Arte, la “galleria” Agnelli: Follow the Monet
Inchieste

Arte, la “galleria” Agnelli: Follow the Monet

E ancora: Picasso, Balla, De Chirico, Bacon, Balthus... 660 capolavori dispersi nel mondo per non finire nei processi sull'eredità contesa. Ma fuori dall'Italia non potevano andare

di Ettore Boffano & Manuele Bonaccorsi

Immaginate, a Torino, un museo con 660 opere d’arte che vanno da Canaletto e Bronzino a Klimt, Picasso, Klee, Warhol, Bacon, e poi Canova, Balla, De Chirico, Modigliani. Sei volte più grande del Guggenheim di New York. Immaginate, anche, la fila di turisti che l’avrebbe visitato ogni giorno, gli studiosi e i critici che avrebbero scritto libri e cataloghi, la fama planetaria che la città della Mole, orfana della Fiat e dell’auto, ne avrebbe ricavato. Orfana due volte, invece, è Torino: e per la morte dello stesso padre. Parliamo infatti della collezione di quadri e sculture di Gianni Agnelli, del valore di miliardi di euro. Avrebbe potuto rendere immortale la fama del suo creatore, grande appassionato d’arte. Invece – al netto di appena 25 opere, oggi esposte nella Pinacoteca del Lingotto – quel tesoro di cultura e bellezza è finito disperso per il mondo, sbrindellato nello scontro ereditario tra la figlia dell’Avvocato, Margherita, e i nipoti (e figli di lei) John, Lapo e Ginevra Elkann.

Il “divieto” firmato dal fascista Bottai

Affari privati – si dirà – ma fino a un certo punto. Perché le opere d’arte, quelle davvero importanti, anche se di proprietà privata, in un certo senso sono di tutti noi, sono un bene comune. Lo dicono la Costituzione, all’articolo 9, e un codice nato da un fascista (il meno peggio tra i complici di Mussolini, spiegano gli storici: finì a combattere contro i nazisti con la Legione Straniera francese): cioè la legge sui Beni Culturali di Giuseppe Bottai. E sulla base di quelle norme, dunque, le opere di grande valore artistico non devono lasciare il territorio nazionale. Invece, i Klimt e gli Schiele sono in Svizzera. Il Picasso a New York. I Bacon sono stati esportati e venduti a Londra. I Canova chiusi in uno scantinato. I De Chirico e i Balla: spariti per anni. Le altre opere disperse nelle tante dimore degli eredi di Gianni Agnelli. Nascoste nei caveau e nelle casseforti, per non finire nei processi penali e nelle azioni civili degli avvocati dell’una e dell’altra parte.

Con la madre (Margherita) che accusa i figli; e i figli che, secondo i pm, si sarebbero spartiti come brandelli dell’abito di Cristo la collezione d’arte del nonno, un attimo dopo la morte della nonna (Marella Caracciolo, la consorte dell’Avvocato). Facendo passare, sostiene sempre l’accusa, opere di Monet, Warhol e Balthus per regali ai nipoti prediletti, in modo da sottrarli all’eredità contestata: 170 milioni di euro di “pensierini” per il compleanno, stimano gli uomini della Finanza di Torino. Non sarà la spoliazione che fecero gli archeologi tedeschi degli scavi di Troia, ma – se fosse davvero provato – poco ci manca. Cercare di entrare nei “segreti e bugie” che regnano attorno a quella collezione, è impresa difficile. E però, al tempo stesso, molto avvincente.

Nella casa romana dell’Avvocato troneggiavano gli amatissimi De Chirico e Balla:
sparizioni, copie e poi rieccoli nella villa di John Elkann a St. Moritz

Mistero e melanconia di una strada di Giorgio De Chirico, per esempio: è una delle più iconiche opere d’arte del Novecento italiano. Il maestro della metafisica la dipinge nel 1913, e come era solito fare, ne realizza un’altra versione negli anni ’50, oggi custodita nel museo Bilotti di Roma. Ma la prima, quella originale e la più preziosa (è stimata 20 milioni di euro), la possedeva il “signor Fiat”, appesa nel salone del suo grande attico romano, a due passi dal Quirinale. Un quadro noto a tutti, specialmente ai numerosi amanti d’arte che frequentavano quella casa-museo che ospitava anche dipinti di Schifano, statue di Manzù, i “tagli” di Fontana e gigantesche opere di Balthus. Nella stesse stanze si trovava anche la Scala degli Addii di Giacomo Balla, il più importante e quotato futurista italiano. Era la prima immagine che Gianni Agnelli vedeva aprendo gli occhi: era esposta nella sua camera da letto.

Capolavori degni sicuramente di essere sottoposti a tutela da parte del ministero dei Beni Culturali, con il corollario di un divieto assoluto di esportazione dal territorio italiano. Ma incredibilmente (o per semplice deferenza o per paura o entrambe) la Sovrintendenza alle Belle Arti romana ufficialmente non ne sapeva nulla. Dopo la morte dell’Avvocato, l’appartamento del Quirinale passò in “nuda proprietà” alla figlia Margherita, ma l’usufrutto restò alla vedova Marella: che lo frequentava saltuariamente. Poi, nel 2018, l’attico fu svuotato.

Il mistero di “Chesa Alkyone”

Secondo quanto emerge dalle ricerche della Guardia di Finanza – su ordine della Procura subalpina che indaga John, Lapo e Ginevra Elkann per frode fiscale e truffa ai danni dello Stato – in quello stesso anno le due opere sarebbero state impacchettate e spedite a Torino. Per poi sparire dai radar. Lo scorso 6 febbraio però, e a sorpresa, le Fiamme Gialle torinesi, comandate dal colonnello Alessandro Langella, si presentano in tutte abitazioni e gli uffici di John Elkann, il successore dell’Avvocato. Sequestrano documenti, cellulari, computer. Entrano anche in un caveau, nella palazzina degli uffici dell’ex fabbrica del Lingotto, di proprietà di Fca Partecipazioni. E qui trovano le due preziosissime opere, il Balla e il De Chirico. Sembrano vere, ma basta girare la tela per capire che si tratta solo di ottime copie. Dove sono finiti gli originali?

A rispondere a questa domanda è il rendiconto del patrimonio di Marella Caracciolo, redatto dal notaio svizzero Urs von Grünigen, esecutore testamentario. Il De Chirico e il Balla originali si trovano tra le montagne di Sankt Moritz, nella villa chiamata “Chesa Alkyone”, oggi passata a John. E qui il mistero si infittisce. Con quale permesso le opere sono uscite dal territorio nazionale? Perché la legge prevede il reato di “esportazione illecita di opere d’arte”, punito con la reclusione da 2 a 8 anni, 300 mila euro di multa e il sequestro dell’opera. Nel 2023, la trasmissione Report di Rai3 (che nella nuova stagione, in onda dal 27 ottobre, è tornata sull’argomento) aveva chiesto al ministero della Cultura un accesso agli atti, per conoscere l’esistenza di eventuali permessi di esportazione. Dopo mesi di ricorsi e controricorsi, dovuti al diniego opposto da John Elkann, il ministero ha mandato la sua risposta: non ne esistono. Due capolavori dell’arte italiana sono dunque perduti: il nostro Paese non li rivedrà più, è probabile per sempre.

La strana spartizione tra John, Lapo e Lavinia: Balthus, Bacon & C. finiscono “fuori lista”

Torniamo, a questo punto, indietro nel tempo. Il 23 febbraio 2019, muore a Torino la principessa Marella Caracciolo di Castagneto, vedova Agnelli: cittadina italiana, ma ufficialmente residente in Svizzera. Dopo la sua scomparsa i nipoti John, Lapo e Ginevra – sostiene la Procura – si sarebbero divisi i migliori pezzi dell’eredità. Sanno, infatti, che la madre Margherita da anni conduce una battaglia legale contro di loro, per invalidare un accordo, firmato proprio in Svizzera e nel 2004, nel quale la figlia dell’Avvocato rinunciava alla successione sui beni della madre Marella. E non dubitano che Margherita riuscirà certamente a entrare il possesso dell’inventario ufficiale di von Grünigen.

Qui comincerebbe “l’artifizio” ora contestato dai pm: alcune opere, le più importanti, non dovevano comparire nell’inventario. Nelle e-mail sequestrate a Torino dalla Finanza, si trovano alcuni file datati 2022 così intitolati: Scelte JE (cioè John Elkann), Scelte LE (cioè Lapo Elkann), Scelte GE (cioè Ginevra Elkann). Nel decreto di sequestro preventivo di 74,8 milioni di euro, chiesto e ottenuto dai pm Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Giulia Marchetti, si legge: “Si tratta di elementi che confermano la selezione post mortem, cioè a tavolino, dei beni della defunta Marella Caracciolo”. Valore totale delle opere divise tra i tre ereditieri: 170 milioni di euro.

“Ghiaccio” bollente

A John è toccato un prezioso quadro cubista, La Tour Eiffel rouge, di Robert Delaunay, oltre a un Warhol da 10 milioni di euro. Ginevra entra in possesso di un Bacon, raffigurante tre studi su un ritratto del nonno Gianni, di un altro Warhol dedicato a Marilyn Monroe, di un grande Balthus (Nu profile), oltre che di un paio di orecchini del valore di 78 milioni di euro. A Lapo finisce invece un’importante opera impressionista: il Glaçons, effet blanc (1894) di Claude Monet. Anche qui c’è qualcosa che non torna e, per rendersene conto, bisogna risalire addirittura agli anni ’90 del secolo scorso.

Sin da allora, infatti, decine di testimoni, tra amici e domestici dell’Avvocato, ricordano che il quadro si trovava a Villa Frescot, sulla collina torinese, nella frequentatissima sala da pranzo. Gianni muore nel 2003, ma il Monet resta al suo posto: lo certifica la documentazione in mano al pm di Milano Eugenio Fusco che, sull’eredità di Agnelli, aveva aperto una indagine nel lontano 2013. Eppure, un anno dopo, il quadro risulta venduto all’asta per 16 milioni di euro, battuta da Sotheby’s a New York. È la stessa opera? Secondo gli studiosi sì: nei cataloghi esiste solo un Monet con quel titolo e quella data. Si tratta forse di un falso? Ma davvero la principale casa d’asta del mondo può cadere nei trucchi di un falsario?

Azzoppato dagli scandali Sgarbi e Sangiuliano, che cosa farà ora il ministero per difendere i vari impressionisti & C.?

Il Glaçons riappare dieci anni dopo, nel febbraio scorso: è stoccato nel famoso caveau del Lingotto. Ma anche in questo caso, come per il De Chirico e il Balla, si tratta di una copia. Ora, comunque, è indicato tra le proprietà di Lapo; e gli autori delle e-mail interne all’amministrazione degli Elkann, che hanno fatto valutare i quadri proprio da Sotheby’s, affermano che si tratta dell’originale: valore 17,5 milioni di euro. Nessuno sa esattamente dove si trovi adesso il Glaçons: forse è anch’esso a Sankt Moritz, nella dépendance chiamata “Chesa Medzi”, o in Portogallo, dove Lapo risiede con la moglie.

Anche in questo caso, dall’accesso agli atti di Report, non risultano permessi di esportazione. Nel 2021, intanto, il legale di Margherita, Dario Trevisan, presenta al pm milanese Fusco un nuovo esposto. Denuncia la sparizione dalle case italiane della figlia dell’Avvocato, ereditate dal padre e per anni rimaste in usufrutto alla madre Marella, di numerose opere d’arte: almeno 39. L’indagine è poi stata trasferita per competenza a Torino dove la Procura, per ora, si limita a certificare il mistero: di molte di queste opere è sconosciuta la collocazione. Parliamo di dipinti come il Pope III e il Pope IV di Francis Bacon (valore per decine di milioni l’uno), un Picasso (Torse de femme), un Modigliani (Seated nude o Nu Chaste). Sono stati venduti? Sono usciti dal territorio nazionale?

Quel Rothko bloccato prima di lasciare l’Italia

Il destino di gran parte della collezione è ancora avvolto dalle nebbie. Non si conosce infatti neppure la sorte di alcuni tra i principali pezzi sicuramente finiti nella proprietà di Margherita Agnelli al momento della divisione con la madre nel 2004. Parliamo di capolavori assoluti, del valore di svariate decine di milioni l’uno. Un Arlecchino di Picasso, un Goya, numerosi Klimt, Klee e Schiele. Molte di queste opere si trovavano già all’estero, principalmente in Svizzera, Paese che non riconosce la nostra legislazione sui Beni culturali. Altre erano invece in Italia e Margherita ha provato a portarle all’estero. Ci è riuscita con una semplice autocertificazione per alcuni Bacon (l’arte contemporanea ha una procedura semplificata per l’esportazione), mentre i Beni Culturali hanno recentemente bloccato l’uscita dal Paese di un Rothko (Golden Composition), che non risulta però essere stato ancora sottoposto a tutela.

Altre opere importanti dovrebbero essere ancora in Italia. Nella casa di Roma, Gianni Agnelli aveva un Bronzino (Ritratto di Don Garcia de’ Medici), che non è vincolato e di cui non si hanno più notizie. Dall’accesso agli atti di Report, le opere della collezione Agnelli tutelate sono solo cinque: su 666. Alcuni gessi di Canova, che a quanto pare si trovavano nello scantinato di Villa Frescot; un Carrà (Ritratto di Marinetti) e un nudo di Modigliani, esposti nella Pinacoteca del Lingotto. E poi due opere di Bellini (Ritratto del Beato Lorenzo Giustiniani e Martirio di San Giovanni Battista) che, però, non sarebbero mai state esposte in pubblico. L’intera lista è stata ricostruita da Report la scorsa primavera. Ed è stata poi consegnata al ministero dei Beni Culturali, direttamente all’ex sottosegretario Vittorio Sgarbi e, infine, inviata per e-mail all’allora ministro Gennaro Sangiuliano. Entrambi hanno lasciato il loro incarico, per cause di forza maggiore, diciamo così. Il loro successore, Alessandro Giuli, avrà trovato un momento per leggere quell’elenco? E cosa intende fare per difendere non solo la Costituzione, ma anche il codice del fascistissimo Giuseppe Bottai?

Immaginate, a Torino, un museo con 660 opere d’arte che vanno da Canaletto e Bronzino a Klimt, Picasso, Klee, Warhol, Bacon, e poi Canova, Balla, De Chirico, Modigliani. Sei volte più grande del Guggenheim di New York. Immaginate, anche, la fila di turisti che l’avrebbe visitato ogni giorno, gli studiosi e i critici che avrebbero […]

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