Mia madre ha messo un mio video su Facebook senza il mio permesso”. “Questa cosa mi ha dato più o meno fastidio perché non mi ha avvertito”. “Mi sono arrabbiato tanto perché ero imbarazzato”. In Italia, ogni anno i genitori pubblicano in media 300 foto dei figli sui social, quasi una al giorno. E prima del quinto compleanno ne hanno già condivise quasi mille. È lo sharenting, l’abitudine – diffusissima – di pubblicare sui social foto e video dei propri figli: la parola viene dall’unione di share, condividere, e parenting, genitorialità. I primi passi, il momento della merenda, l’espressione buffa durante il pisolino. E poi, crescendo, il primo giorno di scuola, la partita di rugby, la gita con i nonni.
Per tanti genitori è ormai un’abitudine consolidata, talvolta accompagnata da post che contengono anche il nome del bambino, la sua età, dove vive e altre informazioni sensibili. C’è chi mostra anche il viso del piccolo, e chi mette sulla faccia uno sticker per renderlo irriconoscibile – ma continua a esporre il suo corpo, che è comunque parte della persona. Senza valutare che i potenziali rischi sono tanti: dal furto di identità all’adescamento online, fino alle implicazioni psicologiche. “Un mio amico mi ha raccontato che sua madre pubblicava foto da quando era nato fino a oggi che ormai frequenta la scuola media”, racconta G., 12 anni. “In una discussione al campetto, i compagni dopo aver litigato l’hanno preso in giro per quelle foto. Lui è rimasto molto male e ha chiesto alla mamma di non pubblicare più niente su nessun social”.
E poi M., 13 anni: “Io penso che questo fenomeno sia abbastanza persistente nelle famiglie italiane. Certe volte i miei parenti mettono foto di me, soprattutto di quando ero piccola, e in alcuni casi sono foto che non vorrei fossero condivise. Penso che i genitori debbano chiedere il consenso e, se la persona in questione non accetta, non dovrebbero pubblicare”. Secondo uno studio del 2023 della Società Italiana di Pediatria (Sip), le tre tipologie di foto che vengono maggiormente pubblicate sono di vita quotidiana (mentre il bimbo dorme, gioca, mangia), di uscite o viaggi, e di momenti speciali (Natale, battesimo, primo giorno di scuola, compleanni). Una nuova indagine realizzata presso l’università Campus bio-medico di Roma ci dà la dimensione del problema: «Il 23% dei genitori italiani ha già postato foto online dei figli entro i 2 anni», racconta il pediatra Pietro Ferrara della Sip, che ha condotto lo studio. «Paradossalmente, il 71% è consapevole che la privacy dei figli potrebbe essere danneggiata, ma lo fa lo stesso». Tra i motivi per cui si condivide, il 47% afferma di farlo per creare un archivio di ricordi, il 14% per socializzare, il 4% per avere consigli. Uno su tre non chiede il consenso al bambino.
«La ricerca fa emergere che i genitori con un titolo di studio più alto sono quelli che pubblicano di più», afferma Ferrara. «A fare sharenting è il 45% dei laureati, il 44% dei diplomati, e solo l’11% di chi ha una licenza media». Il problema non è solo italiano: un’indagine internazionale evidenzia che in media l’81% dei bambini che vive nei paesi occidentali ha una qualche presenza online prima dei 2 anni, percentuale che negli Usa è pari al 92%, mentre in Europa si attesta al 73%. Questa abitudine coinvolge anche bambini molto piccoli: una ricerca del 2017 mostra che, entro poche settimane dalla nascita, il 33% dei neonati ha proprie foto e informazioni pubblicate online.
Uno studio rivela che in media l’81% dei bambini che vive nei Paesi occidentali ha una qualche presenza online prima dei due anni
Inoltre, un numero crescente di bambini nasce “digitalmente” ancor prima che realmente, tanto che oggi uno su quattro ha un qualche tipo di presenza online prima di venire al mondo. In Italia, il 14% dei genitori pubblica abitualmente ecografie sui social, percentuale che sale al 34% negli Stati Uniti. «Ci sono bambini che, quando iniziano a disegnare il corpo umano, al posto della mano disegnano lo smartphone», racconta la pediatra Tania Gerarduzzi, che ha preso parte al progetto Custodi digitali dell’associazione Mec-Media Educazione Comunità, per educare i genitori all’uso consapevole del digitale. «Il cellulare è percepito come una parte del corpo stesso: il modello di riferimento naturale è il genitore, che ha spesso il telefono in mano. Questo è vero fin dai primi giorni di vita: sono tante le donne che allattano guardando lo smartphone o scattando selfie, perdendo così il prezioso contatto tra gli occhi della mamma e quelli del bambino».
Piccoli fotografati sul water, bimbe di cui sono state condivise le prime mestruazioni, etichette politiche: “Non avete vergogna, vi portiamo in tribunale”
L’esordio della Ferragni che poi fa retromarcia
Il dibattito si è riaperto lo scorso marzo dopo che l’influencer Chiara Ferragni, in occasione del sesto compleanno di suo figlio Leone, per la prima volta ha immortalato lui e la sorella Vittoria di spalle, per nascondere il loro volto. Una scelta che poi si è mantenuta nei mesi successivi, dopo la sua separazione con il rapper Fedez, e che ha fatto riflettere su quali dovrebbero essere i limiti dell’uso dell’immagine dei minori online. Lo sharenting è infatti ancora considerato un’abitudine innocua e c’è poca consapevolezza dei possibili rischi.
Tra questi ci sono quelli legati alla sicurezza digitale e alla mancanza di controllo sull’immagine una volta che viene condivisa in rete: «Le informazioni personali pubblicate online possono essere utilizzate per dare luogo a truffe, frodi, spam, fino ai veri e propri furti d’identità», spiega Ferrara. «Oppure possono finire su siti pedopornografici, e comportare il rischio di adescamenti online e di contatti indesiderati». Un’indagine condotta dall’eSafety Commission australiana ha evidenziato come circa la metà del materiale presente su siti pedopornografici provenga dai social media, dove era stato precedentemente condiviso da utenti per lo più inconsapevoli di quanto facilmente potesse essere scaricato, non solo da amici.
Ma lo sharenting può avere anche potenziali ripercussioni psicologiche sui bambini che vengono frequentemente immortalati con foto e video che poi vengono pubblicati online. «In un’era in cui il digitale integra tutte le nostre esperienze, sempre più stiamo costruendo la nostra affettività anche attraverso le tecnologie», spiega la sociologa Brunella Greco, esperta di tutela online di Save The Children. «Il rischio è che i bambini siano portati a dare un significato affettivo all’eccessiva condivisione online delle proprie vite da parte dei genitori, e ad attribuire sempre più un valore alla ricerca del like e all’approvazione online, generando, tra i tanti aspetti critici, ansia da prestazione».
Si inizia a discutere di regolamentare lo “sharenting”: ognuno deve poter scegliere l’immagine di sé stesso che vuole diffondere in rete
In alcuni casi, il disagio può arrivare a esprimersi attraverso sintomi specifici: episodi di aggressività, isolamento, autolesionismo, disturbi del sonno sono solo alcuni dei campanelli d’allarme. «Negli ultimi anni il concetto di maltrattamento si è ampliato, fino a comprendere anche una esposizione perpetrata della propria immagine online», racconta Pietro Ferrara. «Gli effetti dello sharenting si potranno misurare solo sul lungo periodo: i bambini oggetto di sovraesposizione online, considerata come una delle esperienze negative nell’infanzia, potrebbero presentare le stesse lesioni organiche e modificazioni biochimiche di chi vive le forme classiche di maltrattamento».
Non solo: pubblicare informazioni intime e personali può essere anche causa di imbarazzo per il bambino anche una volta divenuto adulto, per esempio in colloqui di lavoro o test di ammissione all’università. Senza contare il fatto che la diffusione dei big data permette agli algoritmi di effettuare una sempre più massiccia profilazione. «Siamo davanti alla prima generazione di esseri umani “datificati” dalla nascita, che potrebbero essere selezionati, ma anche discriminati, in base alla loro storia personale», spiega l’antropologa Veronica Barassi, autrice del saggio I figli dell’algoritmo. «Ci sono molti contenuti che permettono all’algoritmo di categorizzarci: se in quei contenuti figurano anche i nostri figli, di fatto questi bambini vengono identificati ancora prima che abbiano una propria opinione. Oltre a questo, dobbiamo anche chiederci come potrebbero essere recepiti alcuni nostri posizionamenti in futuro, quando il mondo sarà cambiato».
Emblematica in questo senso è la storia di Maya, che Barassi racconta nel libro: Maya è una sostenitrice del Partito Democratico statunitense, e nel 2016 partecipa a vari comizi della campagna elettorale di Hillary Clinton postando foto con il proprio figlio. «Già in tenera età, questo bambino è stato ricondotto a una specifica identità politica», spiega Barassi. «Quando sarà grande, i contenuti che vedrà su internet tenderanno a rafforzare questa prima etichetta, limitando le sue possibilità di cambiare idea».
Dalla politica alle scelte di consumo, fino alla religione e ai riferimenti culturali, la profilazione e la targhettizzazione dei contenuti rischiano così di incanalare i percorsi di vita in pattern predefiniti e determinati da algoritmi, algoritmi di cui però non si conosce l’esatto funzionamento. «Il problema è che la profilazione algoritmica non è accurata, anzi c’è una profonda componente di errore umano», conclude Barassi. «L’intelligenza artificiale dà una rappresentazione estremamente limitata e stereotipata di noi, con molti bias interni che rischiano di discriminarci non solo per quello che siamo, ma anche per quello che non siamo».
La questione centrale è quella della tutela della privacy della persona e del consenso. «Ciò che porta i genitori a regolare il proprio comportamento di condivisione è il riconoscimento dell’agentività del figlio, ossia la consapevolezza che il bambino è un soggetto autonomo», spiega il pedagogista Davide Cino, autore del saggio Sharenting. I dilemmi della condivisione e la costruzione sociale della buona genitorialità digitale. I primi bambini a essere stati “condivisi” sui social nei primi anni Duemila sono ormai degli adulti, ma finora le ricerche italiane sullo sharenting si sono concentrate soprattutto sui genitori, più che sui figli. Nonostante ciò, dalle ricerche internazionali si possono osservare alcuni trend: «È possibile che i ragazzi maturino sentimenti di risentimento o contrastanti verso chi condivide la loro immagine online, ma non è la regola: nelle situazioni ordinarie, in famiglia c’è meno conflittualità di quella che si immagina», afferma Cino. «In molti casi, se i figli sono in disaccordo, chiedono al genitore di rimuovere il contenuto».
Se i figli fanno causa ai genitori
In alcuni casi, le richieste di rimuovere foto e video inopportuni o datati da parte dei figli è sfociata in vere e proprie cause contro i genitori. “Sono stanca di non essere presa sul serio”, ha detto una ragazza austriaca che nel 2016, appena 18enne, ha portato in tribunale madre e padre per aver caricato su Facebook circa 500 sue foto, molte delle quali scattate durante l’infanzia, senza il suo permesso. “Non conoscono vergogna, non hanno limiti. Non gli importa se quelle immagini mi ritraggono seduta sul water o nuda in una culla. Hanno fotografato ogni mio momento e l’hanno reso pubblico”.
E poi c’è il caso di Cam Barrett, che ha visto ogni passo della sua crescita condiviso sui social, dalle prime mestruazioni alla scoperta di essere stata adottata. “A volte mi nascondevo nella mia stanza per evitare di essere filmata”, ha raccontato alla Cnn la ragazza, che oggi ha 25 anni. “Non mi confidavo con gli adulti perché avevo paura che i miei segreti finissero sulle piattaforme”. Una volta cresciuta, Cam si è rivolta ai suoi legali per chiedere un risarcimento ai genitori, e il diritto di eliminare vecchi contenuti dal web. “Voglio essere la voce di questa generazione di bambini, perché so in prima persona cosa vuol dire non avere la possibilità di scegliere se avere o meno un’impronta digitale che poi ti segue per il resto della tua vita. Ero troppo piccola per capire cosa stava succedendo, questa continua esposizione ha messo a dura prova la mia salute mentale”.
Spesso i brand spingono gli influencer a usare i loro figli nelle campagne. I bambini svolgono azioni, dicono battute: il rischio è che diventi proprio lavoro minorile
E in Italia? Nel nostro Paese l’immagine della persona è tutelata da diverse norme: c’è il Gdpr, il regolamento dell’Unione europea che tratta la complessa materia della protezione dei dati personali, anche dei bambini. C’è la legge sul diritto d’autore, che prevede che nessun ritratto di una persona possa essere esposto senza il consenso. C’è la tutela della riservatezza dei dati personali prevista dal Codice della privacy, e c’è l’articolo 10 del Codice civile, che permette di chiedere la rimozione di un’immagine che leda la dignità di un soggetto, con un eventuale risarcimento danni. In tutte queste norme però c’è un’ambiguità, quando si parla di minori: il consenso necessario non è quello del soggetto, ma quello del suo rappresentante legale, cioè il genitore.
Cosa succede allora quando la volontà del genitore si scontra con la volontà del minore? Ancor prima della normativa, a rispondere è stata la giurisprudenza: paradigmatico è il caso di un ragazzo di 16 anni che ha fatto causa contro la madre che postava informazioni e foto senza il suo consenso. La vicenda si è conclusa nel 2018, quando il Tribunale di Roma ha stabilito non solo la rimozione delle immagini, ma anche il pagamento di 10 mila euro se la sentenza non fosse stata rispettata: si tratta di un precedente unico in Italia. “Ci tengo a fare la vita di un ragazzo normale”, ha dichiarato il giovane, che ha alle spalle una complessa storia familiare e che anche per questo ha scelto di trasferirsi a studiare negli Stati Uniti. “Lì ho più possibilità di lavoro: che speranza ho in Italia, dove tutti conoscono la mia storia?”.
La maggior parte dei casi giudiziari riguardano genitori che si separano e che si rivolgono al tribunale per chiedere di disattivare i profili dei figli o rimuovere le foto e i video pubblicati sui social dall’ex coniuge. Tanto che da qualche anno la materia è entrata a far parte delle condizioni dei ricorsi per separazione consensuale e divorzio. Già nel 2013 il Tribunale di Livorno aveva ordinato la disattivazione di un profilo Facebook aperto da un genitore a nome della figlia minore e l’eliminazione delle foto dal suo profilo. Nel 2017 il Tribunale di Mantova ha condannato una madre che si rifiutava di eliminare dai social le immagini della figlia, dopo che il padre aveva fatto causa. Nel 2021, un caso simile è stato esaminato dal Tribunale di Trani, che ha disposto la rimozione delle immagini di una bambina di 9 anni pubblicate su TikTok da una madre separata, condannandola a pagare 50 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento, con la richiesta che il denaro venisse essere versato su un conto corrente intestato alla figlia.
A novembre 2022 anche la garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti si è espressa sullo sharenting, per chiedere al governo di tutelare il diritto all’oblio e consentire ai minori di chiedere la rimozione dei contenuti indesiderati al compimento dei 14 anni. Finalmente, lo scorso marzo è arrivata la prima proposta di legge per tutelare i minori sul web: se approvata, la norma limiterà fortemente la possibilità di pubblicare video e immagini dei figli, e soprattutto di guadagnarci sopra. Il testo si ispira a una proposta di legge presentata in Francia, che nel 2023 è stato il primo paese a provare a normare lo shareting.
Il tema centrale è l’autodeterminazione personale: ognuno deve poter scegliere qual è l’immagine di sé che vuole diffondere in rete. L’obiettivo è anche di regolamentare lo sfruttamento online dell’immagine dei minori a scopo di lucro – pensando soprattutto ai profili degli influencer e dei baby influencer. Secondo i dati citati nella proposta, il tasso di interazione di contenuti che hanno come protagonisti i bambini è circa tre volte maggiore rispetto ai contenuti con solo adulti: per questo le immagini dei figli vengono utilizzate spesso anche a fini commerciali. La norma farebbe sì gli introiti vengano versati da chi esercita la responsabilità genitoriale in un deposito bancario intestato al bambino o alla bambina, che rimane inutilizzabile fino alla sua maggiore età. Solo in caso di estrema necessità l’autorità giudiziaria potrà rendere possibili prelievi anche prima di quel momento.
Business a tutti i costi
Nel dibattito sullo sharenting si parla molto dell’uso dell’immagine dei bambini a fini commerciali. Ci sono gli influencer, che pubblicano le foto dei loro figli per coinvolgere maggiormente il loro pubblico e ottenere più like e reazioni, e poi ci sono i baby influencer, bambini che entrano nel mondo digitale sin da piccoli, creando un loro profilo e arrivando ad avere milioni di follower. Il fenomeno è cominciato su YouTube e ora si è esteso a piattaforme come Tik Tok e Instagram. «Fino a pochi mesi fa, erano i brand stessi a spingere gli influencer a usare l’immagine dei loro figli nelle campagne», spiega Helio Di Nardo, ceo di Show Reel Factory, che nel 2011 è stata una delle prime agenzie di comunicazione italiane per content creator. «In alcuni casi ai bambini veniva chiesto di svolgere alcune azioni, o dire alcune battute già preparate. Ci siamo resi conto allora che questa maxiesposizione poteva avere risvolti pesanti: il rischio era che questo diventasse un lavoro minorile a tutti gli effetti, con routine rigide, ritmi, orari, impegni. Così abbiamo deciso di prendere delle contromisure: oggi molti creator hanno scelto di non pubblicare più le foto dei figli, e anche i brand si stanno adeguando. La cosa che manca ancora è una normativa chiara in merito».
Tra le prime YouTuber italiane a diventare famose quando erano minorenni c’è Lea Cuccaroni, che ha aperto il suo canale quando aveva 14 anni, arrivando ad avere più di 300 mila iscritti. «I miei genitori all’inizio non volevano», racconta. «L’idea che una ragazzina fosse su internet li spaventava». Nei suoi primi video Lea mostrava la sua cameretta, i trucchi che usava, il contenuto della sua borsetta: crescendo i contenuti sono cambiati insieme a lei, rispecchiando i suoi nuovi interessi. «Ho sempre condiviso la mia quotidianità: le piattaforme sono una sorta di diario personale che tiene traccia della mia evoluzione», spiega. «Il mio telefono è come l’estensione del mio braccio, fa parte della mia personalità». Da subito Lea ha avuto intorno a sé persone che l’hanno aiutata ad avere consapevolezza. «Sono sempre stata molto attenta: non ho mai mostrato dove abito, né ho mai pubblicato informazioni sensibili sulla mia vita. Per questo non ho mai sentito il bisogno di cancellare i vecchi contenuti: solo qualche mese fa ho nascosto alcuni video in cui cantavo, perché mi imbarazzavano».
Tra i creator che hanno cambiato approccio nel tempo rispetto al condividere le immagini dei minori ci sono Gaia Rota e Michele Cattaneo, che hanno una famiglia allargata con quattro figli e che hanno creato “La tenda in salotto”, profilo che conta 123mila follower. «L’obiettivo iniziale non era diventare famosi, ma creare un network di famiglie allargate», racconta Michele. «Nei primi tempi siamo stati ingenui sotto tanti punti di vista, in primis l’esposizione dei nostri bambini». Per questo Michele e Gaia, che all’inizio condividevano foto e video con i propri figli, adesso hanno scelto di non farlo più. «Il problema sta anche in tutte le informazioni di corredo alle immagini», aggiunge Gaia. «Oggi mi chiedo: mia figlia più grande avrebbe voluto far sapere al mondo intero di avere due papà? Magari no, ma ai tempi era troppo piccola per chiederglielo». Oggi Gaia e Michele fanno sensibilizzazione sul tema dello sharenting e hanno aperto l’associazione Incontrario, che si occupa di educazione al digitale. «I ragazzi hanno un livello di consapevolezza superiore rispetto a quello che immaginiamo, anche più degli adulti», afferma Michele. «Sono più coscienti dei rischi, e si rendono conto che l’approccio dei loro genitori con il cellulare è sbagliato».
A Roma, cinque studenti dello Ied tra i 20 e i 25 anni ha dato vita al progetto Cornici Private, proprio per sensibilizzare sul tema dello sharenting: hanno riempito le strade di Testaccio di cornici con immagini di bambini create dall’intelligenza artificiale, e sotto la scritta “Metteresti tuo figlio per strada?” Il progetto si è poi diffuso anche a Bologna. «Davanti alle nostre cornici le persone si bloccano e osservano», spiega Francesca Verini, tra le ideatrici del progetto. «Le foto di un bambino creano un effetto inquietante quando sono spiattellate per strada. E allora perché sui social dovrebbe essere diverso?». Ogni foto ha un suo Qr Code che rimanda al sito, dove è disponibile un catalogo di immagini e storie non vere, ma verosimili, realizzate a partire dalle informazioni realmente pubblicate sui profili di alcuni genitori. «Il concetto che deve passare è che, prima ancora di essere figli, i bambini sono persone», conclude Pietro Ferrara. «Con il proprio diritto di scelta».
Mia madre ha messo un mio video su Facebook senza il mio permesso”. “Questa cosa mi ha dato più o meno fastidio perché non mi ha avvertito”. “Mi sono arrabbiato tanto perché ero imbarazzato”. In Italia, ogni anno i genitori pubblicano in media 300 foto dei figli sui social, quasi una al giorno. E prima […]