Nelle sere d’inverno, quando arrivavo in vicolo Zara a Fermo e vedevo dall’esterno la luce accesa sul riquadro delle finestre della casa di Mario, suonavo il campanello, e lui subito apriva il portone chiedendomi affettuoso di entrare, stringendomi subito dopo in un abbraccio. Quella era la casa delle partenze, degli infiniti ritorni, il luogo dove sul tavolino del tinello potevi trovare la diapositiva con un ritratto di Sartre o di Samuel Beckett, “il fotofobico” che alla fine si era concesso all’obiettivo del grande fotografo umanista, o le stampe con il racconto della guerra di Spagna, mito politico e iconico per via del miliziano di Robert Capa.
Quando nel ’59 Dondero riuscì a riunire sotto le Éditions de Minuit gli autori del “Noveau roman”, da Mauriac al “fotofobico” Beckett
Nel bar sotto casa dall’arredamento retrò, che gli ricordava il Jamaica, dove andavamo a bere un bicchiere, Mario al biliardo dava battaglia con la stecca misurandosi con giovani manovali e avventori sconosciuti, con i quali faceva “corsi accelerati di super amicizia” come li chiamava, e intanto infaticabile raccontava. Raccontava i suoi tanti appuntamenti con la Storia come l’angelo di Benjamin, quello che aveva scritto che “una foto vale cento parole”, raccontava di quando aveva portato tutti gli attori della Compagnia teatrale della Cantatrice Calva nella casa di Eugene Ionesco a Parigi sbalordendo il maestro del Teatro dell’assurdo; e di quando nel 1959 aveva radunato sotto le Éditions de Minuit gli autori del Noveau roman Alain Robbe Grillet, Claude Simon, Claude Mauriac, l’editore Jerome Lindon, Robert Pinget, Samuel Beckett, Nathalie Sarraute e Claude Ollier.
Scatti diventati leggendari. Mario era un curioso degli altri, poteva empaticamente fotografare un contadino turco, un pastore irlandese o i diffusori de L’Unità nelle campagne emiliane con la stessa intensità di quando fotografava divi del cinema come Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli o il grande Orson Welles sul set de La ricotta, il volto severo e pensoso dello scrittore maledetto Jean Genet o Paolo Volponi a Urbino.
Andare in quella piccola casa del quartiere storicamente proletario della mia città significava scoprire nella libreria Omaggio alla Catalogna di Orwell, i reportage di Kapuściński, I dannati della terra di Fanon, vedere alle pareti le vedute marinare, i ritratti di Robespierre e del comandante Nord de Il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, e sembrava di sentire le voci guardando le foto degli operai della Renault in sciopero, le barricate del ’68 francese e Herbert Marcuse che parla agli studenti della Sorbona in un’aula incendiata di luce, Fidel Castro o Arafat alla conferenza dei Paesi non allineati. Quando la storia accelerava Mario c’era. In Portogallo, durante la Rivoluzione dei garofani nel 1974, al processo Panagulis ad Atene nel 1967 quando sfidando la polizia scattò una foto memorabile, passò il rullino a Camilla Cederna prima di essere fermato, e l’immagine del rivoluzionario greco fece il giro del mondo.
Il ribelle Alekos che sfidò i colonnelli greci e i tavolini anticonformisti con Sartre e de Beauvoir
In Africa aveva raccontato le guerre di liberazione, e negli ultimi anni era stato a fianco di Emergency nei teatri di guerra a Kabul e nella Valle del Panshir. Guidato da un solo credo: “l’eccesso di estetica uccide la verità.” Di questa sua lunga esperienza di testimone della storia e di partigiano dell’umanità, sempre militante e dalla parte degli ultimi con spirito libertario, c’è una foto scattata alla festa degli alberi di Accettura di struggente poesia, L’uomo che voleva raggiungere la luna che bene racconta l’utopia vivente, quotidiana, vissuta da questo fotografo zingaresco e ribelle.
Fidel alla linea ma mai allineato: Castro alla conferenza di Algeri nel 1973 con il suo fedelissimo Carlos Rodríguez, lo “zar” di Cuba. E a Lisbona sbocciano “Garofani”
Pasolini, nel nome della madre
Vittorio Gassman, in posa amletica
Stefania Sandrelli e il “Divorzio all’italiana”
L’uomo che voleva raggiungere la luna
Mario Dondero
Milanese, classe 1928, cittadino del mondo, vissuto tra Parigi, Roma e – negli ultimi anni – Fermo, eletta a sua dimora del “buen retiro”.
A sedici anni, nel 1944, si unisce alla brigata partigiana in Val D’Ossola e poi con la Brigata Garibaldi partecipa alla Liberazione. Nel dopoguerra si appassiona al giornalismo come forma di impegno politico e, frequentando il bar Jamaica a Milano, conosce fotografi e scrittori (da Berengo Gardin a Bianciardi) a cui si lega per la vita. Inizia a fotografare per cronaca. Tra il 1954 e il 1968 si stabilisce a Parigi, dove realizza alcune tra le sue foto più celebri e dove partecipa al fermento che darà vita al Sessantotto. A partire dagli anni ’70, lavorando con importanti testate (tra cui Newsweek, L’Espresso, Le Monde) realizza grandi reportage dall’Africa a Cuba, dalla Grecia al Portogallo. Continua a prender parte agli eventi che cambiano la storia, è a Berlino nel 1989 subito prima della caduta del muro e in Afghanistan nel 2006 con Emergency. Muore a Fermo nel 2015.
Casa Dondero, un contributo per farne un museo
L’associazione Altidona-Belvedere, che cura l’archivio di Mario Dondero (circa 200 mila diapositive e 250 mila negativi in bianco e nero) sta raccogliendo fondi per acquistare l’abitazione del fotografo a Fermo, nelle Marche, e trasformarla in una casa-museo. Servono 30 mila euro. Chi volesse contribuire, può farlo entro il 31 ottobre con un versamento (Iban IT96T0615069640CC0130120838). Informazioni su www.altidonabelvedere.it, o via mail a info@fototecafermo.it.
Nelle sere d’inverno, quando arrivavo in vicolo Zara a Fermo e vedevo dall’esterno la luce accesa sul riquadro delle finestre della casa di Mario, suonavo il campanello, e lui subito apriva il portone chiedendomi affettuoso di entrare, stringendomi subito dopo in un abbraccio. Quella era la casa delle partenze, degli infiniti ritorni, il luogo dove […]