per anni procuratore penale, quello è il suo background. Guardando fuori dalle frontiere, penso che la sua posizione sull’esercito di Israele e su Gaza sia fondamentalmente di continuità con la tradizionale politica americana: generiche dichiarazioni sulla salute, il benessere dei palestinesi e miliardi di dollari in armi per Israele.
Una gloriosa giornata di settembre a Sarzana, nel mezzo del Festival della Mente, il tavolino di un bar di Piazza Matteotti. A dieci passi si diffonde Lotta Comunista. Comincia da qui l’intervista a Viet Thanh Nguyen, vietnamita, americano, rifugiato all’età di quattro anni, diventato, negli Usa!, ateo e marxista, scrittore e premio Pulitzer. L’intervista prosegue […]