La difficoltà principale era la pioggia. Il resto, invece, deve essere stato un lavoretto facile facile. Bisognava entrare da una finestra al piano terra: la grata era talmente bassa che forzarla sarà stato un gioco da ragazzi. Non c’era alcun guardiano notturno, gli allarmi e le telecamere sarebbero arrivati molti anni dopo. Per scassinare il bottino, invece, è bastata una mano abituata a usare la lama. Il problema era la pioggia: la refurtiva rischiava di rovinarsi. Decisero quindi di arrotolarla dentro a un tappeto: idea bizzarra, ma efficace. Il colpo era riuscito e nessuno si era accorto di niente. Qualcuno disse solo di aver notato dei ragazzotti incappucciati: stavano caricando qualcosa su un furgone, un vecchio Fiat 642. Poi più nulla. È la notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969 e a Palermo è stato appena messo a segno uno dei furti d’arte più clamorosi di sempre. Un colpo che è subito diventato un caso, talmente affascinante da ispirare la fantasia di scrittori e registi. E che dopo più di mezzo secolo è ancora senza soluzione.
Avvolto in un tappeto sotto il temporale, infatti, c’era un quadro, anzi una tela: la Natività con i santi Lorenzo e Francesco di Michelangelo Merisi. Considerato tra le opere più commoventi del Caravaggio, è forse il dipinto più leggendario di tutta la storia dell’arte. Di sicuro è il più ricercato, nel vero senso della parola. Da quella notte di pioggia, infatti, quel quadro è praticamente scomparso, svanito, evaporato. Che fine ha fatto? Cinquantacinque anni di soffiate, rivelazioni e indagini non sono bastati per rispondere a questa domanda. Anche perché a un certo punto quel quadro nessuno lo cercava più: era opinione diffusa che fosse andato distrutto subito dopo il furto. Troppo rozzi quei ladri: arrotolarono la tela in modo talmente brutale da rovinarla per sempre. E siccome si era danneggiata, tanto valeva bruciarla. Questa, però, non è la verità, ma solo una delle tante imposture che hanno costellato la tormentata storia del Caravaggio perduto. Una pista falsa, smentita definitivamente dalla commissione Antimafia, che ha escluso l’ipotesi della distruzione. Nel 2017, infatti, un’indagine di Palazzo San Macuto ha ricostruito come l’opera sia stata rubata da piccoli malavitosi, per poi finire in mano a importanti boss della mafia, che la piazzarono all’estero in cambio di una grossa somma di denaro. Da lì è partita l’ultima inchiesta della procura di Palermo: ancora oggi l’aggiunta Marzia Sabella è a caccia del dipinto, come fosse l’ultimo grande latitante della storia di Cosa nostra.
Quella notte notarono dei ragazzi incappucciati che caricavano qualcosa su un furgone. Pioveva: l’opera fu avvolta dentro un tappeto
Trecentosessant’anni in una chiesa
Esattamente come avviene per i ricercati più pericolosi, in effetti, anche il Caravaggio perduto ha la sua scheda identificativa, diffusa in tutto il mondo: è alto due metri e 68 centimetri, largo quasi due e ha un valore di mercato che supera i venti milioni di euro. L’Fbi l’ha inserito tra i dieci crimini d’arte più importanti del mondo insieme a quattro opere (Matisse, Picasso, Dalì, Monet) rubate a Rio de Janeiro nel 2006 e a un violino Stradivari svanito a New York nel 1995. In questa speciale classifica il Caravaggio è il furto d’arte più antico. Fino a quella notte del 1969 era stato custodito all’interno dell’oratorio di San Lorenzo, nel centro storico di Palermo. Era lì da 360 anni: dicevano fosse stato completato nel 1609, durante il soggiorno palermitano del Caravaggio. Nenche questa, però, è la verità. E non solo perché probabilmente Merisi non ha mai messo piede a Palermo. «Le radiografie compiute sul quadro nel 1951 dimostrano che la tela era molto diversa da quelle usate in Sicilia nel ’600», racconta il ricercatore Michele Cuppone, autore del libro Caravaggio, la Natività di Palermo: nascita e scomparsa di un capolavoro. Merisi, infatti, dipinse la sua opera a Roma per la Compagnia di San Francesco, una confraternita che aveva la sua sede all’oratorio di San Lorenzo. Ecco perché nel quadro vengono raffigurati i due santi, Francesco d’Assisi e Lorenzo, in adorazione di Gesù bambino. «L’opera fu pagata in totale duecento scudi», spiega Cuppone, «la consegna avvenne sempre a Roma, all’interno di Palazzo Madama, cioè praticamente negli stessi luoghi dove quattro secoli dopo l’Antimafia avrebbe fatto ripartire le indagini sulla scomparsa».
L’articolo di De Mauro e la tela tagliata
A parte qualche prestito (nel 1951 fu esposto al Palazzo Reale di Milano, nel 1965 al Louvre di Parigi), per più di tre secoli quel quadro è rimasto sull’altare maggiore dell’oratorio di via Immacolatella, nel cuore del quartiere della Kalsa, dove in pochissimi conoscevano il suo reale valore. «Due mesi prima del furto, però, del quadro si parlò in televisione», ricorda ancora il ricercatore. È in quell’occasione che i ladri scoprirono l’esistenza del tesoro? Probabile. Di sicuro c’è solo che nel primo pomeriggio di sabato 18 ottobre la custode dell’oratorio compie la più amara delle scoperte: la pala con la Natività non c’è più. Al suo posto solo un enorme buco al centro della cornice.
“Caravaggio da un miliardo rubato a Palermo”, titolò in prima pagina Il Giornale di Sicilia. “Forse diviso in tre il Caravaggio rubato a San Lorenzo”, si leggeva sul quotidiano L’Ora, già pochi giorni dopo il furto: una notizia che in quel momento non era nota neanche agli investigatori. A firmare quell’articolo era il giornalista Mauro De Mauro, che un anno dopo avrà un destino molto simile a quello del quadro: svanirà nel nulla, senza lasciare traccia. A commentare il caso sulle colonne de L’Ora fu anche lo scrittore Leonardo Sciascia: ne rimase talmente colpito che anni dopo dedicò alla vicenda il suo ultimo racconto, uscito postumo, Una storia semplice.
Si era subito diffusa l’idea che si trattasse di un furto su commissione, ma l’unico “service” in grado di farlo era Cosa nostra
La soluzione del rebus, però, era piuttosto complicata. Si diffuse subito la convinzione che quello era un furto su commissione. A Palermo, però, l’unico service in grado di compiere lavori di questo tipo si chiama Cosa nostra. Solo che all’epoca era complicato persino pronunciare la parola mafia in pubblico, figuriamoci ottenere notizie dall’interno dell’organizzazione. È anche per questo motivo che le indagini stentarono a decollare. Nel frattempo si moltiplicarono le piste fasulle: in più di quarant’anni i carabinieri del nucleo per la Tutela del patrimonio culturale hanno riempito decine di fascicoli con dritte farlocche, soffiate infondate, addirittura “trattative” con sedicenti “fonti confidenziali”. Il risultato? Sempre lo stesso: del Caravaggio neanche l’ombra.
Spatuzza e la porcilaia
Alcuni mitomani sostennero di essere stati bendati e poi condotti al cospetto della Natività: impossibile da dimostrare. Il giornalista britannico Peter Watson raccontò di aver ottenuto un appuntamento da un mercante d’arte che voleva vendergli il quadro. Doveva incontrarlo la sera del 23 novembre 1980, in provincia di Salerno, ma il terremoto in Irpinia mandò tutto in fumo.
Poi qualcuno cominciò a parlare pure dalla pancia di Cosa nostra. Vincenzo La Piana disse che il quadro era stato sotterrato in una villa di suo zio, Gerlando Alberti, detto ’u Paccarè, cioè l’imperturbabile. Boss della famiglia di Porta Nuova, il mandamento che includeva anche il quartiere dell’oratorio di San Lorenzo, Alberti avrebbe fatto seppellire la tela insieme a una partita di eroina e ad alcune mazzette di dollari. Gli investigatori scavarono a lungo, ma non trovarono mai nulla. Pure Gaspare Spatuzza, il pentito che ha svelato il depistaggio di via d’Amelio, aveva informazioni sul Caravaggio: spiegò di aver saputo da un tale che il quadro era stato conservato in una porcilaia, dov’era diventato cibo per topi. Ma nessuno aveva mai specificato che il quadro distrutto dai roditori fosse la Natività: fu Spatuzza a dedurlo. E si sbagliava. Nel frattempo sul dipinto si era ormai diffusa una leggenda: veniva esposto durante le riunioni della Cupola per dimostrare il potere dei boss. “Buffonate, non esistono queste cose! Cosa nostra è una delle organizzazioni più serie che esistano sul pianeta”, protestò Francesco Marino Mannoia, il chimico della Piovra, l’uomo che curava la raffinazione dell’eroina per i boss della vecchia mafia. Diventato collaboratore di giustizia, Mannoia sostenne davanti a Giovanni Falcone di avere personalmente bruciato il Caravaggio.
Anche quella, però, era una bugia. Lo ha confessato lui stesso, molti anni dopo, interrogato dalla commissione Antimafia: “Ero stressato – ha spiegato – avevano ammazzato i miei familiari… Ho detto che l’ho bruciato personalmente, per non essere più disturbato”. Poi ha raccontato come andarono le cose: all’epoca del furto lui non era ancora entrato in Cosa nostra, ma faceva parte di una “batteria” di rapinatori specializzati in furti di gioielli. È proprio quel gruppo di ladri che ideò il colpo all’oratorio di San Lorenzo. “Io quella sera non partecipai al furto perché ero con una ragazza, ma in precedenza ne avevamo parlato. Avevo visto il quadro all’oratorio, ero andato a vedere com’era la situazione logistica”. Subito dopo il colpo, la tela venne nascosta in una fabbrica di ghiaccio abbandonata. Conservata in una cella frigorifera, venne poi mostrata a un possibile compratore, che però fece saltare tutto. “Ci chiamò criminali, in modo offensivo, poi se ne andò”. A quel punto la tela venne di nuovo arrotolata e portata via da uno dei componenti della banda.
Dove? Mannoia lo ignora. Mentre parla, il pentito non sa che la commissione ha già scoperto il seguito della storia. A svelarlo è stato un altro collaboratore di giustizia: Gaetano Grado, meglio noto come Tanino. Uomo di mondo, fedelissimo dei vecchi mammasantissima, narcotrafficante con base a Milano e cuore in Sicilia, da pentito Grado ha raccontato i presunti e mai dimostrati investimenti di Cosa nostra nell’impero di Silvio Berlusconi. Nessuno, però, gli aveva mai chiesto del Caravaggio. Quando lo fanno, lui comincia a cantare. Racconta che due giorni dopo il furto si era presentato a casa sua don Tano Badalamenti, lo storico capomafia di Cinisi, noto – tra le altre cose – per aver ordinato l’omicidio di Peppino Impastato. “Mi dice che hanno rubato ’sto quadro e ha sentito che ha un valore inestimabile. Lui lo chiamava ’u Caravaggiu”. Il vecchio boss gli aveva chiesto di recuperare la tela. Tanino aveva subito trovato gli autori del colpo, ordinandogli di consegnare il quadro, in cambio di un regalo: “Hanno pigliato 4 o 5 milioni di lire”.
La commozione del trafficante
In questo modo ’u Caravaggiu è finito a Cinisi, nella casa di don Tano. Ci sarebbe rimasto poco. “Badalamenti aveva grandi amicizie, aveva fatto venire un ricettatore dalla Svizzera, un uomo molto anziano che ricettava quadri”. Il mercante d’arte si era spinto fino alla Sicilia per analizzare la refurtiva. “Quando ha visto il quadro, si è seduto e ha detto: per favore, fatemelo guardare”. Al cospetto del Caravaggio, lo svizzero si sarebbe addirittura commosso. “Piangeva, piangeva… Badalamenti l’ha preso per stupido: ’stu scimunito – detto in siciliano – guardava il Caravaggio e gli sono spuntate le lacrime. Era appassionato proprio”.
L’affare si concluse subito, anche se il mercante spiegò che così il quadro era invendibile: andava diviso, cioè scomposto in più parti. “Poi ho saputo da Badalamenti che è stato tagliato in quattro pezzi e venduto”, ha specificato Grado, che per il disturbo venne ricompensato con cinquantamila franchi svizzeri. Solo una piccola parte di quanto incassato da don Tano: “Questo vecchio era sceso a portare non so quanti milioni di franchi svizzeri”. Il pentito ricorda che il quadro era ancora integro, forse “un po’ sfilacciato ai lati perché avevano tolto la cornice, dicevano che lo avevano tagliato con una lametta, qualcosa del genere”.
Secondo il pentito Gaetano Grado, il dipinto finì al boss Badalamenti, che poi lo vendette a un mercante svizzero. Nessuna prova che sia stato fatto a pezzi
In Svizzera, in ogni caso, venne spedito intero. “Era molto voluminoso. So che è stato trasportato con un camion grande con la copertura, di quelli per la frutta”. Nessuno, insomma, vide mai la Natività fatta a fette. A spezzettarla sarebbe stato lo stesso uomo che quando l’aveva vista si era messo a piangere per l’emozione: come fa uno che si commuove davanti a un quadro a farlo a pezzi? Il sospetto è che la storia della tela tagliata a fette sia solo l’ultima bugia sul destino del Caravaggio perduto.
Più di Matteo Messina Denaro
Secondo gli investigatori, infatti, è probabile che la necessità di scomporre il quadro per riuscire a venderlo sia stata un bluff, un escamotage dello svizzero per ottenere un prezzo più basso da don Tano. Chi era dunque quel trafficante? “Non so precisare il nome, ma era molto anziano, sui settant’anni e più”, ha detto Grado. Quell’uomo era morto da tempo, ma il pentito è riuscito a riconoscerlo in alcune foto che gli sono state mostrate dall’Antimafia. È da qui che è cominciata l’ultima indagine della procura di Palermo. Tutti i reati di questa vicenda sono ampiamente prescritti, ma c’è ancora un Caravaggio da recuperare, quello perduto: che fine ha fatto?
Chi indaga è convinto di due cose: il quadro è integro, non è mai stato scomposto e negli anni successivi ha continuato a passare di mano, cambiando proprietario, nascondiglio e persino Paese. Di sicuro non è più nelle disponibilità di Cosa nostra. Se i boss lo avessero posseduto ancora, infatti, l’avrebbero messo sul piatto al momento giusto. Per esempio nel 1993, durante le stragi, quando si cercò d’intavolare l’ennesima trattativa con lo Stato: l’alleggerimento delle condizioni carcerarie per i detenuti mafiosi in cambio di alcuni dipinti trafugati. Tra le opere del negoziato, però, il Caravaggio non c’era. Segno che era ormai altrove: dalla Sicilia alla Svizzera e poi chissà dove. A un certo punto, tra i possibili acquirenti spuntò anche il nome del barone Hans Heinrich von Thyssen-Bornemisza, esponente della storica famiglia industriale tedesca e titolare di una collezione di pregio che all’epoca era custodita a Lugano. Pure questa pista, però, si è rivelata completamente infondata. Nessuna traccia della Natività neanche tra le opere sequestrate a Giovanni Becchina, mercante d’arte con base in Svizzera, ma originario di Castelvetrano: è accusato di aver finanziato Matteo Messina Denaro. L’ultimo inafferrabile di Cosa nostra è finito nella rete nel 2023, dopo una latitanza durata quasi trent’anni. Quella del Caravaggio perduto, invece, comincia ad andare verso i sessanta.
La difficoltà principale era la pioggia. Il resto, invece, deve essere stato un lavoretto facile facile. Bisognava entrare da una finestra al piano terra: la grata era talmente bassa che forzarla sarà stato un gioco da ragazzi. Non c’era alcun guardiano notturno, gli allarmi e le telecamere sarebbero arrivati molti anni dopo. Per scassinare il […]